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L’esternalizzazione del controllo sull’immigrazione non è la soluzione: alcune riflessioni sul Migration Compact

Nando Sigona, 31 agosto 2016

Khaled, rifugiato Sudanese nel campo informale di Calais (Mattia Alunni Cardinali Ph.)

Un giornalista mi ha chiamato per pormi qualche domanda sul Migration Compact. Le note qui di seguito sono state buttate giù velocemente domanda per domanda, perciò non vanno lette come un testo coerente quanto piuttosto una serie di spunti da sviluppare.

Sul lungo termine per affrontare la questione migrazione è importante che l’Europa guardi con attenzione all’Africa. Ma non intendo per frenarne i flussi migratori, quanto piuttosto come un’opportunità per l’Europa.

Interventi volti alla creazione di opportunità di lavoro, istituzioni più stabili (e democratiche) e maggiore sicurezza della persona e delle cose porterebbero alla riduzione dei flussi migratori non autorizzati e ridurrebbero l’incentivo per coloro che vivono nel continente africano ad abbandonare l’Africa mettendo a rischio la loro vita e quelle delle loro famiglie.

Come è ben noto – anche se non si direbbe ascoltando le opinioni di alcuni politici – gli interventi di sviluppo non riducono la mobilità, però la trasformano rendendola in molti casi più appetibile per i paesi di destinazione.

Avendo condotto recentemente insieme ad un team internazionale oltre duecento interviste con migranti e rifugiati giunti in Italia nel 2015 (per informazioni: www.medmig.info), è evidente che per molti allontanarsi dal proprio luogo d’origine o di residenza abituale è spesso una decisione dolorosa, tanto più se significa l’impossibilità di tornare indietro.

Per molti dei nostri intervistati, rimanere vicino alla propria terra, avendo la possibilità di vivere una vita dignitosa e di muoversi relativamente liberamente da una parte all’altra del continente era spesso l’opzione migliore ma purtroppo non più alla loro portata. Non bisogna dimenticare che la Libia di Gheddafi era il colosso economico del Nord Africa e costituiva una meta verso cui migrare, il luogo da raggiungere per molti migranti, e non esclusivamente uno snodo di transito come descritto dai media europei e immaginato dai politici dell’Unione Europea.

Legami più stretti con gli stati africani contribuirebbero a stabilire una mobilità più ordinata verso l’Europa – non dimentichiamo che l’Europa ha bisogno di migranti per poter ringiovanire la propria forza lavoro e sostenere il sistema del welfare. E non servono solo lavoratori altamente specializzati. Una cooperazione più stretta con l’Africa non fermerebbe completamente l’immigrazione (e non dovrebbe mirare a farlo!) ma può mutare la natura dei flussi migratori, specialmente se vengono creati dei percorsi legali come parte integrante degli accordi di cooperazione.

L’eredità del colonialismo, sia a livelli macroscopici (delle relazioni diplomatico-economiche) che a livelli microscopici (delle preferenze e reti individuali), è ben lontana dall’essere solo un ricordo del passato, e la cosiddetta crisi migratoria attuale per molti aspetti non è nulla di nuovo. Sebbene si sia verificato un aumento de transiti illegali a partire dalle Primavere Arabe avvenuta all’inizio degli anni 2010, quello dei migranti che attraversano il Mediterraneo sulle imbarcazioni non è un fenomeno nuovo, è piuttosto associato con l’introduzione a partire dagli anni ’90 di restrizioni sulle tratte legali per i migranti poco qualificati e l’introduzione di visti.

Le nuove partnership proposte con gli stati africani non sono negative di per sé, ma sarebbe ingenuo pensare che l’Europa possa semplicemente replicare l’accordo firmato con la Turchia prima di tutto perché si tratta di entità ben diverse tra loro. La natura condizionale degli aiuti per lo sviluppo in relazione alla messa in atto di norme e prassi per la collaborazione in materia di immigrazione è stata ampiamente discussa e, sebbene possa risultare ragionevole su carta, è in realtà molto più complessa: è difficile predire in che modo le politiche di deterrenza e sviluppo possano interagire tra loro in contesti istituzionali differenti e contigui.

Per di più, se l’applicazione delle condizioni significa delegare a delle semi-dittature di svolgere il lavoro di controllo dell’immigrazione per l’Europa in cambio di tangenti travestite da aiuti per lo sviluppo, questa non mi pare di certo una strategia sostenibile sul medio e lungo termine. Senza contare che tali politiche minano la posizione dell’Unione Europa nell’arena internazionale.

La stabilizzazione della Libia potrebbe essere lo strumento migliore in mano all’UE per ridurre i flussi irregolari, ma non grazie ad un potenziato intervento di controllo della frontiera da parta delle milizie libiche, ma perché una Libia più sicura significherebbe che molte più persone preferirebbero lavorare in quel paese ricco di risorse e relativamente sotto popolato, piuttosto che tentare la traversata via mare con tutti i rischi ad essa associati.

La migrazione interna nel continente africano è un fenomeno numericamente più significativo di quello verso l’Europa, ma questo semplice fatto è spesso ignorato nei dibattiti politici attuali su come gestire la “crisi”. Tende dunque a prevalere una visione euro centrica delle migrazioni, che produce una distorsione nel modo in cui i politici guardano e cercano di indirizzarsi al fenomeno migratorio.