Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

L’esercizio del diritto alla ricongiunzione familiare

Si tratta di un argomento che purtroppo si fa sempre più scottante, un vero e proprio diritto soggettivo riconosciuto a tutti i cittadini immigrati regolarmente soggiornanti e che prescinde dall’esistenza o dalla possibilità di indicare quote e dunque da limiti numerici agli ingressi dei familiari.
E’ un diritto riconosciuto a livello internazionale dalla convenzione 143/1975 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro a cui l’Italia ha aderito, pertanto vincolante per l’ordinamento giuridico italiano. Soprattutto è vincolante anche per il legislatore italiano, in quanto l’art 10 della Costituzione impone di conformarsi ai principi stabiliti dalle convenzioni internazionali in materia. Ecco che quindi il diritto alla ricongiunzione familiare non può essere minimamente condizionato a quote di ingresso né compresso da parte del legislatore degli Stati che aderiscono alla convenzione, ma solo regolamentato, come è avvenuto con il Testo Unico sull’Immigrazione che ha stabilito la necessità di verificare la disponibilità di un alloggio idoneo e di un reddito adeguato prima di autorizzare la ricongiunzione familiare.

A parte queste regole, si tratta di un diritto soggettivo che tuttavia trova sempre più ostacoli da parte delle amministrazioni italiane competenti, a partire dai consolati italiani che – come noto – impongono di fatto tempi di attesa intollerabili per la trattazione di pratiche che non implicano in realtà particolari accertamenti o verifiche, visto che, nel momento in cui l’autorizzazione è già stata rilasciata dalla questura competente, l’autorità consolare deve unicamente verificare l’esistenza dei vincoli di matrimonio o di parentela sulla base di documentazione e certificati rilasciati dalle autorità competenti dei paesi di origine.
Ma ecco che su questo punto si sta divulgando una prassi sempre più diffusa presso diversi consolati che tende a contestare la validità di questi certificati, fino al punto di creare veri e propri paradossi. Sempre più spesso, in particolar modo rispetto a Ghana e Nigeria – ma lo stesso sta accadendo anche rispetto ad altri paesi – avviene che i cittadini aventi diritto alla ricongiunzione familiare e già muniti di autorizzazione, quando si presentano presso il consolato italiano per verificare se, dopo mesi di attesa, è pronto il visto di ingresso, si vedono comunicare una risposta in cui si dice che in base a verifiche effettuate il certificato risulta falso o contraffatto.

Il caso di un cittadino nigeriano
Pochi giorni fa si è rivolto al sottoscritto un cittadino nigeriano, esibendo copia del certificato di matrimonio addirittura accompagnato da una fotocopia autenticata del registro originale degli atti di matrimonio dell’ufficio che in Nigeria ha celebrato e registrato il matrimonio. Il provvedimento del consolato sostiene che in base a verifiche effettuate da un avvocato di fiducia incaricato dal consolato stesso, questo certificato risulterebbe contraffatto.

Avendo inteso chiaramente la motivazione del provvedimento e scandalizzato dalla motivazione, l’interessato esibiva tutte le foto della cerimonia di matrimonio a suo tempo celebrato. Intendiamoci, le foto potrebbero teoricamente anche essere riferite ad una semplice festa di compleanno (anche se chiaramente si capisce che moglie e marito sono vestiti a festa e che tutti i presenti sono lì per il loro matrimonio). In linea teorica, le foto non sarebbero una prova in senso tecnico dell’avvenuta celebrazione, in base alle leggi vigenti in quel paese. Ma a riprova dell’autenticità del certificato di matrimonio, l’interessato ha fornito un altro attestato rilasciato personalmente dal funzionario titolare delle incombenze di stato civile presso l’amministrazione nigeriana. Nell’attestato si confermava non solo l’autenticità del certificato precedentemente rilasciato, ma anche la corrispondenza di quanto risulta da quel certificato con quanto effettivamente registrato dall’ufficio di stato civile, pure allegando nuovamente in questa sua attestazione la medesima copia del registro di stato civile nel quale risulta annotato il matrimonio.
Non si capisce quindi in base a quali altri elementi l’amministrazione italiana potrebbe considerare falso quel certificato o falsa la circostanza dell’avvenuta celebrazione del matrimonio. Per scrupolo abbiamo anche verificato che l’interessato (il marito) – che dall’Italia ha chiesto l’autorizzazione alla ricongiunzione familiare – si sia effettivamente recato in Nigeria per partecipare alla celebrazione del proprio matrimonio. Tutto ciò risulta da documentazione non equivoca, ovvero dai timbri di ingresso e di uscita posti da diverse polizie di frontiera aeroportuale che dimostrano che questo signore si è effettivamente recato, non per caso, nel suo paese di provenienza in quel periodo.

Ci troviamo di fronte ad una situazione letteralmente paradossale: l’amministrazione italiana dice che questi certificati sono falsi e l’amministrazione nigeriana insiste nel dire che sono autentici.

Ricordo che per quanto riguarda i diritti di status personale (cittadinanza, filiazione, stato civile ed in particolare il matrimonio), si applicano, si devono rispettare e vengono riconosciute nell’ordinamento italiano le norme del paese d’origine (artt. 20 ss. della Legge 31 maggio 1995 n. 218). Se quel matrimonio è stato effettivamente celebrato in base alle leggi vigenti in Nigeria e se non risulta che vi sia alcuna violazione dei principi generali del nostro ordinamento giuridico, quel certificato deve essere considerato valido e quindi quel matrimonio deve essere riconosciuto a tutti gli effetti al fine della ricongiunzione familiare.

Come superare questo paradosso?
Se l’amministrazione della Nigeria afferma l’autenticità di quel certificato, a quel punto è chiaro che l’amministrazione italiana potrà contestarne la validità solo se dimostrerà concretamente la falsità di quel certificato o la sua contraffazione. Diversamente, la semplice affermazione non potrebbe legittimare il perdurante rifiuto di autorizzazione alla ricongiunzione familiare, o meglio il perdurante rifiuto di rilascio del visto di ingresso per ricongiunzione familiare a fronte di un’autorizzazione già rilasciata dalla competente questura.
In casi come questo l’unica possibilità è quella di ottenere una documentazione che sia considerata legale per le autorità italiane e che dimostri ulteriormente l’autenticità del certificato e l’effettività del matrimonio già celebrato, poiché una semplice fotocopia non può essere considerata un documento autentico e di conseguenza non potrebbe essere fatta valere di fronte ad un giudice italiano per chiedere (in base all’art 30 comma 6) il provvedimento a carattere urgente che ordina nei confronti delle amministrazioni competenti il rilascio del visto d’ingresso.

Un consiglio
Ecco che allora dovremmo suggerire all’interessato di produrre i documenti originali, quindi i certificati e legalizzarli presso lo stesso consolato italiano che ha già detto che quei documenti sarebbero contraffatti. Potrebbe suonare come una presa in giro perché è fin troppo facile prevedere che il consolato, se non altro per non smentire se stesso, potrebbe rifiutare la legalizzazione di quei documenti ancorché esibiti in forma originale, per l’appunto sostenendo di aver già verificato la loro falsità (pur senza spiegare in base a quali elementi, prove e circostanze).

L’alternativa
In un caso di questo genere – purtroppo frequente – possiamo suggerire una soluzione alternativa, ossia quella di far rilasciare direttamente dalla rappresentanza consolare del paese di provenienza dell’interessato in Italia, un certificato che conferma – facendo riferimento a controlli e verifiche già effettuate – l’autenticità di questo certificato e l’effettività del matrimonio celebrato (nella data già indicata nel certificato) nonché l’effettiva e vera registrazione di quel matrimonio presso i registri tenuti dal competente ufficiale di stato civile della amministrazione locale.
Di fronte ad una certificazione di questo genere – rilasciata direttamente in lingua italiana dalla rappresentanza consolare, in cui si faccia specifico riferimento a tutta la documentazione pre-esistente, alla sua verifica e alla sua autenticità – ci troviamo in possesso di un documento-certificato che deve essere riconosciuto come legale da parte di una qualsiasi autorità giudiziaria italiana alla sola condizione di ottenerne la legalizzazione presso la prefettura.

Come abbiamo già detto, presso la prefettura sono custodite le firme dei funzionari consolari dei diversi paesi ed ecco che quindi quel certificato può essere convalidato in Italia, a fronte della verifica della sua provenienza da parte dell’autorità consolare riconosciuta presso la prefettura competente in Italia.
L’interessato potrà, con un tale certificato, rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria italiana esponendo la situazione, rivendicando l’autenticità del certificato e soprattutto la effettività del matrimonio, chiedendo il provvedimento d’urgenza nei confronti del competente consolato italiano e del Ministero degli Esteri.
Nel caso in cui il consolato perseverasse nella propria omissione, toccherebbe così al Ministero degli Esteri provvedere a sostituirsi al consolato.
Naturalmente è un percorso tortuoso ma rimane comunque una strada alternativa, dotata di relativa affidabilità e che, soprattutto, può consentire, in tempi relativamente brevi, la definizione della questione. Resta comunque tutta la curiosità di vedere, in occasione di questi procedimenti giudiziari, in base a quali elementi la rappresentanza consolare ha ritenuto di considerare falso il certificato.
Nei provvedimenti in cui si afferma l’autenticità o addirittura la contraffazione dei certificati non si spiega in base a quali circostanze sarebbe stata raggiunta questa conclusione, ci si limita ad affermare che sono state fatte delle verifiche e che il certificato sarebbe falso. E’ un’affermazione dalla quale non ci si può difendere se non appunto intraprendendo questo percorso che è ovviamente tortuoso, che porta via molto tempo alla ricongiunzione famigliare e mantiene la lontananza tra coniugi e tra genitori e figli. Tuttavia è l’unica strada che rimane.
Naturalmente l’augurio è che, costituendo dei precedenti in questo senso, determinate prassi che ci sembrano molto discutibili possono essere abbandonate. Non sappiamo se vi sia l’intento di frenare l’invasione di immigrati nel nostro territorio, ma dobbiamo pur sempre considerare che nella legislazione vigente non vi sarebbe un lecito spazio per tale eventualità.

Certo, la ricongiunzione famigliare non serve per portare braccia fresche nel nostro territorio, serve invece per assecondare diritti fondamentali dei lavoratori.
Il diritto alla ricongiunzione famigliare comporta una ricaduta sulle strutture sociali perché i figli degli immigrati andranno a scuola, i coniugi degli immigrati potranno costituire un’eventuale aggravio per la spesa sanitaria, tanto per fare un esempio. Ma ricordiamoci anche che queste persone, ancora prima di beneficiare del diritto alla ricongiunzione famigliare, hanno pagato le tasse e i contributi in Italia, hanno insomma contribuito anche al sistema italiano di sicurezza sociale, pagando le pensioni che sono già in corso di liquidazione per i pensionati italiani.
Di conseguenza, non è possibile ignorare tutto ciò e negare il diritto alla ricongiunzione famigliare solo perché sarebbero troppi, questo non è assolutamente ammesso.
Ma purtroppo si registrano chiari segnali che vanno in questa tendenza.
Esempio pratico – Succede che per presentare la domanda di ricongiunzione famigliare, si chieda allo straniero di esibire un permesso di soggiorno di validità residua molto lunga (a seconda delle questure, nove mesi o addirittura un anno !) con la motivazione che altrimenti si corre il rischio che, nel momento in cui sarà autorizzata la ricongiunzione e rilasciato il visto d’ingresso, magari lo straniero richiedente non avrà ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno.

Quando si affermano regole di questo tipo, che non esistono nella legge, si va contro di essa. Infatti il diritto alla ricongiunzione famigliare è un diritto soggettivo e la legge prevede che lo straniero sia in possesso di un valido permesso di soggiorno per lavoro, che abbia determinati requisiti di reddito e disponibilità di alloggio idoneo ma, per il resto, nessuna norma o regolamento prevede che il suo permesso di soggiorno debba anche valere ancora per tanto tempo.

Così ragionando – ma questo è forse l’intento vero di queste prassi – si finirebbe con il preclude alla quasi totalità degli immigrati l’esercizio ad un fondamentale diritto quale la ricongiunzione famigliare.

Sappiamo infatti che la nuova legge Bossi Fini, avendo stabilito una regola di corrispondenza tra la durata del contratto di lavoro e la durata del permesso di soggiorno, ha di fatto diffuso il permesso di soggiorno di durata annuale se non di durata più corta, in relazione al diffusissimo utilizzo dei contratti a tempo determinato che ormai sono pressoché liberalizzati e ampiamente utilizzati nelle aziende.
Ecco che allora, se nella maggior parte dei casi gli immigrati sono in possesso di un pds di durata annuale o meno (proprio perché hanno stipulato contratti di lavoro a tempo determinato), quando le questure esigono che per chiedere la ricongiunzione si debba avere ancora almeno un anno di durata residua davanti a sé, questa pretesa suona come una vera e propria burla.

La durata del permesso di soggiorno
D’altra parte sappiamo anche che spesso lo straniero, quando ottiene il permesso di soggiorno rinnovato, scopre che la decorrenza iniziale non è riferita al momento in cui gli viene consegnato, ma è riferita a molti mesi prima cioè quando ha presentato la domanda di rinnovo.
In buona sostanza, una parte della durata spettante del permesso di soggiorno è già stata consumata dal tempo di attesa per il rilascio. Per cui, nel momento in cui lo straniero ottiene finalmente il permesso di soggiorno rinnovato, scopre che non ha un anno davanti a sé di durata residua, perché una parte di quel tempo è già stata consumata all’interno della questura, nel tempo di attesa per la cosiddetta “lavorazione” della pratica.
Esempio pratico – Uno straniero si reca presso la Questura di Venezia per chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno (avendo tenuto una condotta assolutamente corretta, pienamente legale ed avendo svolto ininterrotta attività lavorativa). Gli viene dato appuntamento dopo sei mesi e solo allora potrà presentare i documenti e ottenere la ricevuta che dimostra l’avvenuta presentazione della domanda. Quando poi andrà a ritirare il pds rinnovato, scoprirà che una parte della durata del permesso di soggiorno è stata consumata dal tempo di attesa all’interno della Questura. E ciò è particolarmente grave per chi rinnova il permesso di soggiorno quando, contemporaneamente, scade il contratto di lavoro a tempo determinato: infatti, il breve termine di sei mesi assegnato per la ricerca di nuova occupazione viene in parte consistente consumato all’interno delle questure, mentre nel frattempo l’interessato non riuscirà facilmente a trovare un’assunzione regolare o perderà importanti occasioni.

Ovviamente questa prassi non è neutra ma tende a limitare e a comprimere il diritto alla ricongiunzione famigliare, oltre che tanti altri diritti come quello di poter tornare nel proprio paese per una breve vacanza quando si può godere delle ferie, perché senza permesso di soggiorno – o con la sola ricevuta attestante la domanda di rinnovo o con il semplice biglietto di prenotazione – si può uscire dall’Italia ma sicuramente non si può rientrare. Questo naturalmente rappresenta nei fatti una sostanziale compressione di diritti fondamentali di ogni persona umana.

Un altro segno eloquente della difficoltà a riconoscere corretta applicazione delle norme ancora vigenti in materia di diritto di ricongiunzione familiare – e nemmeno ritoccate dalla legge Bossi Fini– lo possiamo trovare per quanto riguarda l’applicazione di un principio che è stabilito molto chiaramente dall’art. 30 del T.U. In particolare al comma1 lettera c si prevede che sia possibile rilasciare il pds per motivi familiari al familiare straniero, regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con:
. cittadino italiano o cittadino di uno stato membro dell’U.E.
. straniero regolarmente soggiornate in Italia. In tal caso il pds è convertito in pds per motivi familiari. La conversione può essere richiesta entro un anno dalla data di scadenza del titolo di soggiorno originariamente posseduto dal familiare. Qualora detto cittadino sia un rifugiato si prescinde dal possesso di un valido pds da parte del familiare stesso
.

In altre parole, questa norma dice che se ci sono i requisiti per la ricongiunzione familiare che ha già un pds ad altro titolo (es: turismo, studio) può direttamente convertirlo per motivi di ricongiunzione familiare. Si tratta di una norma molto chiara, applicata per molti anni, senza dar luogo a particolari problemi applicativi proprio perché è chiaramente formulata.

Eppure, ecco che un caso segnalatoci via mail, ci dimostra che la prassi sta prendendo una direzione diversa.

Quando da immigrato regolare la burocrazia ti trasforma in “clandestino”. Un caso di Vicenza

Quesito Vi scrivo per denunciare un fatto accaduto alla Questura di Vicenza. Un ragazzo ghanese, regolarmente soggiornante in Italia, fa venire la moglie e la figlia con visto turistico. Entro gli 8 giorni previsti dalla legge, vanno In Questura a Vicenza per chiedere il permesso di soggiorno per turismo. La persona allo sportello chiede l’esibizione dei soldi, la signora non parla italiano e non capisce. Il marito tira fuori i soldi e li mostra alla persona. Per tutta risposta la persona dice che i soldi li doveva avere lei e non va bene, li manda via dicendo di tornare con la fidejussione. Telefono in questura e mi viene risposto che se il marito dava i soldi fuori dalla porta alla moglie andava tutto bene, ma così no (testuali parole). La coppia torna il mese successivo con la fidejussione (non sono riusciti ad averla prima per colpa della banca), gli scrivono di tornare 20 giorni dopo. Quando arrivano viene notificato alla signora il rigetto della domanda perchè ” chi entra in Italia deve possedere propri mezzi finanziari di sostentamento” (così nel foglio che le hanno consegnato). Il problema è che la signora, avendo il pds per turismo voleva chiederne la conversione. per motivi familiari ( ha tutti i requisiti), e ora non è più possibile. Cosa può fare? Ricorso al TAR, spendendo € 2.000 circa e non essendo sicura di vincerlo? Ricorso al prefetto (ma sospende l’esecuzione del provvedimento?). Ma è mai possibile che in Italia si arrivi a questo punto? Spero in una vostra urgente risposta perchè la signora è disperata. Grazie.

Risposta – In questo caso è chiaro che, rifiutando il pds per turismo, è stata impedita la possibilità di conversione in motivi familiari. E questosolo perchè l’interessata non si è fatta passare i soldi fuori dalla porta, mentre onestamente li ha mostrati il marito. Il poliziotto evidentemente ha ignorato che, secondo le norme del diritto italiano di famiglia, in caso di matrimonio si presume la comunione dei beni, quindi non vi è differenza tra le disponibilità economiche del marito e quelle della moglie. E se anche la moglie non ha soldi propri i soldi del marito sono come se fossero suoi.
Questo è stato totalmente ignorato, sulla base di questa motivazione che non è per niente compatibile con il rispetto dell’ordinamento italiano sulla famiglia, e si è rifiutato un pds per turismo pure a fronte di un regolare visto d’ingresso. Questo è un caso emblematico di come anche osservando tutte le norme di legge vi siano dei problemi che per la verità non sono previsti da alcune legge dello stato.

Cosa fare?
Purtroppo la nostra risposta non sarà di particolare conforto perché volendo impugnare un provvedimento del genere e tentare di ottenere il riconoscimento di quanto abbiamo detto, l’unica possibilità è quella del ricorso al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale), entro i 60 giorni dalla notifica del provvedimento, il che comporta come minimo costi notevoli (circa 500 Euro solo di spese vive, poi bisogna pagare il lavoro dell’avvocato).

Oggi questa persona incredibilmente si trova in una situazione di irregolarità e quindi ogni giorno è a rischio di espulsione immediata. Solo proponendo il ricorso e ottenendo l’ordinanza di sospensione si può ripristinare una situazione di legalità. Nel frattempo si rischia di essere trattati come semplici “clandestini” anche se si è voluta osservare la legge in TUTTI i suoi minimi particolari.