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L’ombra della Siria

Conor Kennyd dal campo di Idomeni, Blog MSF - 6 maggio 2016

Foto: Angelo Aprile, campo di Idomeni, 28 aprile 2016

traduzione di Stefania Marinoni

Prima ancora di vederlo, potevo sentire le sue grida penetrare attraverso il tessuto del tendone adibito a ospedale da campo. Trasportato nella classica coperta termica scura da quattro giovani, piangeva e urlava, contorcendosi dal dolore. L’abbiamo subito sistemato sul tavolo dell’ambulatorio. Era chiaro che si trattava di un’emergenza.
All’inizio ho pensato che fosse un problema chirurgico, come un calcolo o una perforazione dell’intestino dovuta alla situazione di angoscia estrema. Ma durante il controllo delle vie respiratorie è stato subito chiaro che stava cercando di inghiottire la lingua e allo stesso tempo di trattenere il respiro. Il livello di ossigeno ha iniziato a calare.

I suoi amici cercavano di tenergli fermi gli arti per evitare che scalciasse e si dimenasse, rischiando di colpire gli oggetti intorno e di ferirsi gravemente. Era impossibile calmarlo.
Al contrario, si agitava sempre più e gridava frasi confuse. I suoi amici hanno spiegato al nostro mediatore culturale che lui, Hamza, di 22 anni*, aveva appena saputo che la sorella era stata uccisa durante un attacco aereo in Siria. Qui a Idomeni soffriva moltissimo e ora stava cercando di farsi seriamente del male.

© Guillaume Binet
© Guillaume Binet

Appena arrivato, questo episodio mi avrebbe scioccato, o almeno sorpreso moltissimo. Ma ora non più.
Non è la prima volta, qui a Idomeni, che MSF assiste un paziente con una forte reazione psicologica a causa di un bombardamento in Siria. Per esempio c’è una signora di 68 anni di Aleppo che è stata portata spesso in ambulatorio priva di sensi dopo aver saputo della morte di un famigliare durante i bombardamenti di Aleppo a fine aprile. Dai nostri esami, risulta che questi episodi non hanno un’origine clinica.
Allo stesso modo, un bambino di sette anni ha sofferto di incontinenza per quattro mesi dopo aver visto suo padre colpito da un cecchino, ma è “clinicamente sano”. Abbiamo fissato un appuntamento con il nostro gruppo di psicologi e cercato di procurargli vestiti e pannolini. È chiaro che alla base c’è una questione importante. Lavorando come medici nell’ospedale da campo di Idomeni, io e i miei colleghi ci troviamo a dover far sempre più fronte all’impatto psicologico dei bombardamenti in Siria. Chi scappa non può lasciarsi alle spalle queste esperienze, è impossibile sottrarsi: li seguono come ombre.
I nostri pazienti sono scappati da una zona di guerra dove i bombardamenti su civili e ospedali sono diventati la norma. Come tristemente dimostrato ad Aleppo la scorsa settimana.

© Guillaume Binet
© Guillaume Binet

Una volta scappati, si trovano davanti a un nuovo ostacolo, qui a Idomeni. Il campo nel nord della Grecia al confine con la Macedonia si è formato intorno a una stazione ferroviaria di scambio merci e a un macello. Ospita più di 10.000 migranti e rifugiati, che vivono in un costante clima di paura. Paura dell’ignoto. Paura di ricevere terribili notizie da casa: la prossima bomba sulla Siria ucciderà qualche loro caro? Ma la vera paura è quella di essere rimandati indietro. 
L’angoscia e la frustrazione sono palpabili. A Hamza abbiamo prescritto dei tranquillanti. Una misura estrema, che usiamo solo come ultima risorsa. Ma in questo caso si stava causando un grave danno fisico e con tutte quelle donne e bambini lì intorno non avevamo scelta. L’abbiamo tenuto nell’ambulatorio sotto osservazione e abbiamo ascoltato la sua storia prima di affidarlo a uno dei nostri psicologi.
Spero che migliori. Ma a essere sincero, non so come finirà. Nessuno sa che ne sarà di lui, o di tutte le altre persone bloccate a Idomeni. Sembrano intrappolati in una terra di nessuno. Come mi ha detto un paziente: “Stiamo morendo qui, proprio come succedeva in Siria, solo più lentamente”.
*Nome ed età fittizi.