Questo intervento di Dino Frisullo , è stato scritto in ospedale, poco prima della Sua morte, arrivata in quel mese di giugno del 2003, che tanti di noi ricordano ancora per la tristezza della separazione da un compagno che ci ha indicato la strada. Dino aveva guidato uno sparuto gruppo di antirazzisti che dopo una serie di visite nel centro Regina Pacis avevano dato un contributo determinante per l’avvio delle indagini da parte della magistratura. Le denuncie di Dino sulla privatizzazione dei centri di detenzione amministrativa sono attuali ancora oggi, come rimangono ancora attuali i respingimenti indiscriminati, anche in acque internazionali, e la negazione sostanziale del diritto di asilo.La condanna di oggi si riferisce ad una delle più gravi accuse che avevano portato sul banco degli imputati non solo don Cesare Lodeserto, ma numerosi altri esponenti del “sistema repressivo” del cpt Regina pacis.
Ricordiamo che nella lista degli indagati, nei diversi procedimenti aperti dalla magistratura pugliese, oltre a don Cesare Lodeserto, figuravano immigrati che lavoravano per la Fondazione Regina Pacis, alcuni carabinieri del XI Battaglione Puglia, e due medici. Adesso stanno arrivando le prime condanne. Ma il sistema dei centri di detenzione in Italia rimane ancora in piedi e anche a livello europeo si va verso il mantenimento di queste strutture di esclusione e di criminalizzazione degli immigrati irregolari. Alcuni centri di detenzione amministrativa sono stati chiusi, come ad Agrigento e a Ragusa. Ma la privatizzazione della detenzione amministrativa sta conoscendo una nuova fase, con l’ingresso delle cooperative, come a Lampedusa, e quanto succede nei CPT pugliesi, a Bologna ed a Gradisca di Isonzo, o nei cd. centri polifunzionali, come quelli di Caltanisetta o di Cassibile, conferma che gli abusi sui migranti non sono ancora finiti.
Mentre per i migranti e per tutti coloro che li aiutano o effettuano salvataggi a mare sembra vigere la presunzione di colpevolezza, siamo certi che la giustizia italiana faticherà non poco a stabilire pene definitive ed effettive per i gestori del centro di detenzione Regina Pacis e per i loro complici in divisa. Come ci ha insegnato Dino, continueremo nel lavoro di monitoraggio dei processi in corso, a carico degli autori di violenze nei centri di detenzione amministrativa, così come saremo presenti nei processi nei quali si vorrebbe condannare chi ha prestato aiuto umanitario, sempre dalla parte dei migranti.
Fulvio Vassallo Paleologo ASGI ( Associazione studi giuridici sull’immigrazione) Palermo
Ecco il testo della lettera scritta da Dino Frisullo il 25 aprile 2003
Comunque si concluda la duplice indagine giudiziaria per malversazioni e lesioni sul centro Regina Pacis, sarà ben difficile che qualcuno riproponga quest’esperienza a modello per fantasiosi premi Nobel per l’accoglienza, dopo che si sono levati i veli che ne occultavano il cinico funzionamento da istituzione totale. Non sono bastati gli anatemi di Fitto e dei politici salentini sugli antirazzisti “mistificatori, intolleranti, destabilizzatori delle strutture civili e religiose”, né la difesa d’ufficio di Mantovano in parlamento. E non basterà neppure il silenzio ipocrita di quella parte dell’attuale opposizione che condivide, e a quanto pare non rinnega, la responsabilità della passata canonizzazione di mons. Ruppi e della sua creatura.
Dalla metà degli anni ’90, in totale solitudine, la Rete antirazzista a livello nazionale e poche strutture in Puglia, come il Comitato diritti degli immigrati e il circolo I.Masih a Lecce e gli Osservatori di Brindisi e di Bari, avanzavano dubbi sugli enfatici allarmi, le invocazioni a “solidarietà e fermezza”, le grida d’invasione e le pelose premure di mons.
Ruppi sull’immigrazione. Uno strano mix, le cui ambiguità pian piano si sono sciolte nel senso della logica custodiale e speculativa. E’ stato illuminante per me scoprire, in un documento degli antirazzisti pugliesi, la presenza di don Cesare Lodeserto, per la potente Curia salentina, al convegno convocato a Parigi da mons. Lustiger, sgomberatore di sans-papier ed esponente della destra ecclesiastica, per teorizzare la gestione religiosa dei centri di detenzione in Europa e di quelli di “contenimento” oltre le frontiere comunitarie. Che è esattamente ciò che Ruppi ha realizzato in Salento e, in parallelo, in Moldavia.
Da molti punti di vista è stata e rimane esemplare e paradigmatica l’esperienza del Regina Pacis, il primo Cpt in Italia e tuttora il più grande. Ma non da solo. Ha guidato l’involuzione della catena dei centri d’accoglienza pugliesi, un tempo luoghi di sperimentazione aperta e ospitale, fino a farsi gangli della logistica scientifica del concentramento e della deportazione.
In un territorio militarizzato ben prima del “Piano di allerta e reazione rapida” varato in novembre nel Castello di Lecce, su coste trasformate in cimiteri marini dalle mafie e dal proibizionismo, i centri pugliesi sono stati e sono il laboratorio dell’appalto della custodia al “privato sociale”, della gestione allegra delle relative convenzioni e appalti grazie allo “stato d’emergenza” (finchè poi i bubboni scoppiano, come per il centro Lorizzonte), della detenzione dei richiedenti asilo e dei nuovi arrivati in centri “spuri” d’accoglienza o d’identificazione, della successiva dispersione sul territorio italiano ed europeo di decine di migliaia di poveri cristi. Ciascuno dei quali ha fruttato però milioni ai suoi “tutori”.
Ma la sperimentazione principale, preziosa per i governi europei dopo le decisioni della Ue sul “contenimento” dei profughi di guerra e sul “forced return” dei migranti, è quella operata con le deportazioni di massa.
Ricordo quando apprendemmo con orrore che nell’agosto 2001 dodici kurdi erano stati riconsegnati dal Regina Pacis, via Malpensa, ai loro torturatori turchi. Nella primavera successiva riuscimmo a fermare il rimpatrio di altri cento kurdi , ma non di sessanta srilankesi respinti nell’inferno della guerra civile.
Ma quant’altre vite sono passate dai centri di Lecce, Foggia, Bari e Brindisi per essere aggregate in un charter o su un traghetto e rispedite indietro, in violazione di leggi e convenzioni e spesso nel totale disprezzo del diritto alla vita? Di questi destini non decidono più i gestori dei centri, ridotti, cattolici o laici che siano, a passacarte del Dipartimento di Ps. Costretti, per non rinunciare alle prebende del governo, a riempire e svuotare i loro centri a comando di polizia, senza alcun rapporto con il territorio pugliese ma con l’andamento nazionale di sbarchi e rastrellamenti metropolitani, del mercato del lavoro. E, fuori, delle guerre.
Questo gioco è stato infranto. Oggi l’intera struttura dei centri pugliesi è sotto accusa, come quelli siciliani, anche se le istituzioni pugliesi si schierano compattamente a difesa mentre la Regione Sicilia promuove un’indagine conoscitiva. Credo di poter dire che il merito è stato della tenacia con cui, forti dell’esperienza del movimento nazionale e internazionale contro la globalizzazione economica, i Social Forum e gli antirazzisti leccesi e pugliesi hanno saputo uscire dalla logica della sporadica denuncia e dell’invettiva, e mettersi in contatto vero con le persone recluse.
Penso alle visite al Regina Pacis e a Lorizzonte, a Bari Palese o a Borgo Mezzanone, e prima e dopo, alla conquista degli ingressi periodici con medici e avvocati, al blocco dei rimpatri e delle ritorsioni, al sostegno a chi ha sporto denuncia ed a chi ha chiesto asilo politico, alla ricostruzione delle loro storie, alla costruzione di un rapporto di fiducia e d’amicizia che inevitabilmente si trasferisce poi alla popolazione.
Per parlare solo del Regina Pacis, senza questa continuità di relazione umana quasi sessanta pakistani del Kashmir sarebbero rimpatriati e non liberi, e quattordici maghrebini pestati non avrebbero potuto chiedere giustizia di là dal mare.
E senza la stessa tenacia, a Brindisi le famiglie dei superstiti della Kater i Radesh non avrebbero retto fino ad oggi un processo farsa, e centinaia di asilanti non sarebbero usciti da soli dalle roulotte degli aeroporti di Foggia e di Bari. Come a Trapani, dove la stessa caparbietà ha consentito che non si perda ancora la memoria umana e giudiziaria della strage del ’99.
Non numeri e nemmeno “casi”, ma persone. E’ in loro nome che avevamo il diritto di presidiare, quella notte, il Duomo di Lecce. Nel nome di Cristo “condannato a morte per sedizione”, come scrisse il Social Forum barese. Di quel Cristo in cui, credenti o no, ci potremmo riconoscere tutti noi e soprattutto tutti gli esclusi, i reclusi, gli offesi. Non coloro che li offendono e li recludono.
Dino Frisullo – 25 aprile 2003