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da Il Manifesto 11 dicembre 2008

L’inferno di Elmas in Sardegna, il Cpt della rabbia

di Costantino Cossu

Si chiama Ilyes Fanit.
Poco meno di tre mesi fa, la mattina del 25 settembre, è stato messo su aereo che lo ha riportato a casa, in Algeria. Il giorno prima, il 24, davanti a una macchinetta automatica del caffé del centro di prima accoglienza di Elmas, aveva preso a spintoni un poliziotto, dato testate contro la porta dell’infermeria e poi dell’ufficio della polizia scientifica. Le due porte sono state quasi sfondate, Ilyes s’è fatto parecchi lividi. In questura, in cella in attesa del rito direttissimo, ha trovato il modo di ferirsi all’addome. Ha 21 anni, Ilyes, ed è stato condannato a 6 mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena.
Reati contestati: resistenza e violenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato. Nella notte tra mercoledì 17 e giovedì 18 settembre c’era anche lui tra gli ottantasette algerini che hanno distrutto mensa, telecamere, porte e uffici del centro in una rivolta improvvisa e violenta. Secondo la questura di Cagliari, la scintilla è scoppiata dopo un battibecco con gli ospiti somali del Cpa: loro liberi di entrare e uscire perché hanno chiesto asilo politico.
Clandestini irregolari in attesa di trasferimento nei centri della penisola e «asilanti» s’incontrano solo alla mensa e sempre sotto l’occhio del personale di sorveglianza. La notte della rivolta alcuni somali erano rientrati più tardi e avevano trovato gli algerini in mensa (dopo il tramonto per via del digiuno religioso).
Gli ultimi due piani del centro sono stati devastati. Sono volate le porte, le finestre, sono stati divelti i sanitari, distrutte le telecamere del controllo a circuito chiuso. Gli scontri sono durati sino all’alba e nessun osservatore esterno ha potuto verificare come siano andate realmente le cose. Pochi giorni dopo, Ilyes non ha litigato con i somali. Si è infuriato quando un poliziotto, vedendolo al centro della sala, gli ha detto di andare nella parte riservata ai clandestini irregolari.
Ma le cause vere della rivolta sono altre. Il Cpa è sovraffollato e viverci è un inferno.
Il centro di Elmas è stato aperto nel giugno di quest’anno. Serve principalmente a raccogliere i migranti che sempre più numerosi approdano su barche di fortuna sulle coste meridionali della Sardegna. Arrivano soprattutto dall’Algeria. Nel 2007 ne sono sbarcati circa 1800. Per quest’anno non ci sono ancora cifre definitive, ma pare che gli arrivi siano più o meno duemila. La gestione del Cpa è stata affidata a Connecting People tramite il Consorzio Solidarietà di Cagliari, che deve garantire i pasti, le pulizie, l’assistenza sanitaria, la presenza di mediatori culturali. Per la sorveglianza sono impiegati venti poliziotti e altrettanti carabinieri. Dopo la rivolta sono arrivati anche i fanti della Brigata Sassari, truppe scelte già impiegate in Iraq e in Afghanistan.
Le condizioni di vita di chi sta dentro il centro non sono molto diverse da quelle di un carcere. In più molti dei reclusi sono in attesa di capire se avranno diritto all’asilo politico o se saranno costretti al rimpatrio. «Il problema vero – dicono i militanti del Comitato antirazzista nato a Cagliati per difendere i diritti civili dei migranti – è l’aumento dei tempi di permanenza nei centri di identificazione, dovuto alla nuova normativa per gli rifugiato o di protezione umanitaria. Non sapevano dove andare. Pochi quelli che parlavano l’inglese o l’italiano e nessuno conosceva la Sardegna. Sinora solo una comunità francescana ha offerto venti posti letto, largamente insufficienti per il bisogno che cresce».
«Sono – aggiunge Petra – cittadini somali che fuggono da una situazione di guerra di fatto, che vede gran parte del territorio controllata dalle corti islamiche. Oppure eritrei oppositori di un regime che ha assunto i tratti di una dittatura sanguinaria. Tra di loro diversi intellettuali: scrittori, giornalisti, poeti». Gente che non è sbarcata direttamente sulle coste della Sardegna. Per fuggire hanno affrontato un viaggio agghiacciante. A piedi attraverso il deserto del Sudan settentrionale per raggiungere la Libia, la lotta disperata contro la fame, la sete e la fatica, i compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta abbandonati, cadaveri, sulla sabbia. Dopo un un periodo non facile trascorso in Libia, in un campo profughi, la traversata via mare su barche scassate sino a Lampedusa. Qui, prima schedati come clandestini e poi smistati ad Elmas, in attesa che la domanda di asilo fosse esaminata. Quando la questura di Cagliari ha aperto i cancelli del centro ai cronisti per fare un po’ di pubbliche relazioni, i fuggiaschi hanno raccontato le loro storie. Alcuni hanno pagato mille e cinquecento dollari per attraversare il deserto e raggiungere Lampedusa, viaggiando per quasi cinque mesi e lasciando la famiglia in patria, con la speranza di trovare in Italia scampo alle persecuzioni e un lavoro. Altri hanno speso duecento dollari per un passaggio in auto dalla Somalia alla Libia, per poi affrontare la traversata fino a Lampedusa con altre centinaia in fuga dalla guerra o dalla povertà.
Tutti, davanti ai taccuini dei giornalisti, hanno parlato dell’Italia come di un Paese di pace, accogliente, dove realizzare il sogno di studiare, lavorare, vivere liberi e sicuri. Erano le prime settimane di permanenza nel centro.
Poi le cose sono cambiate. Oggi il futuro fa solo paura.