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Rubriche: Racconti di vita, Il punto di vista dell’operatorə

L’anno nuovo mi porterà fortuna

Non venite a parlarmi di pazienza. Storia di un’attesa troppo lunga

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di Sara Forcella

La stanza era vuota. Quando il tizio basso e minuto aprì la porta quella mattina, trovò il letto disfatto e le lenzuola che pendevano tutte da una parte. L’odore di tabacco c’era ancora, come se l’ultima sigaretta fosse stata spenta da poco e la sua canotta bianca stesse lì lì per sbucare dal bagno, o dal balcone. Nessuno lo aveva visto rientrare la sera prima. A una certa ora si erano addormentati tutti, e non c’era chi potesse dire se effettivamente avesse passato lì la notte, oppure no.

All’alba era già sparito. Sparito quel corpo grosso, le spalle quadrate, il ventre che si era allargato a dismisura nell’ultimo anno. Un tipo strano, dicevano. Conoscenti tanti in quel posto, amici nessuno. Dunque nessuno che potesse dire con certezza dove fosse, e cosa fosse successo. Nessuno che potesse fargli una telefonata, nemmeno avevano il numero. Solo il tizio minuto che aveva aperto la porta intuì la verità, e si guardò bene dal dirla a qualcuno.

Non era mai risultato troppo simpatico agli altri, non lo avevano mai capito. Certo, lui non aveva fatto nulla per facilitare le cose. Anzi, più passava il tempo e più diventava insopportabile, scontroso e scocciato. E largo, come se intorno alla vita avesse messo un salvagente. Li sbeffeggiava tutti quei giovani ragazzi dalla faccia pulita e la speranza tenera. Non per odio. Solo non ce la faceva più a fare quella vita. Di quel posto, che sembrava accanirglisi contro ogni giorno di più, non sopportava più nulla. La situazione era precipitata verso l’estate per un pacco spedito e arrivato a destinazione, ma mai consegnato. Quella era stata la prima, immotivata menzogna. Aveva protestato, in fondo il pacco era per lui, ma senza ottenere nulla.

Ogni richiesta sembrava cadere nel vuoto. Un giorno allora era entrato nell’ufficio al piano terra del centro di accoglienza e aveva buttato a terra due sedie. Così, solo per fare un po’ di rumore. Lo sapeva che battere i pugni sul tavolo non avrebbe aperto quelle orecchie ormai sorde, ma quando ogni muscolo del tuo corpo è teso al massimo, certe cose non te le puoi tenere dentro se non vuoi scoppiare. Tanto rumore, per nulla. Così era stato.

Ayman cercava di reagire. Quando ad ammazzarlo non era l’apparente normalità di quelle giornate perse, c’erano le ingiustizie invisibili, gli sgarri, le risposte mancate. Più di una volta aveva tirato un paio di cazzotti alla porta. Lo aveva fatto perché sapeva che, seppure nel giusto, la sua voce non contava nulla. Non contava nulla in quell’assurda situazione dove continuavano a trattarlo come uno stupido, un incapace, come un problema da risolvere. E lui si indignava come poteva perché quella era la sua vita. L’unica vita a disposizione. Ai tizi che lavoravano lì non chiedeva di risolvergli i problemi, ma solo che lo trattassero con rispetto e dignità, per non rendere impossibile la sua attesa.

Non era una nazionalità fortunata, la sua. La risposta alla sua domanda di asilo sarebbe stata quasi certamente negativa. Un permesso ce lo aveva avuto un tempo. Era scaduto, lo avevano rimandato indietro, e poi era tornato rientrando dalla Libia. “Non c’era altro verso”, rispondeva a chi glielo aveva chiesto. “Dovevo rimanere a fare la fame nel mio paese? No, io volevo stare meglio, stare bene.”

Si sentiva un condannato. Al primo negativo se ne era già sommato un altro, e probabilmente un altro ancora. Difficile continuare a vedere qual è la tua strada, tra tutti quei no. Tell me then, does this road have a hearth? Does it not, then it leads to no places. E lui lo vedeva ogni santa mattina quando apriva gli occhi che quella strada no che non ce l’aveva un cuore che lo avrebbe portato da qualche parte. Vedeva invece quegli altri quattro suoi compagni di sventura, nella stanza che già odorava di fritto al mattino, senza nemmeno un angolino per sé dove mettersi a pensare. A quel punto gli veniva solo voglia di sbattere le palpebre, due, tre volte, come un brutto sogno da allontanare.

Quella mattina la stanza era vuota. Se ne era andato. La responsabile del centro salì su, constatò il fatto, poi fece una smorfia come per dire “ce lo siamo levati di torno questo buono a nulla”, e se ne tornò da dove era venuta.

Ayman aveva resistito, aveva resistito finché gli aveva retto la pompa. Quella mattina di gennaio, però, aveva sentito più freddo del solito quando si era svegliato all’alba. Allora, senza nemmeno ripensarci, aveva indossato la felpa sopra la canotta bianca, buttato due cose dentro lo zaino e si era diretto verso la stazione. Se ne era andato. Se la rischiava, lo sapeva bene. Ma si vede che il freddo, quella mattina, gli aveva fatto troppo male. Un dolore sconfinato sulla pelle afflosciata e inconsolabile.

L’anno nuovo porta buone cose, così si dice dalle nostre parti e così, scaramanticamente, pensava anche Ayman. Prima di partire aveva salutato a modo suo le poche persone che gli erano care, senza dire niente. Era stato con loro qualche sera prima e senza pensare troppo aveva goduto di una giornata di vita “normale”, festeggiando l’anno nuovo che stava per arrivare. Quando giunse a destinazione era notte. Il paese brillava dai finestrini del treno, tremolava di luci come la città che si vedeva da quella casa in campagna, sotto il cielo scuro. Chissà come gli era parso l’orizzonte, dalla casa in festa. Erano state per una serata la sua casa e la sua festa.

Tutte le città si somigliano di notte, e così era quella che vedeva davanti a lui dal treno, così simile all’altra che adesso gli tornava in mente come in un sogno. Allora seppe che la distanza non è una cosa reale. E tra quelle luci si sentì di nuovo come nella casa in campagna.

Alla terra che lui solo vedeva lontano
Nell’acqua calma, rossa di sole
Al tramonto che lo ha fatto sperare
Gli ha raccontato, tra i colori, una storia d’amore.

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[ 15 gennaio 2019 ]
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Fotografia tratta da "Limbo", un documentario di Matteo Calore e Gustav Hofer (ZaLab)

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