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L’Italia e il regime euro-africano dei controlli migratori

di Paolo Cuttitta, Università di Palermo

A occupare le prime pagine dei quotidiani e le copertine dei telegiornali, nei giorni scorsi, non è stata l’ennesima storia di naufragi e di morte ma la fuga di oltre mille stranieri dal centro di trattenimento di Lampedusa, riempitosi all’inverosimile nel corso delle ultime settimane.
Il sovraffollamento della struttura è stato causato non tanto da arrivi più numerosi del solito quanto dalla scelta del governo di non procedere più a trasferimenti di stranieri (siano essi “semplici” immigrati irregolari o richiedenti asilo) verso altri centri situati in Sicilia o in altre regioni italiane.
Intanto, in questi stessi giorni, il governo e il parlamento sono impegnati su due fronti. Uno è quello della ratifica di un accordo con la Libia, già approvato dalla camera (con il voto favorevole non solo dei deputati della maggioranza ma anche di molti deputati del partito democratico) e ora in attesa di approvazione da parte del senato (il voto è previsto entro il 31 gennaio). L’altro fronte è quello di una nuova intesa con la Tunisia, la cui conclusione è stata annunciata per martedì 27.
La ratifica dell’accordo con la Libia (si tratta dell’accordo di amicizia concluso dal governo Berlusconi nell’agosto 2008) dovrebbe consentire l’avvio delle attività previste da un precedente accordo (concluso dal governo Prodi nel dicembre 2007), cioè l’impiego di personale italiano in operazioni di pattugliamento e controllo delle acque territoriali libiche, oltre che la fornitura di ulteriori mezzi tecnici e finanziari che si sommeranno a quelli già forniti dall’Italia alla Libia negli anni scorsi.

Del nuovo accordo con la Tunisia non si conosce il contenuto preciso ma si sa che dovrebbe consentire i rimpatri dal territorio italiano dei cittadini tunisini in posizione irregolare – rimpatri la cui esecuzione, nonostante gli accordi di riammissione e di cooperazione di polizia già conclusi nel 1998 e nel 2003, sembra attualmente incontrare delle difficoltà. Poiché quasi due terzi delle circa 1.800 persone al momento trattenute a Lampedusa sono cittadini tunisini, il nuovo accordo dovrebbe consentire, già nel corso di questa settimana, di riportare il numero dei detenuti nel centro di prima accoglienza di Lampedusa al di sotto dei limiti di capienza del centro stesso.
Poiché, inoltre, la quasi totalità delle persone che sbarcano a Lampedusa parte dalla Libia, il pattugliamento delle acque territoriali libiche, che dovrebbe cominciare dopo la ratifica dell’accordo dell’agosto scorso, dovrebbe, già nei prossimi mesi, ridurre al minimo (se non azzerare) il numero di sbarchi.
Questi sono gli argomenti con i quali il governo giustifica le intese con i due paesi nordafricani, annunciando come ormai prossima la fine degli sbarchi clandestini.

Ora, in primo luogo è ragionevole dubitare che le cose possano effettivamente andare nel modo descritto. Di intese con Libia e Tunisia ne sono state fatte già diverse, in passato, e nessuna è mai risultata risolutiva nel lungo periodo. In particolare Gheddafi è stato abilissimo a gestire la questione dei movimenti migratori in modo tale da ottenere dall’Italia importantissime contropartite politiche (l’impegno per la revoca dell’embargo UE, ottenuta nel 2004), tecniche (fornitura di mezzi e attrezzature per le proprie forze dell’ordine, costruzione di infrastrutture) ed economiche (ai consistenti investimenti italiani in Libia, moltiplicatisi negli ultimi anni, si aggiunge adesso il pagamento delle riparazioni per i danni causati dall’occupazione coloniale italiana) in cambio di promesse di maggiore impegno nella sorveglianza delle frontiere libiche. Queste promesse sono state peraltro disattese dalla Libia, o sono state onorate solo in modo parziale e discontinuo: così Gheddafi ha potuto continuare a esercitare pressioni sull’Italia al fine di ottenere ulteriori contropartite.
Anche la Tunisia ha ricevuto notevoli benefici in cambio della propria cooperazione con l’Italia. Ai cittadini tunisini sono state riservate quote nell’ambito dei decreti flussi emanati annualmente per limitare e regolare l’immigrazione legale di lavoratori stranieri in Italia. Inoltre sono state aumentate le cifre stanziate dal governo italiano per i programmi di cooperazione allo sviluppo in Tunisia. Infine, anche le autorità tunisine hanno ricevuto ingenti contropartite tecniche. Tuttavia, se è vero che le partenze di barche e gommoni dalle coste tunisine sono sensibilmente diminuite dal 2004 in poi, è anche vero che esse non sono mai cessate del tutto, e forse sono aumentate negli ultimi tempi (è di una settimana fa la notizia dell’ennesimo naufragio, con decine di dispersi, a largo delle coste tunisine). Inoltre non è diminuita l’immigrazione irregolare di cittadini tunisini, i quali adesso si imbarcano dalle coste libiche, dove le autorità del loro paese li lasciano di fatto liberi di recarsi. Infine le procedure per i rimpatri dei cittadini tunisini non sono state sempre scorrevoli come le avrebbero auspicate i governi italiani. Lo conferma proprio il fatto che si è ritenuto necessario giungere a un nuovo accordo per aggiornare le intese precedentemente concluse al riguardo tra Italia e Tunisia – intese rivelatesi, evidentemente, insoddisfacenti.
Gli sviluppi che potranno seguire alla ratifica dell’accordo con la Libia e alla nuova intesa con la Tunisia sono – teoricamente e per grandi linee – tre. Un’ipotesi è che i regimi nordafricani (più probabilmente la Libia) continuino a temporeggiare, senza effettivamente dare luogo a interventi significativi, con l’obiettivo di strappare nuove concessioni. Un’altra ipotesi è che si rafforzi realmente (ma solo temporaneamente), in modo sensibile (ma non duraturo), la cooperazione bilaterale già in atto sia tra Italia e Libia che tra Italia e Tunisia, riducendo gli arrivi e rendendo più spediti i rimpatri dei cittadini tunisini (non si parla in questo momento di ripristinare i respingimenti di stranieri verso la Libia, ma non è da escludere che questi possano riprendere in futuro). Tale risultato sarebbe seguito – in un futuro più o meno prossimo – da nuovi allentamenti della cooperazione, funzionali ad alimentare nuove richieste di contropartite da parte dei partner nordafricani. La terza ipotesi è che l’Italia riesca effettivamente a chiudere in modo duraturo la porta del Canale di Sicilia grazie alla piena collaborazione delle autorità tunisine e libiche.
Quale che sia, tra le tre, l’ipotesi destinata a verificarsi (la più verosimile appare la seconda), sarà utile ricordare – mentre parlamento e governo ratificano e firmano gli accordi con Libia e Tunisia – quale sia lo scenario nel quale questi accordi si inquadrano, e soffermarsi su alcune tra le principali caratteristiche del regime euro-africano di controllo delle frontiere e dei movimenti migratori.

Natura dei regimi nordafricani
Se la Libia di Gheddafi è conosciuta da tutti come una ferrea dittatura, la Tunisia di Ben Alì, ospitale luogo di vacanze per tanti cittadini europei, si presenta sulla carta come una democrazia, offrendo un’immagine più rassicurante. Anch’essa, tuttavia, svela all’osservatore appena un po’ più attento e informato le caratteristiche di un regime totalitario. In entrambi i paesi il controllo su stampa e televisione è rigoroso; la diffusione di internet è osteggiata e i siti sgraditi al governo sono oscurati; le associazioni critiche nei confronti del regime e le organizzazioni indipendenti sono sottoposte a controllo capillare e i loro membri subiscono pressioni, intimidazioni e diffamazioni; si verificano arresti arbitrari e detenzioni a tempo indeterminato; i prigionieri vengono sottoposti a privazioni, maltrattamenti e torture.
Ancora più esposti agli arbitrii e agli abusi, in questi paesi, sono gli stranieri. Soprattutto se presenti irregolarmente, essi sono esposti a ogni tipo di sopruso da parte non solo delle autorità ma anche della popolazione locale. Tristemente famose, tra l’altro, sono le condizioni disumane di detenzione degli stranieri, così come le modalità dei rimpatri, che hanno fatto centinaia di vittime. Per quanto riguarda, in particolare, i profughi, vale la pena ricordare che la Libia non ha nemmeno firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, mentre la Tunisia, che invece ha aderito alla convenzione, non ha mai adottato una legislazione organica, impedendo così nei fatti la piena applicazione delle disposizioni della convenzione. In sostanza, anche i rifugiati riconosciuti come tali dal Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati sono esposti a violazioni dei loro diritti fondamentali, incluso quello (connaturato al loro status) di non essere respinti nel paese dal quale sono fuggiti.
Collaborare con le autorità di questi paesi e affidare loro il compito di fermare i movimenti migratori nei loro territori significa mettere i destini di migliaia di persone nelle mani di regimi privi di scrupoli.

Sovrarappresentazione dell’immigrazione irregolare via mare
Diversamente da quanto lasciano intendere i più diffusi organi di informazione e gli esponenti dei partiti politici rappresentati in parlamento, le persone che arrivano in Italia irregolarmente via mare sono un numero relativamente basso. Innanzitutto va considerato che la stragrande maggioranza di coloro che risiedono irregolarmente in Italia non ha fatto ingresso irregolarmente nel nostro paese ma vi è giunta con un regolare visto e si è poi trattenuta irregolarmente oltre la scadenza del permesso di soggiorno, mentre della minoranza che è entrata irregolarmente i più lo hanno fatto eludendo la sorveglianza alle frontiere terrestri (e non a quelle marittime). Ma soprattutto va notato che il numero di persone giunte irregolarmente via mare (anche volendo prendere in considerazione la cifra del 2008, di quasi 37.000 persone, che rappresenta il picco massimo dal 2000 a oggi) appare irrisorio se lo si confronta con quello (sette volte superiore nel 2007, sei volte superiore nel 2008) fissato dai decreti flussi per gli ingressi annuali per motivi di lavoro, o se lo si confronta con i quattro milioni di stranieri che risiedono regolarmente nel nostro paese, o ancora se si considera che il 70% delle persone che entrano irregolarmente nel territorio italiano ha intenzione di raggiungere altri paesi europei, e che dunque la cifra degli sbarchi andrebbe letta non in relazione al territorio e alla popolazione italiani ma in relazione al territorio e alla popolazione dell’intera Unione europea.

Alcuni effetti perversi del regime normativo europeo
L’ultima affermazione – quella secondo la quale il numero di persone che giungono irregolarmente in Italia va valutato in relazione all’intera Unione europea e non solo in relazione al nostro paese – va in realtà ridimensionata. Infatti la perversione delle normative comunitarie vuole che, nel caso in cui uno straniero, dopo avere fatto ingresso nell’Unione europea entrando irregolarmente in un dato stato membro, si trasferisca successivamente e irregolarmente in un altro stato membro e sia lì fermato e identificato, il primo stato membro nel quale egli ha fatto ingresso irregolarmente debba farsi carico di riammettere sul proprio territorio e poi espellere il soggetto in questione (e lo stesso stato dovrà assumersi anche l’onere di esaminare la sua eventuale domanda di asilo, e quindi, ipoteticamente, assicurargli la protezione che dovesse spettargli). È proprio questo ad avere messo in difficoltà gli stati membri che si trovano alle frontiere esterne dell’Unione europea. Soprattutto hanno incontrato difficoltà i paesi più piccoli come Malta e Cipro, ritrovatisi negli ultimi anni a dovere gestire procedure di asilo e, più in generale, di identificazione ed espulsione, di un numero di stranieri elevatissimo in proporzione alla loro superficie, alla loro popolazione e alle loro risorse.
Se da un lato la normativa europea ha di fatto causato il collasso dei sistemi di asilo a Malta e Cipro, con conseguenze devastanti per i profughi, o addirittura ha contribuito a far sì che la Grecia – altro paese di frontiera – adottasse criteri estremamente restrittivi nel giudizio delle richieste di asilo, respingendo migliaia di persone alle quali, in altri paesi europei, sarebbe stata certamente accordata una qualche forma di protezione, dall’altro si è prodotto anche l’effetto di deresponsabilizzare paesi come Malta nei confronti degli obblighi di salvataggio in mare: spesso, infatti, le autorità dell’isola preferiscono ignorare il passaggio di imbarcazioni dirette verso la Sicilia attraverso le acque territoriali maltesi, preferendo lasciarle alla mercè delle acque, poiché intercettarle significherebbe doversi fare carico dei destini delle persone a bordo.

Alcuni effetti perversi del regime di controllo
L’accresciuto impegno delle autorità italiane, quello comunitario di Frontex (l’agenzia che coordina le attività dei corpi di polizia degli stati membri per il controllo dei confini esterni dell’Unione europea) e quello offerto dai paesi nordafricani può avere come effetto principale, più che una riduzione dei movimenti migratori, un cambiamento delle rotte. Nel corso degli ultimi anni, infatti, i percorsi dei migranti si sono andati differenziando; le imbarcazioni percorrono vie meno controllate ma anche più lunghe e quindi più esposte ai rischi di naufragio.
I tunisini, da quando nel loro paese sono stati inaspriti controlli e pene, partono per lo più dalla Libia, anziché seguire il percorso marittimo più breve dalle loro coste. Gli algerini, poi, che ancora pochi anni fa andavano in Tunisia per salpare da lì alla volta della Sicilia, affrontano ora una traversata ben più lunga e pericolosa, dalle coste del loro paese in direzione della Sardegna.
Gli asiatici, infine, hanno abbandonato il percorso prevalentemente terrestre attraverso la Turchia e quello interamente marittimo che dall’Oceano Indiano li portava (attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez, a bordo di navi relativamente grandi) fin sulle spiagge calabresi o siciliane. Dal 2003 la polizia italiana, in cooperazione con quella egiziana, sorveglia infatti il Canale di Suez e rimpatria gli stranieri fermati. Ormai chi parte dal sub-continente indiano deve raggiungere l’Africa sub-sahariana e poi dirigersi in Africa nord-occidentale o in Libia, per salpare rispettivamente alla volta delle Canarie o della Sicilia. Per potere rischiare la propria vita in mare, insomma, si deve prima dimostrare di sapere sopravvivere al deserto.

La selezione dello straniero
L’immigrazione in Europa, in effetti, è un fenomeno che si verifica sulla base di un complesso processo selettivo. Parte di questa selezione avviene in mare o nel deserto, attraverso la morte per fame, annegamento, assideramento o disidratazione di migliaia di persone ogni anno. Come in un macabro torneo in cui migliaia di persone vengono eliminate al primo turno, e al turno successivo si qualificano solo i sopravvissuti. Un’altra forma di selezione è poi quella imposta dalle normative italiane per l’immigrazione legale di lavoratori stranieri, che pone condizioni irrealizzabili a datori di lavoro e lavoratori, costringendo di fatto questi ultimi a periodi (di durata indeterminata) di soggiorno irregolare, in attesa di una qualche forma di regolarizzazione. La condizione di irregolarità è in effetti un’esperienza che ha dovuto vivere la stragrande maggioranza degli stranieri che oggi godono di un regolare permesso di soggiorno in Italia. La stragrande maggioranza degli stranieri regolarmente residenti in Italia, insomma, ha dovuto superare la prova dell’irregolarità. Molti hanno dovuto superare anche la durissima prova della detenzione negli appositi centri.
Tutto ciò non vale, peraltro, solo per i lavoratori, per i cosiddetti “migranti economici”. Anche i profughi devono, ormai da tempo, sottoporsi ad analoghe forme di selezione. Quali sono, infatti, i presupposti perché uno straniero ottenga protezione nell’Unione europea? Un tempo bastava essere vittima di persecuzione, era sufficiente possedere i requisiti minimi. Poi fu introdotto l’obbligo del visto, e da allora chi vuole viaggiare regolarmente deve soddisfare i criteri per il rilascio del visto: deve cioè dimostrare di avere un lavoro regolare, di disporre di determinate risorse economiche. Ma ancora per un po’ di tempo il rifugiato poteva pur sempre viaggiare irregolarmente su mezzi di linea, comprando un biglietto aereo o ferroviario o di autobus o di nave anche se non aveva un visto di ingresso, e magari nemmeno un passaporto. Anche chi arriva irregolarmente in un paese, infatti, ha diritto a presentarvi domanda di asilo. Poi però sono state introdotte le sanzioni ai vettori. E ora i vettori si rifiutano di prendere a bordo chi non abbia il visto. Quindi è necessario viaggiare clandestinamente, per lo più affidandosi a organizzazioni specializzate. Il viaggio, in questo modo, può costare da dieci a trenta volte di più. Chi non ha i soldi non può partire. E chi non ha il coraggio, la forza e la fortuna per affrontare e superare un viaggio molto più lungo, faticoso e pericoloso, resta a casa o muore lungo il cammino. Ma anche chi ha i soldi, e riesce a raggiungere il paese dove desidera chiedere asilo, deve essere pronto a sopportare la detenzione per tutta la durata della procedura d’asilo, mentre in passato poteva attendere l’esito dell’istanza a piede libero. E in alcuni casi, se un tempo poteva aspirare allo status di rifugiato, oggi vedrà la propria richiesta respinta o si vedrà riconosciuta solo la protezione umanitaria, che garantisce un pacchetto di diritti più limitato per numero, qualità e durata temporale rispetto allo status di rifugiato. Chi intende chiedere asilo in Europa, insomma, deve essere – oltre che fortunato – anche giovane, forte, relativamente benestante e molto determinato. Paradossalmente, proprio i più bisognosi di protezione – i più deboli e vulnerabili – sono destinati a rimanerne esclusi.

L’Europa e l’asilo
Se gestire qualche migliaio di richiedenti asilo ogni anno può risultare difficile per paesi piccoli come Malta e Cipro, non si può dire che l’Unione europea nel suo complesso soffra di simili problemi. In Europa – dove le possibilità di fornire una protezione adeguata sono assai maggiori – viene accolta solo il 10% della popolazione mondiale di profughi. La maggior parte degli altri trova riparo in Africa o in Asia, cioè negli stessi continenti nei quali si trovano le regioni e i paesi dai quali essi fuggono. Se però si guarda alle cause di fuga, ci si rende conto che spesso esse sono riconducibili all’azione dei paesi occidentali. L’impressionante esodo di profughi iracheni rappresenta un esempio efficace. Quasi cinque milioni di cittadini iracheni hanno dovuto abbandonare la propria residenza negli ultimi anni. Circa la metà – i cosiddetti sfollati – sono rimasti in territorio iracheno, mentre l’altra metà ha raggiunto un paese straniero. Di questi ultimi, la stragrande maggioranza si è fermata nei paesi limitrofi: oggi in Siria una persona su venti, in Giordania addirittura una persona su dieci è un profugo iracheno. L’Europa, invece, offre protezione solo a poche migliaia di rifugiati iracheni. L’Italia, addirittura, blocca quelli che riescono a raggiungere i porti dell’Adriatico e li respinge in Grecia, da dove sono partiti e dove le loro richieste d’asilo verranno respinte dalle autorità locali, che determineranno il respingimento in Turchia degli interessati. Ecco un altro motivo – oltre al desiderio di tanti iracheni di restare vicino la loro terra d’origine – per il quale la maggior parte dei profughi iracheni si trova in Siria e in Giordania. Eppure la gente fugge dall’Iraq a causa di una guerra alla quale proprio l’Italia e tanti altri paesi europei – non certo la Siria, non certo la Giordania! – hanno partecipato attivamente.

La retorica della cooperazione allo sviluppo
Flotte di pescatori di frodo battono da anni le acque dell’Africa nord-occidentale. Spesso sono pescherecci europei – bene attrezzati e di grandi dimensioni – che fanno base alle Canarie, le isole spagnole adagiate nell’oceano a poche decine di miglia dal continente africano. Altri pescherecci europei, invece, sono autorizzati alla pesca da specifici accordi con i paesi costieri, ma i limiti che tali accordi impongono (in relazione alle modalità di pesca e alla quantità di pesce pescato) vengono spesso ignorati. A pagare sono i pescatori della regione e, più in generale, l’economia degli stati rivieraschi.
Se le locali piroghe artigianali non reggono la concorrenza delle flotte straniere – che peraltro, proprio attraverso il saccheggio incontrollato dei mari, stanno ormai causando un’allarmante riduzione della fauna ittica – non c’è da meravigliarsi del fatto che i pescatori mauritani o senegalesi, ridotti in miseria, cambiano sempre più spesso la destinazione d’uso delle proprie imbarcazioni, trasformandole in mezzi di trasporto collettivo verso quelle stesse isole Canarie dalle quali salpano i pescherecci europei. Ma coprire centinaia di miglia marine richiede parecchi giorni di viaggio, e il rischio di essere fermati e costretti a tornare indietro è elevato. Le acque al largo della Mauritania e del Senegal, infatti, sono sorvegliate da pattuglie aeree e navali che operano sotto l’egida di Frontex. I migranti si vedono così costretti ad avventurarsi in mare aperto, lungo percorsi sempre più pericolosi, mentre i pescatori di frodo europei continuano ad agire indisturbati. Questo esempio mostra quali siano le dinamiche di conservazione delle disuguaglianze e degli squilibri tra Europa e Africa, a dispetto degli impegni presi sin dal 1995 in ambito euro-mediterraneo (nel contesto del cosiddetto “processo di Barcellona”) e ribaditi, al più ampio livello euro-africano, dalle conferenze su migrazioni e sviluppo svoltesi negli ultimi anni.
Oltre a mettere in ginocchio la pesca dei paesi dell’Africa nord-occidentale, l’Europa sovvenziona la propria agricoltura e impone dazi ai prodotti agricoli africani. Anche nel settore agricolo, dunque, si impedisce a quei paesi di seguire la via di un autonomo sviluppo economico. Nel frattempo la quota del prodotto interno lordo dei paesi europei destinata agli aiuti allo sviluppo resta ampiamente al di sotto di quanto previsto dalle dichiarazioni d’intenti. Inoltre, una parte consistente degli aiuti effettivamente erogati continua a essere destinata all’acquisto di beni prodotti dai paesi erogatori (il cosiddetto tied aid: nel periodo 2002-2004, per esempio, il 45% degli aiuti italiani alla Tunisia fu destinato proprio all’acquisto di prodotti italiani), mentre il resto continua troppo spesso a essere drenato dalle oligarchie corrotte dei paesi beneficiari. E poi ci si meraviglia che, da tali paesi, la gente voglia emigrare.

Dal centro-sinistra al centro-destra: differenze nella continuità
Alla luce di queste riflessioni generali, la recente decisione del governo di non trasferire più da Lampedusa i nuovi arrivati ma di trattenerli sull’isola fino al loro rimpatrio o fino all’esito positivo della procedura di asilo appare un ulteriore tassello di una politica miope, populista e gratuitamente afflittiva nei confronti dei migranti.
Va qui ricordato che la politica italiana in materia di controllo dell’immigrazione irregolare è stata caratterizzata, dagli anni Novanta a oggi, da una sostanziale continuità nell’operato dei diversi esecutivi. L’istituzione dei centri di detenzione per stranieri e l’avvio della cooperazione con i paesi nordafricani furono scelte compiute e ribadite dai governi di centro-sinistra guidati rispettivamente da Prodi, D’Alema e Amato nel quinquennio 1996-2001. Sugli stessi binari proseguirono il governo Berlusconi e il secondo governo Prodi, seguiti dall’attuale esecutivo. Strumenti e obiettivi sono gli stessi. Nei rapporti con i paesi nordafricani, l’unica differenza degna di nota è che, mentre il governo Berlusconi procedette, dall’ottobre del 2004, a respingimenti continuati verso la Libia, sospendendoli solo all’approssimarsi delle elezioni del 2006 (in considerazione delle pesantissime critiche giunte dalla comunità internazionale), nessun governo di centro-sinistra ha mai proceduto a respingimenti verso la Libia né ha anche solo sostenuto l’opportunità di simili operazioni.
Tutti gli esecutivi hanno peraltro perseguito l’obiettivo di intensificare la cooperazione con le autorità libiche al fine di impedire le partenze di migranti dalle coste libiche. Questo obiettivo si pone in evidente contraddizione logica con la scelta di non procedere a respingimenti verso la Libia. Questi, infatti, sono considerati inammissibili perché gli stranieri, in Libia, rischiano di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, oltre che privati di altri diritti fondamentali. In particolare, poi, i profughi politici rischiano di essere respinti dalle autorità libiche nei paesi dai quali sono fuggiti e dove li attende la persecuzione o la pena di morte. Ma una persona che desidera imbarcarsi dalla Libia alla volta dell’Italia potrà subire le identiche conseguenze se verrà fermato dalle autorità libiche prima dell’imbarco. Che sia respinto dall’Italia in Libia o che sia fermato già in Libia, dalle autorità libiche (ma comunque per soddisfare le richieste delle autorità italiane), la sua libertà e la sua stessa vita saranno ugualmente a rischio.
Se la scelta di trattenere a Lampedusa gli stranieri oltre la fase di prima accoglienza sarà confermata ed effettivamente attuata (anche tramite l’istituzione di un nuovo centro di identificazione ed espulsione contro la volontà dei lampedusani) Lampedusa si trasformerà in una specie di Nauru europea. Nauru è quella piccolissima repubblica insulare del Pacifico (la cui superficie è, guarda caso, pari a quella di Lampedusa) che fu presa in affitto dal governo australiano di John Howard per trattenervi gli stranieri intercettati nell’Oceano Indiano fino al loro rimpatrio o a una decisione positiva in relazione alla loro domanda di asilo. Anche Howard, come Maroni, si giustificò dicendo che bisognava evitare che gli stranieri si disperdessero nel territorio australiano e si sottraessero all’obbligo di espulsione.
L’infelice iniziativa dovrebbe rappresentare il (primo?) segno distintivo di questo governo Berlusconi, come del precedente lo furono i respingimenti in Libia. C’è da sperare che questa volta non debba passare più di un anno prima che il governo sia costretto a tornare sui propri passi. Finora, però, la debolezza dell’opposizione italiana e il silenzio delle istituzioni europee fanno piuttosto temere il contrario.

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