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L’accoglienza nel porto di Augusta, un molo giallo di zolfo e amarezza

Alessandra Ballerini, Repubblica - 14 agosto 2016

Foto: Meridionews

La bocca amara. E acida.
Gli occhi che non trattengono le lacrime.
Non è questione di sensibilità e neppure di coscienza.
Non è per la donna somala che trascina una gamba, per i neonati stretti al petto di madri dolenti, per i disabili costretti anche a questa prova, per le innumerevoli persone che vedi muoversi lente e storte come sonnamboli guasti (si chiama sindrome da schiacciamento, spiegano i medici), e neppure per i ragazzini infreddoliti che appena appoggiano i piedi sul molo chiedono di poter chiamare dall’altra parte del mare chi è rimasto in un luogo che non è più casa e dire e sentire che si è vivi e che si disperano quando scoprono che in quella terra di nessuno dove resteranno intrappolati per settimane non esistono telefoni pubblici.
No. Non c’entrano emozioni nè sentimenti. Non c’entrano afflizione, indignazione, nè rabbia.
Si tratta cinicamente e chimicamente di polvere gialla, truciolato e vento.
Il porto di Augusta ubicato in pieno “triangolo della morte”, come viene chiamata quest’area geografica che definire inquinata non renderebbe, è pervaso e trafitto dallo zolfo, una sabbia sottile, accecante e invasiva che si appiccica lesta e infida alla lingua e assale gli occhi e le narici.
Così quello che resta in bocca fino a sera non è più solo un gusto insalubre, è un odore chimico, una puntura di spilli. Acre e acido insieme.

Me l’avevano descritta perfettamente la sera prima le operatrici di Terre des Hommes che su questo molo offrono la prima preziosa accoglienza alle famiglie e ai piccoli naufraghi salvati in mare e fatti approdare su questo cemento giallo dove, come se non bastasse lo zolfo, le gru sollevano e spostano tonnellate di truciolato maleodorante, mi avevano raccontato di questa sofferenza dei sensi che accompagna gli approdi. Per un attimo pensavo mi stessero descrivendo la loro angoscia, la frustrazione, di chi giornalmente affronta impotente ed eroico le falle del nostro sistema di accoglienza, l’indignata empatia di chi assiste e consola centinaia di creature scampate alle onde ma mutilate dalla fuga.
Ma poi mi hanno spiegato. Di più, mi hanno accompagnata sul molo perché certe situazioni devi respirarle per capirle.
Cosi ora torno a casa anch’io con l’amaro in bocca.
Ma non è solo polvere gialla.
Mentre torno so che molte delle persone incontrate in questi giorni siciliani sui moli o negli hotspot, rinchiuse in tende o gabbie, senza docce, telefoni, spesso senza letti (solo brandine o materassini di gommapiuma grezza), con un wc ogni 70 persone, senza sedie né un luogo dove poter mangiare diverso dal giaciglio della notte, a volte senza scarpe né vestiti se non quelli inzuppati di mare con i quali sono approdati, le rincontrerò tra qualche giorno, più stanche e avvilite di oggi. A Ventimiglia.
E qui, a meno di un improvviso quanto meritato cambio di sorte o di leggi (spesso le seconde incidono inesorabilmente sulla prima), di nuovo verranno braccate e rimandate indietro a volte proprio negli stessi centri del sud Italia dove già sono state rinchiuse. Incapace di accoglierle l’Europa le respinge o semplicemente le sposta, le nasconde, come fossero oggetti o, peggio, rifiuti.
E lo sforzo di centinaia di cittadini solidali resta quasi invisibile.
Ma c’è. Nonostante i divieti, le ordinanze sindacali che condannano la distribuzione di cibo e acqua, la criminalizzazione della solidarietà, nonostante la stanchezza e l’impotenza.

E serve, insieme alle immagini felici dei pochi fortunati che riescono ad giungere in Italia quasi incolumi, grazie ai corridori umanitari istituiti con il progetto della Comunità di Sant’Egidio in sinergia con la Federazione delle Chiese evangeliche, Chiese valdesi e metodiste, a sputare via l’amaro dalla bocca.