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Korinthos brucia ancora

Dure proteste in Grecia nel centro di detenzione per migranti

Foto: en.closethecamps.org


A distanza di quasi un anno dall’esplosione del flusso migratorio massivo verso la Grecia la situazione sembra essersi attualmente polarizzata senza però aver perso di intensità o gravità. Mentre molti dei riflettori e delle informazioni continuano ad arrivare dai campi militari di Salonicco oppure dalle occupazioni abitative di Atene, tutto ciò che riguarda i centri di detenzione continua ad essere quasi invisibile come se ogni volta si cadesse in un buco nero.

Come in altre parti d’Europa anche in Grecia esistono e sono funzionanti diversi centri di detenzione per migranti senza documenti, sparsi su tutto il territorio e accomunati da condizioni di vita alquanto difficili e disumane. Tra i più famigerati ci sono Amigdalesa (Atene), Paranesti (Xanthi) e sicuramente Korinthos. Recentemente quest’ultimo è tornato ad essere al centro dell’attenzione anche se non in maniera adeguata a livello mediatico.

Il centro di detenzione di Korinthos si trova a 80 km di distanza da Atene e al suo interno vengono trasferiti principalmente migranti “economici/illegali” provenienti dalle isole, ad esempio di Lesvos o Chios, oppure dalla capitale soprattutto quando i centri di Amigdalesa o Elleniko sono sotto pressione. E’ costruito all’interno di una caserma della polizia locale dove, oltre al parco moto e diverse auto dismesse, troviamo anche quattro edifici di tre piani ciascuno. Gli edifici si trovano a una distanza di 200 metri uno dall’altro e sono completamente recintati. Infatti dopo una prima recinzione più esterna, si susseguono altre due recinzioni di sicurezza che separano ermeticamente ogni edificio rispetto all’altro, e permettono allo stesso tempo alla polizia di osservare e controllare i detenuti senza dover entrare in contatto con loro. I detenuti vengono ridistribuiti all’interno seguendo un principio di separazione e discriminazione, in ognuno degli edifici si rinchiudono unicamente una nazionalità alla volta. La versione ufficiale afferma che questo metodo serve per evitare conflitti interni, anche se in realtà i risultati non sembrano a favore di questo sistema.

Come vogliamo ricordare, il centro di detenzione, è stato riaperto nel dicembre 2015 in seguito al primo sgombero del campo di Idomeni avvenuto il 7 dicembre 2015. In questa data quasi 4.000 persone che si trovavano al campo, considerate indistintamente tutte migranti economici, vennero trasferite ad Atene in diversi campi allestiti in fretta e furia, ad es. il Taekwondo stadium.

Alcune settimane dopo, data la difficoltà a mettersi in contatto con certe persone, percepimmo chiaramente come la polizia greca stesse mettendo in atto un’azione di “pulizia sociale“. Alcune nazionalità vennero prese di mira: marocchini, algerini e pakistani erano le vittime principali. Solo nel mese di dicembre quasi 300 persone erano state spostate dai centri di accoglienza a Korinthos.

Reati contestati: assenza di documenti, nazionalità sbagliata, essere considerato un rifiuto indesiderato.

Anche se in precedenza abbiamo continuato a parlare indistintamente di centro di detenzione, Korinthos è un vero e proprio carcere, ed è meglio non continuare a illudersi perché l’equazione che afferma che in carcere ci va solo chi commette un reato nel caso dei migranti non è valida.

Ogni edificio al suo interno ha celle che ospitano fino a 12 persone alla volta, con la conseguenza di un forte senso di oppressione e che provoca molto spesso nervosismo.

La distribuzione del cibo avviene tre volte al giorno, e sono concesse due ore d’aria giornaliere in corrispondenza delle ore di visita.

I detenuti posso ricevere visite dalle ore 16 alle 18, nel patio, insieme a tutti gli altri senza che venga concesso uno spazio un po’ più discreto e intimo.

Come se ciò non bastasse all’interno i detenuti subiscono una forte pressione psicologica da parte delle autorità. Infatti, oltre alla dinamiche che si possono creare all’interno di un carcere, le testimonianze riportano che i detenuti non vengono informati sui loro diritti, ad esempio: è discrezione del direttore del centro permettere ai servizi sociali di entrare dentro, questo vuol dire che molti dei detenuti sono all’oscuro del fatto che possono effettuare la richiesta di asilo politico dall’interno, oppure non ne hanno fisicamente la possibilità.

La mancanza di informazione è tale che molti non sanno quanto tempo dovranno restare dentro; per legge da un minimo di 3 a un massimo di 18 mesi, e quindi non sono neanche a conoscenza che una volta rilasciati riceveranno un documento ufficiale che gli permetterebbe di restare sul territorio greco legalmente per un tempo corrispondente al periodo che sono stati rinchiusi.

Naturalmente tutto ciò non è affatto casuale, ma corrisponde a una ben chiara e definita politica dello Stato stesso, infatti l’unica vera e propria informazione che le autorità si prodigano a diffondere è relativa alla deportazione e il “rientro volontario” nel proprio paese d’origine.

Quando questa situazione, già di per sé esplosiva, si unisce ad un forte sentimento di ingiustizia e violenza, latente ma percepito da gran parte dei detenuti, si scatenano manifestazioni ed esplosioni di rabbia in cui si da libero sfogo al sentimento di impotenza che trasmette l’essere rinchiuso senza un motivo reale e chiaro.

Tutto ciò ha contribuito al fatto che questo luogo fosse spesso teatro di una serie infinita di scioperi della fame, proteste e veri e propri scontri contro i secondini. Le azioni sono sempre state delle più svariate: si passa dall’autolesionismo, per esempio mangiare lo shampoo, al lancio del cibo dalla finestra oppure direttamente dar fuoco alla propria cella.

A distanza di quasi un anno le testimonianze che riceviamo ci raccontano di una realtà che non è cambiata a cui si aggiungono, quotidianamente, le vessazioni e le prepotenze della polizia carceraria.

Dopo un anno dall’inizio del flusso massivo di migranti provenienti sia dal Medioriente e sia dal nord-Africa la situazione in Grecia attualmente sembra in un momento di stallo e di attesa snervante.

Chi viene considerato un “rifugiato” è parcheggiato nei campi militari in attesa di concludere le procedure burocratiche di Relocation, Riunification o Asilo politico, mentre per chi è considerato “migrante” le alternative all’illegalità praticamente non esistono.

Le testimonianze e i video risalgono all’ultima protesta avvenuta dentro il centro di detenzione il 27 ottobre 2016 in cui si vede chiaramente come i detenuti per protestare contro le condizioni degradanti in cui sono costretti a vivere decidono di appiccare il fuoco dentro alcune celle e nel corridoio.