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300 migranti intercettati al largo del Senegal dai pattugliamenti congiunti dell’agenzia Ue. Ma come funzionano e cosa significano veramente questi nuovi dispositivi di controllo della mobilità?

Medsea, Pev, Frontex, Iconet, Eurosur, Europol… sono questi i termini che bisogna essere in grado di decifrare per interpretare il processo costitutivo di questa nuova Europa.
Sigle e acronimi che hanno tutti una caratteristica comune: dietro il gioco di queste poche lettere incrociate tra loro sta l’ombra lunga dell’insicurezza evocata dai poteri vigenti per giustificare pratiche di controllo e repressione sempre più spinte.
Lo spunto per rifletterci sopra una volta di più lo danno poche notizie confuse che risalgono a qualche giorno fa. Il 23 marzo un comunicato dell’ambasciata italiana in Spagna ha spiegato come, il giorno prima, una pattuglia italiana al lavoro per Frontex avesse intercettato al largo di Dakar un’imbarcazione battente bandiera nord-coreana, con a bordo 300 “migranti illegali” di origine indiana e pakistana. Nello stesso comunicato viene esternata la soddisfazione per la riuscita di un’operazione che testimonia una volta di più la grande collaborazione tra paesi che lavorano nell’ambito di Frontex. Quel che non viene detto nel documento è che fine farà quella barca. Si afferma solo, in modo vago, che le trattative per i rimpatri dei suoi passeggeri sono state avviate dal governo spagnolo. Uno dei capitani senegalesi membri di Frontex ha quasi contestualmente smentito che la barca si trovasse in acque senegalesi e che sia stata intercettata.
Al di là del reale svolgimento dei fatti (che a noi interessa solo nella misura in cui ci auguriamo la miglior sorte possibile per i migranti in questione), questo episodio ci serve come occasione per parlare ancora di quanto sta avvenendo alle nostre frontiere. Di cosa queste rappresentino. Di quanto sia sempre più difficile dar loro una collocazione precisa raffigurandole per come le carte geografiche ce le hanno raccontate per secoli e ce le raccontano ancora.
Frontex è l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne dell’ Ue e ha il compito sostanziale di fornire assistenza tecnica per rafforzare tale cooperazione tra gli stati membri cui è ancora deputata la sorveglianza delle loro frontiere esterne. Si assiste così a un sistema in cui attori diversi tra loro (gli stati membri in quanto stati nazione e l’Ue tramite una sua agenzia) intrecciano diversi poteri di sorveglianza e controllo su uno stesso territorio che, per così dire prende forma, diventa la “frontiera esterna” in questione, nel momento in cui una barca con a bordo delle persone che rivendicano il diritto della libera circolazione lo attraversa.
Frontex è parte integrante di quel “modello europeo di gestione integrata delle frontiere”, nell’ambito del cosiddetto “approccio globale in materia di immigrazione” proposto nel 2005 dal Consiglio d’Europa e diventato uno dei principi cardine dell’Unione. A questo scopo si è iniziato a parlare di “squadre di intervento rapido alle frontiere”, di una “rete permanente di pattuglie costiere”, e persino di “centri di comando regionali” coordinati da Frontex per rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali dell’Ue dividendo il mediterraneo in quattro zone da controllare.

Per finanziare simili operazioni esistono risorse come il “fondo per le frontiere esterne” che prevede lo stanziamento di 1,82 miliardi di euro per il periodo compreso tra il 2007 e il 2013. tanto per continuare a dare un po’ di numeri il bilancio per Frontex nel 2007 è di 33.98 milioni di euro. Diverse operazioni sono già state attuate, il Senegal e la Mauritania collaborano attivamente garantendo la possibilità di pattugliare all’interno delle proprie acque territoriali. Con altri paesi come la Libia le forme della cooperazione sono in via di contrattazione. E fermare le persone che partono quando si trovano ancora nelle acque territoriali del paese che stanno lasciando significa negare non solo l’ingresso libero dei migranti nei territori che questi tentano di raggiungere, ma anche quel famoso diritto all’emigrazione che è, seppur genericamente e senza garanzie specifiche, sancito dalla Dichiarazione Universale del ’48.

Al di là dell’evidenza di come l’interesse reale non sia realmente quello di arrestare i movimenti migratori, ma piuttosto di controllarli per “metterli a valore” nel modo più conveniente, l’enfasi posta dai nostri governi sulla gestione delle migrazioni e sul controllo delle frontiere ci racconta molto altro. Sembra cioè che tutto ciò che gli stati membri dell’Unione europea riescano a condividere veramente tra loro e le uniche cose sulle quali entrino in rapporto e cooperino con stati terzi come quelli africani, siano i principi della sicurezza, del controllo, della sorveglianza. Ecco la miseria del progetto e della visione del mondo portati avanti dalla nuova Europa istituzionale che, trovando poco altro di positivo su cui costruirsi, deve imbellettare i freddi rapporti di collaborazione nel pattugliamento congiunto dei confini scomodando addirittura i principi della “solidarietà” reciproca che il Consiglio e la Commissione raccomandano agli Stati che collaborano in Frontex. E anche all’interno dei singoli Stati buona parte della propaganda politica dei governanti europei di tutti gli schieramenti si basa sulla stessa evocazione di paure e consequenziali necessità di controlli e messa in sicurezza dei propri territori portando leader formalmente distanti tra loro come Sarkozy e Zapatero a insistere entrambi sull’importanza di Frontex e a fare del finanziamento di questa agenzia un vanto nei confronti dei propri cittadini.

Quello che ovviamente scompare dietro tutto questo sono le persone che cercano di attraversare le frontiere e che a volte sembrano quasi diventare la scusa per la rappresentazione, la messa in scena di poteri in via di definizione che cercano nuovi equilibri per affermarsi.
Ma, per fortuna, c’è anche altro che le politiche dichiarate dell’Ue, le comunicazioni dei Consigli e delle Commissioni, le parole dei governanti degli stati membri non raccontano dell’Europa. Non raccontano, cioè, di come la sua realtà sia fatta anche di rivendicazioni sempre più irresistibili di diritti nuovi, di percorsi che si incontrano e condividono strategie di resistenza, di energie che studiano i processi in atto per modificarne le sostanza, di persone che stanno imparando a costruire liberamente la propria visione del mondo e la propria maniera di abitarlo.

di Alessandra Sciurba, Melting Pot