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L’interdetto sulla razza non protegge le persone razzializzate, le silenzia

Photo credit: Richard Tsong-Taatarii (tratta da Art Against) Minneapolis, USA 26 Maggio2020 #ICannotBreathe

Di per sé, l’affermazione che siamo tutti uguali e che godiamo di diritti universalmente riconosciuti, è decisamente poco significativa. Essa presuppone, badando bene a non dirlo ad alta voce, un determinato concetto sia di uguaglianza che di universalità che però si sono cristallizzati epurando il concetto scomodo della razza, assunto solo per negarne l’esistenza.

Si parla di razza solo per dirci che non esiste.

Se biologicamente questa affermazione può essere confortata, resta però da affrontare un discorso sulla razza intesa da un punto di vista sociale e culturale.

Una discussione finalmente seria sui diritti umani, in generale, e sulla qualità della vita sociale di singole categorie di soggetti discriminati, in particolare, deve necessariamente assumere che non esiste un rapporto di identità tra un presunto universalismo normativo (a fondamento anche delle strutture sistemiche e di potere dei nostri ordinamenti) e l’assolutismo morale che vorrebbe rappresentarne l’ossatura etica. Dirci che siamo tutti uguali, oltre ad essere falso, non ci assicura un trattamento equo e, soprattutto, non fa i conti con la sostenibilità sociale di questa predica.

Per decenni ci siamo nascosti sotto alla coperta dei diritti umani, ritenendola uno strumento dal potere talmente indiscusso da poter appianare dissidi e orientare le Istituzioni ad agire secondo un corretto metro di valori.

L’attacco alla pretesa universalità dei diritti umani in realtà è nato già prima della Dichiarazione del 1789 che li positivizza, fondando principalmente sul loro carattere metafisico e su un certo individualismo ignaro dei legami sociali.

E’ evidente che i diritti umani guardano all’essere umano in generale, che di per sé non sarebbe un male se invece questo non fosse situato e legato, nel tempo e nello spazio, a determinate condizioni che lo caratterizzano.

Si rende quindi necessario il posizionamento, la capacità di porsi in una prospettiva finalmente utile per scardinare le costruzioni che occultano i meccanismi di costruzione della realtà.

E nella realtà, certamente non biologica ma giuridica e politica, la razza esiste.

Il delicato rapporto tra diritto, o Istituzioni, e razza non è mai stato messo per davvero in discussione. Anzi, come già sottolineato, l’idea di eguaglianza che ha sostenuto le nostre costituzioni moderne veniva pensata come una cornice neutrale e formale; non a caso per considerare legittima una norma la si pensa come un dispositivo capace di essere impermeabile alla dimensione razziale, invece di saperne cogliere i rapporti di forza e potere al fine di agire sugli squilibri sistemici.

La parola razza, al momento, è esclusa dal nostro bagaglio di studio e di orientamento. Mentre, paradossalmente, parliamo costantemente di razzismo, credendo forse che derivi da qualcosa d’altro.

E’ tempo di mettere in discussione l’approccio ingaggiato dal secondo dopoguerra ad oggi e immaginato per mettere insieme un continente sconquassato dall’interno e privo di una base comune umana ed etica da cui ripartire, ossia l’approccio secondo cui il razzismo non è altro se non un’eclissi della ragione che è possibile debellare con un approccio pedagogico. Non a caso l’antirazzismo è inteso come una disciplina, un insieme di precetti retorici secondo i quali orientare le azioni e le parole rivolte alle persone di colore. Azioni e parole che seguono, rivedendo quanto scritto da Alessandro Pandolfi (ne Le passioni della crisi, Pubblicazioni LUM 1), l’automatizzazione delle rappresentazioni e dei giudizi e la produzione di linguaggi performativi che riducono il reale a una parola d’ordine a difesa di immaginarie prerogative identitarie e, aggiungo io, del proprio senso di colpa. In questo modo l’unico obiettivo raggiunto è l’assoluzione della whiteness, che impartisce la lezione e, si cancella lo stretto legame tra schiavitù, colonialismo e la modernità globalizzata e capitalista in cui siamo calati.

In Italia, in particolare, non hanno mai attecchito gli studi sulla Teoria critica della razza (Critical Race Theory, CRT), che sono invece fondamentali per rimettere in discussione l’ideale della neutralità colorblind, una neutralità che dice di “non vedere il colore” non accorgendosi che il problema sta proprio in questa affermazione che rimette al centro della discussione la capacità di una persona non razzializzata di riconoscere trattamenti differenziali rispetto alla preminenza assoluta di un privilegio bianco (white privilege) di cui è sempre più difficile parlare.

Una difficoltà che certamente nasce anche da una quasi totale mancanza di dimestichezza con taluni dei termini fin qui usati, per esempio “White privilege” (privilegio bianco).

Infatti, questa nuova terminologia che è nata attorno al concetto di razza nei migliori dei casi ci si aspetta che venga diffusa e chiarita proprio dalle minoranze etniche (che quindi si devono arrogare anche un ruolo pedagogico, sempre in una situazione di oppressione) o, nei peggiori dei casi, viene istintivamente ricusata per colpa di un egocentrismo che non ammette che colpa e responsabilità possono non coesistere (per esempio, essere bianchi non è una colpa, ma comporta la responsabilità del proprio privilegio) ma comunque non eliminare ciò di cui si parla: l’esistenza di una “norma” razziale, bianca, che anche quando non determina direttamente i soprusi, certamente determina su chi ricadranno maggiormente i suoi effetti del suo semplice esistere e i tempi e i modi in cui agire, o meno, per debellarli.

I movimenti antirazzisti italiani, ma anche i milioni di singole persone solidali, non hanno saputo negli anni affrontare la questione con un criterio finalmente capace di porre un argine al processo di razzializzazione del Paese.

Complice di questa disfatta sono senza dubbio anche due diversi filoni di ordine generazionale: da una parte le persone razzializzate anagraficamente e storicamente “giovani” e, dall’altra, l’Italia bianca fondata su un’italianità vecchia, se non morta, che tenta di sopravvivere a se stessa ancora oggi, sia nelle sue degenerazioni patologiche che nelle sue mutazioni cosiddette “aperte”.

E’ tempo di metterci un punto. Un punto che si legga come un momento di silenzio, imprescindibile per ascoltare una parte di società che ha sviluppato negli anni prassi accademiche e popolari per parlare per se stessa e di se stessa.

L’antirazzismo in Italia non deve più significare agire la propria retorica morale per aiutare i soggetti razzializzati, ma comprendere che si può essere parte del problema anche senza volerlo e che è necessario ripensare i propri presupposti anche “al di qua” delle barricate.

E’ tempo di accettare di sentirsi a disagio e in torto, quando capita, non certo per partito preso o in quanto persone bianche, ma perchè la razzializzazione prescinde dal razzismo e non chiede di agire in favore nostro, persone razzializzate, ma su quelle che non lo sono.

Noi non siamo mai stati il problema, eppure siamo sempre noi a non respirare.

  1. http://www.lumproject.org/pubblicazioni/le-passioni-della-crisi/

Ndack Mbaye

Ndack Mbaye, nasce a Dakar nel 1992. Si trasferisce, ancora piccola, con la famiglia a Venezia, dove si avvicina ai movimenti e alla militanza.
Si laurea in Giurisprudenza all'Università degli studi di Udine e, oggi, si occupa del volto più sociale del diritto come consulente legale in materia di immigrazione e asilo, autrice e formatrice.