Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

tratto da: Posseweb.net

L’estate dei migranti

di Sandro Chignola, Sandro Mezzadra

E’ stata una strana estate, questa. Una sorta di tempo sospeso, un lungo intervallo. Chi volesse farsi un’idea dello stato delle cose, per quanto riguarda i migranti in Italia – ammesso che volessimo o potessimo ancora concederci di indugiare in una dimensione provinciale, in una prospettiva periferica e parziale, nel considerare processi e movimenti sociali che attraversano spazi e tempi molto più vasti, che riconfigurano completamente la relazione tra centro e periferia, che tracciano altre genealogie e un altro futuro per ciò che siamo soliti chiamare Europa o Mediterraneo – si troverebbe a sperimentare uno strano effetto di straniamento, preso come sarebbe tra le dichiarazioni di Ferrero, che lamenta l’assenza di un forte movimento antirazzista (pronto all’uso contro il nuovo governo di destra, immaginiamo, visto che quello che si è espresso negli anni del governo Prodi contro i CPT e per i diritti dei migranti molta audience non ha avuto nemmeno allora…) e il febbrile lavorio di sindaci (di destra e di sinistra), governatori e prefetti, del ministro Maroni ad invertire, sino al più puro Ottocento, il flusso del tempo.

Al codice binario del pacchetto sicurezza che divide – con un effetto di moltiplicazione nelle ricadute a cascata sulla fantasia dei singoli amministratori – classi pericolose e classi laboriose, clandestini e regolari, immigrati delinquenti e immigrati onestamente avviati sullo stretto e sorvegliato sentiero dell’integrazione, spazi “sicuri” e zone a rischio nelle città, comportamenti virtuosi e comportamenti immediatamente sanzionabili, corrisponde l’effetto di verità che assegna il migrante alla dimensione puramente vittimistica ed oggettuale che ne fa, anche nella presa di parola (sedicente) antirazzista, un qualcosa di recuperabile solo attraverso il filtro della rappresentanza, l’attonito, muto, spettatore di processi che spetterebbe ad altri interpretare, valutare, contrastare.

E’ come se quanto è accaduto negli ultimi anni e, ancora, negli ultimi mesi, fosse stato risucchiato in una sorta di vortice temporale. Da un lato, la destra e il suo riannodare, in forma ancora più radicale perché vendicativa, le fila di un discorso interrotto dal breve interregno prodiano. Dall’altro, il balbettio di una sinistra incapace di valorizzare il ciclo di movimento che essa ha in gran parte cavalcato in termini puramente parassitari e che non ha il coraggio di fare i conti con una sconfitta irrimediabile proprio perché maturata su di una scommessa tutta rappresentativa; inclinata, cioè, alla formalizzazione e alla traduzione di istanze che non la obbligassero a mettere in questione il significato di cosa fosse “politico” all’altezza della transizione che ci investe.

Ecco allora che si possono lamentare le assenze di un movimento antirazzista unitario – come se non si fosse attivamente lavorato, dall’acquisita posizione di governo, a dividerlo e a screditarlo – e l’ammutolimento dei migranti, “vittime” di misure e di trattamenti che altri sarebbe stato in grado di rendere allo stesso tempo più dolci e più efficienti. Le cose non stanno così, ovviamente. O almeno non solo. La liquidazione della sinistra parlamentare ha certo liberato il ritorno di un razzismo istituzionale che dobbiamo stare attenti a non sottovalutare. Ha legittimato dispositivi argomentativi e retoriche che calcano i profili di una gerarchizzazione e di una scomposizione della cittadinanza molto più radicale e più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista, e che lo diventa tanto di più quanto più essa si intreccia con i livelli più esterni e periferici della governance metropolitana.

Sulla vita dei migranti, sulla loro quotidianità, grava qualcosa di ancora più pesante rispetto alla già pesante situazione di qualche tempo fa. Controlli continui, stigmatizzazione culturale, rischio di marginalizzazione sociale – nella misura in cui, ad esempio, la chiamata in correità, nel cosiddetto “pacchetto sicurezza” dei proprietari degli appartamenti che affittano ai clandestini o di chi li mette al lavoro crea, nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno, una nuova zona intermedia di indeterminatezza a rischio penale con le conseguenti difficoltà a trovare casa o un impiego per gli stessi immigrati dotati di regolare permesso di soggiorno – rendono letteralmente impossibili percorsi di “integrazione” che eccedano i limiti di quella sorta di colonialismo interno che ridisegna i profili di intervento della pubblica amministrazione.

E tuttavia non solo questo accade. Invisibili solo agli occhi di chi non sa, o di chi non vuole, vedere, altre forme di soggettivazione e di integrazione possibile sono venuti producendosi (anche) negli ultimi mesi. Processi tanto più innovativi e radicali da rendere davvero straniante il passaggio al passato degli ultimi tempi, quello di chi si attesta su di una rassicurante ricorsività dell’esperienza: invasione di clandestini e sbarchi a ripetizione, collasso dei dispositivi di accoglienza, incremento del rischio e dell’insicurezza domabili con le simpatiche pattuglie di poliziotti e di militari che incrociano nelle zone dello shopping di molte città. A Verona, per dire, oltre che dal tono lombrosiano delle molte sbrodolate dichiarazioni del sindaco leghista e della sua giunta comunale, la virata color seppia, l’effetto ottocentesco, sono dati ora dall’affidamento del controllo del centro alle ronde di polizia e carabinieri a cavallo…

Invisibili agli occhi di Ferrero, e tuttavia concretissime, vive e reali, negli ultimi mesi grandi manifestazioni autorganizzate di migranti ci sono state a Brescia, a Reggio Emilia, a Bologna, a Torino, a Napoli e, appunto, a Verona, ad esempio. Invisibili, quando non direttamente ostacolate o intralciate dalle organizzazioni sindacali e dai partiti della sinistra, proprio perché esse fanno saltare i perimetri dentro ai quali l’ordine del discorso, anche a “sinistra”, trattiene la questione migratoria. Prese di parola non delegate e non delegabili, istanze che eccedono strutturalmente le logiche e i codici della rappresentanza.

Quello che ci sembra decisivo è in fondo questo. Dentro alla cupezza del presente, e tuttavia in quella che si afferma come la sua intransitabile croce, è dato leggere molto di più della pur indubitabile stretta repressiva che, presentatasi in forme grottesche in Italia, caratterizza nel suo insieme lo scenario europeo (basti pensare alla direttiva sui rimpatri). Processi di autorganizzazione in cui si annunciano nuove forme della cittadinanza, ad esempio. Prese di parola meticce in grado di ibridare cittadinanza e salario, lotte dei migranti e lotte dei precari, nella rude concretezza di blocchi della produzione e della circolazione delle merci e nell’autogestione di pezzi del welfare metropolitano, ancora. Circolazione delle lotte con la circolazione di migranti, di attivisti, in grado di organizzare sfere pubbliche sottratte all’ordine del discorso ufficiale di partiti, sindacati e delle stesse organizzazioni in cui pretende di rappresentarsi lo stesso antirazzismo “di movimento”, infine.

Pensiamo che da questo punto di vista, le lotte dei migranti possano contribuire a riaprire quanto la sconfitta della sinistra ha chiuso, almeno se lo si guarda dall’angolo ristretto di questo paese. L’idea, ad esempio, che un ciclo di movimento possa aprirsi solo se già ingranato alla macchina della rappresentanza. Solo se, in altri termini, canali di mediazione già esistenti o facilmente istruibili ne permettano l’orientamento e l’organizzazione. Quella, ancora, per la quale i commons, il comune, si determinano o sulla base di un pregresso (una tradizione, un’identità) o sulla base dell’artificioso gioco di concessioni reciproche e di reciproco riconoscimento che solo il professionismo della politica, anche sulla sua soglia più infima, può garantire.

L’autorganizzazione dei migranti i commons li difende sulla base di un salto al futuro, invece. Leggendo la condizione del migrante per quello che essa esprime: una paradossale condizione di internesteriorità ai circuiti fordisti della valorizzazione capitalistica nella quale convergono la memoria postcoloniale dei paesi di partenza ed il futuro prossimo di una precarietà in cui sfuma la differenza tra chi è nato in Europa e chi ci è arrivato da poco; in cui viene a incandescente fusione una forma della cittadinanza che non è più e si annuncia una cittadinanza che ancora non c’è. Migranti che si pensano come interni ai territori nei quali vivono, ma come portatori di una differente dimensione della territorialità: non soggetti integrabili o sul punto di essere integrati nei circuiti della cittadinanza formale, ma “nuovi cittadini”, cittadini di una città il cui perimetro viene costantenente forzato da istanze che attraversano e che lo ridescrivono a partire da dinamiche incomprimibili.

Quella che le lotte dei migranti esprimono è una sfida radicale alla separazione tra interno ed esterno, tra il “dentro” e il “fuori”; tra i due lati della cittadinanza che si inseguono nel nodo di moebius stretto dalla circolazione dell’insorgenza e dell’autorganizzazione. Essere qui e non essere in attesa di ingresso. Produrre integrazione e non chiederla. Modificare dall’interno, con la minaccia di una mobilità irriducibile che si esprime come diserzione e come fuga, i confini di una cittadinanza in trasformazione.

Leggere il futuro in quello che abbiamo davanti è la vecchia lezione. Non addomesticare i profili della tendenza riferendoli a quanto il passato ci ha già reso noto. La visibilità che i migranti si sono conquistati marca un punto di soglia. Talmente chiaro, da imporre nell’agenda politica non già una serie di istanze di riconoscimento, ma il segno di una defezione radicale da costruire. Non la richiesta di attenzione da parte della “sinistra” antirazzista, ma l’annuncio di uno sciopero sociale che sposti definitivamente il terreno di confronto. Questo ci sembra decisivo. Non solo in Italia, non solo in Europa, la cittadinanza che viene passa attraverso un deserto da attraversare. Attraverso un esodo costituente.

I migranti ci stanno lavorando, “Un giorno senza di noi”: uno sciopero di fabbrica e delle cooperative, una giornata libera per le badanti e per i bambini che vanno a scuola, un giorno di serrata per i call centers e per i negozi di kebab. Un giorno di festa e un giorno di rabbia. Non il rito di un corteo, ma la disseminazione, la proliferazione di traiettorie di soggettivazione e di rivendicazione di una cittadinanza in divenire. Dopo l’estate, c’è sempre un autunno caldo che viene…