Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da L'Espresso del 24 marzo 2005

L’ultimo viaggio dei dannati del Sahara

di Fabrizio Gatti

Una coperta arrotolata e in mezzo alle pieghe, tanta polvere e due occhi neri.
Amina ha nove mesi e viaggia nascosta in quel fagotto perché il sole non la bruci. Da dieci giorni e nove notti la mamma la stringe tra le braccia, preoccupata che i sobbalzi, la stanchezza o un colpo di sonno la facciano scivolare dal camion. Mariana Djallo, 8 anni, sta accovacciata sui sacchi di canapa con altri 150, uomini, donne e bambini. Quando fa buio e qualcosa intorno la spaventa, cerca la mano della sorellina di cinque anni e del cuginetto di tre. E stringe forte. Amadou, 3 anni e mezzo, e Suleyman, 2 e qualche mese, hanno perso i genitori. Mamme e papà sono con un altro carico di rimpatriati. Più avanti. O forse dietro. Lo scopriranno all’arrivo. Tra una settimana, inshallah, se Dio vuole, o se i ginn, gli spiriti del deserto, saranno buoni con loro.
Non si fermano davanti a nessuno i gendarmi e i soldati del colonnello Muhammar Gheddafi. Nemmeno al pianto affamato di Abdulmagid, 10 mesi, e alla rabbia della
madre che per lo sfinimento e lo stress non riesce più ad allattarlo come prima di partire. Tra qualche anno forse qualcuno spiegherà ad Amina, Mariana, Amadou, Suleyman e Abdulmagid perché da piccoli hanno dovuto attraversare il Sahara e poi anche il Tenére. Dodici giorni e 12 notti di viaggio sui camion che affondano nella sabbia, con la vita appesa a un bidone d’acqua da 20 litri. Da Al Gatrun dove in Libia finisce la strada asfaltata, ad Agadez in Niger dove un ventaglio di autobus, minibus e Tir accompagna gli immigrati espulsi nei Paesi d’origine: 1.490 chilometri di caldo e paura. Impresa che se capitasse a un marmocchio europeo, verrebbe sicuramente celebrata in tv con tanto di sponsor e interviste. Ma questi sono bimbi africani. Per loro, per le loro famiglie e per tutti gli altri stranieri arrivati dall’Africa povera a sud del Sahel, non c’è più posto in Libia. Se ne devono andare. Chi resta, rischia di essere rinchiuso in un campo di detenzione e buttato nel deserto. Chi parte, rischia di essere rapinato e abbandonato nel deserto.
Da settembre, inizio delle espulsioni, è già una strage: 106 morti. Ma è solo il conto ufficiale ammesso dalle autorità. In ottobre l’incidente più grave, secondo le informazioni raccolte da un rappresentante della Mezza Luna Rossa nell’oasi di Dirkou: 50 immigrati muoiono schiacciati da un camion troppo pesante che si rovescia mentre arranca verso il passo di Tumu, al confine tra Libia e Niger. In gennaio un ragazzo del Ghana, mai identificato, viene sbranato da un branco di cani selvatici davanti ai suoi compagni di viaggio a Madama, la frontiera tra i due Paesi. L’ultima tragedia conosciuta, due settimane fa: tre ragazze nigeriane morte di sete a un giorno da Tumu e altre 15 raccolte in fin di vita con quattro uomini, abbandonati nel deserto da chi aveva organizzato il loro rientro. Nessuno però sa quanti siano davvero i corpi sepolti dalla sabbia, lontano dalle rotte indicate dalle carte geografiche: passeggeri uccisi dalla fatica, dagli incidenti o rapinati e lasciati tra le dune dai trafficanti che avrebbero dovuto riportarli a casa.
I camion stracarichi di immigrati, bagagli e disperazione sono il prezzo dell’accordo tra Italia e Libia: il risultato delle retate scatenate dal governo libico, dopo il patto siglato il 25 agosto 2004 tra Silvio Berlusconi e il dittatore di Tripoli. Doveva fermare gli sbarchi sulle coste italiane: che, invece, sono ripresi massicciamente in questi giorni. E l’impegno del regime di Gheddafi era questo: accogliere i clandestini respinti dall’Italia, sigillare il confine meridionale con il Niger, rimpatriare gli stranieri entrati in Libia da sud. Un piano che aveva sollevato i dubbi di Paesi dell’Unione europea come la Francia: per la scarsa propensione del Colonnello al rispetto delle convenzioni su diritti umani e rifugiati. Ma per Tripoli avevano garantito Palazzo Chigi e il ministero dell’Interno italiano: nessuno sarà espulso nel Sahara, i campi di detenzione nel deserto non si faranno, i rimpatri avverranno soltanto in aereo. Il sottosegretario di An, Alfredo Mantovano, l’aveva ripetuto in un’intervista in tv: «La Libia da un certo punto di vista si trova di fatto in zona Schengen», aveva spiegato con soddisfazione, ricordando la convenzione tra gli Stati dell’Unione: «II primo effetto politico di questi accordi è che la Libia riprenda sul proprio territorio i clandestini nei cui confronti non è stata capace di fare opera di sbarramento».
Da sei mesi l’apparato di sicurezza libico lavora a pieno ritmo. Tutti gli stranieri espulsi raccontano di retate all’alba, casa per casa. Oppure per strada, o davanti ai luoghi di lavoro. E di decine di migliaia di persone rinchiuse nel campo di detenzione di Al Gatrun (nel deserto) e portate nel Sahara.
È proprio questa l’opera di sbarramento con cui Gheddafi sta accontentando l’Italia e, contemporaneamente, riducendo gli stranieri nel proprio Paese. Almeno due milioni, secondo stime di qualche anno fa: la metà nati nell’Africa sub-sahariana, dal Senegal alla Nigeria, al Mali, al Camerun. Il Colonnello in persona li aveva invitati a lavorare in Libia e per loro aveva abolito i visti di ingresso, quando negli anni dell’embargo si era autoproclamato leader del continente. Ma ora che è di nuovo alleato dell’Europa e degli Stati Uniti, Gheddafi ha archiviato il panafricanismo. Difendere l’amicizia con l’Africa nera non interessa più. E l’obiettivo delle espulsioni sono proprio gli immigrati neri. Più di 100 mila sarebbero già stati catturati o convinti a partire: 14 mila gli stranieri buttati nel deserto soltanto in febbraio, caricati sui 72 camion che hanno attraversato la frontiera.
Viaggiare con i dannati non è semplice. Bisogna aggirare la Libia, violare la censura assoluta che copre l’operazione. E affrontare una lunga marcia da sud: dieci giorni senza sosta nel Sahara, tra dune e montagne, violenze e dolore.
Niente indica il confine tra Libia e Niger. A ovest il Plateau di Manguéni, a est la montagna di Tumu. La pista si infila lì in mezzo. Non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono telefoni. Le notizie si spostano come all’anno Mille: con la voce dei viaggiatori. Due giorni fa da qui è sfilato un convoglio umanitario dell’associazione francese Les enfants de l’Air: 14 grossi fuoristrada carichi di medici e medicinali destinati alla regione di Agadez. E il loro passaggio è stato la salvezza per 19 immigrati, 15 ragazze e quattro uomini. Sono scheletri quando vengono avvistati. Prima 12. Poi cinque. Poi, nella notte, altri due Stanno camminando lungo le tracce lasciate dai camion, in direzioni diverse tra l’oasi di Tajarhi e Tumu, gli ultimi 220 chilometri di deserto libico. Non hanno più niente.
Raccontano che da otto giorni, forse dieci, per sopravvivere mangiano le loro feci e bevono urina. Sono immigrati nigeriani, del Benin, del Togo, del Ghana. A metà febbraio si erano pagati il viaggio su un furgone 4×4 pur di non finire nel campo di detenzione di Al Gatrun. Ma dopo un giorno e una notte i due autisti, un libico e un sudanese, li hanno obbligati a scendere e sono scappati con i loro bagagli, i soldi e l’acqua.
Erano 22, tre sono morti. «Li abbiamo raccolti e medicati. Siamo rimasti insieme due giorni», riferiscono i volontari di Les enfants de l’Air: «La notte le ragazze per ringraziare il buon Dio, hanno cantato un gospel. Abbiamo pianto tutti. A Tumu i militari libici li hanno presi in consegna. Ci hanno detto che li rimanderanno al campo di detenzione di Al Gatrun per fare i documenti per l’espatrio». Il gruppo di sopravvissuti deve così tornare indietro di 310 chilometri, due giorni e due notti di viaggio. Ma Paul Adeomo, 22 anni, del Benin, grazie al passaporto conservato in una tasca, può restare a Tumu. I libici lo caricano sul primo camion che passa. Senza acqua ne viveri. Se ne sta accovacciato, sofferente, gli occhi puntati sui suoi piedi nudi, nel groviglio di bagagli e passeggeri. Ogni tre, quattro ore chiede a qualcuno la borraccia e subito dopo stringe le labbra per non perdersi nemmeno il sapore di quel sorso.
Madama è un pozzo e un vecchio fortino della legione francese. Ora è anche l’avamposto dell’esercito del Niger in una terra di nessuno, attraversata da banditi, trafficanti d’armi ed ex guerriglieri algerini. Sulla distesa di sabbia rossa nove camion attendono da ore il via libera a ripartire. Raggomitolati all’ombra delle ruote e distesi tutt’intorno ci saranno almeno 1.500 persone. Per i militari di queste parti i viaggi degli immigrati sono da sempre una risorsa. Ma con i rimpatriati sono più ragionevoli. Oggi si accontentano di chiedere mille franchi a testa, un euro e 50: a fine giornata fanno più di 2 mila euro di mance da dividere in proporzione tra la truppa e i sottufficiali. Quando il traffico di uomini e braccia portava a nord, questi soldati pretendevano 10 mila franchi a persona e a volte rapinavano tutti i soldi che trovavano nelle tasche. E chi non ne aveva, veniva bastonato o costretto a interrompere il viaggio e lavorare gratis qualche me se nel fortino. A 200 metri dai bidoni sforacchiati e dal filo spinato che segnano il posto di blocco, dietro un cespuglio di grosse tamericie, hanno seppellito il ragazzo del Ghana. Magobrì, 20 anni, lo ha visto morire. Da due anni lavora come portatore d’acqua per i militari. «Era gennaio, quella sera faceva freddo», ricorda Magobrì; «I cani abbaiavano e ringhiavano e sono uscito a vedere. Quel ragazzo era appena arrivato dalla Libia, forse si era allontanato dal camion per fare pipì. L’ho sentito gridare. Alla luce della luna ho visto una persona che correva. È caduto. I cani continuavano a ringhiare, ma non si vedeva più niente. Quando l’abbiamo ritrovato, era già morto. I cani gli hanno mangiato la gola e le gambe. Nel deserto vicino ai pozzi, ci sono cani selvatici, sempre affamati». In una cella del fortino si sono accumulati i bagagli di 11 immigrati morti in un altro incidente: «I familiari dovrebbero venire fin qui a riprenderseli», spiega il sergente capo Ornar Amadou, comandante a Madama: «Tutti i giorni ci sono morti nel deserto. Succede quando un camion o un fuoristrada restano in panne. Non abbiamo mezzi di soccorso e spesso gli incidenti si scoprono dopo mesi. I cadaveri vengono sepolti sul posto. No, nessuno ha compilato una lista delle vittime e dei dispersi. Solo Allah la conosce».
Si riparte su un altro camion. Una ragazza seduta davanti, quando scopre che a bordo c’è un italiano, si volta e si presenta. Bessy Mody, 27 anni, nigeriana. È
una «deportata volontaria», nel senso che si sta pagando il suo rimpatrio. Viaggia con il fratello, Jonathan, 25 anni, laureato in ingegneria a Lagos, un beautycase di plastica e un sacco con il frullatore elettrico che è riuscita ad afferrare quando è stata prelevata dalla sua casa a Tripoli. «Perché l’Italia ha fatto questo contro di noi?», chiede Bessy, «avevo un lavoro, facevo le pulizie. Io non volevo venire in Europa. Un mese fa la polizia mi ha presa da casa e messa in un campo di concentramento per africani, vicino a Tripoli. Le condizioni nei campi di Tripoli e di Al Gatrun sono terribili. Prendono le ragazze più giovani, anche di 14 anni, e le fanno prostituire con i militari in cambio della possibilità di rimanere. Dovete chiedere aiuto ai governi europei e al governo nigeriano, tutto questo è una vergogna». Il fratello Jonathan ha passato quattro mesi nel campo di detenzione: «Da tre anni facevo il saldatore a Bengasi. In agosto, dopo l’accordo con l’Italia, l’atteggiamento di tutti i libici verso gli immigrati è peggiorato. Il mio capo ha cominciato a dire che il lavoro che facevo non gli piaceva e non mi pagava. Chissà come mai prima gli era sempre andato bene. Ogni giorno scoprivi che un tuo vicino di casa o un tuo collega era scomparso. Dovevamo vivere nascosti come topi. Ho deciso che era il momento di scappare in Europa. Sono arrivato fino a Lampedusa, su una barca, una “lampa lampa”, per 700 dollari. Ma nessuno mi aveva detto che Lampedusa è una piccola isola. La polizia italiana ci ha presi e riportati a Tripoli in aereo. Ho fatto quattro mesi di detenzione, ma ho ritrovato mia sorella.
Lei era riuscita a nascondere qualche risparmio. Così quando ci hanno trasferiti nel deserto, al campo di Al Gatrun, siamo ripartiti subito».
Il proprietario del camion è un libico della regione di Sebha, Ahmed Mansour, 35 anni. Sta in cabina, accanto a Yussuf, l’autista nato in Ciad. «Bella l’Italia, volevo venirci il mese prossimo in vacanza», dice il proprietario, «ma con tutta questa gente da riportare indietro, ora c’è troppo da lavorare». L’accordo tra Italia e Libia, era stato detto, doveva stroncare il business ignobile dei trafficanti di immigrati. Ma con le espulsioni sono sempre loro a fare affari. Fino ad agosto 2004 il viaggio da Agadez ad Al Gatrun costava 40 mila franchi, poco più di 69 euro. Ora il ritorno da Al Gatrun ad Agadez costa 100 mila franchi: due mesi e mezzo di lavoro per un impiegato specializzato del Niger, sei mesi di paga per un bracciante o un muratore straniero in Libia. Adesso che il sole è tramontato, giù in cabina s’accende una discussione in arabo. Ahmed Mansour vuole fermarsi per fare il tè e scaldare un po’ di pasta. Ma Youssuf, l’autista, tira dritto; «Siamo a Mabrous, qui è pericoloso. Ci sono i ginn». Il Sahara di notte è pieno di spiriti dei ginn.
Crepitii, sussurri, voci, illusioni. Ma anche banditi. Questa è una delle pianure preferite per gli attacchi ai camion.
A ovest, una valle impallidita dalla luna piena porta al passo di Salvador; la rotta dei contrabbandieri. Altri due carichi di immigrati si sono rovesciati da quelle parti. Ventinove morti in un caso, nove nell’altro.
Nessun sopravvissuto, secondo le notizie ufficiali. Tra loro, si dice, alcuni espulsi dall’Italia. Ma non tutti i cadaveri sono stati identificati. Lassù si è insabbiata anche la vita di tre ragazzi di Agadez: Hakim Jonas, 23 anni, Abdramane Abda, 27, e Mohamed Oumai, 27. Da cinque mesi lavoravano in Libia nel progetto agricolo di Loued, un’oasi vicino alla rotta per il Niger. Quando in settembre vedono passare i primi camion, Hakim è terrorizzato. «Io mi sono indebitato per pagarmi il viaggio fin qui, non posso tornare indietro senza un soldo», dice una sera agli amici nel buio della stanza dormitorio. Hakim fa il cuoco nella mensa. Un buon stipendio, rispetto ai braccianti: 200 dinari al mese, quasi 80 mila franchi, 122 euro. Il suo lavoro in Libia è l’unica assicurazione per le due sorelle che vanno ancora a scuola, il padre vecchio e malato e la madre che da anni si arrabatta cuocendo teste di montone. Una notte insonne Hakim ha un’idea; «Andiamo via prima che ci prendano loro, scappiamo con il fuoristrada del padrone. Ad Agadez 10 rivendiamo e ci dividiamo i soldi». Laouan Ari, 25 anni, arrivato da Agadez due anni fa, dice che è una pazzia: «Non è legale rubare. E poi come lo attraversi il deserto?». I due ragazzi sono amici dall’infanzia e hanno un sogno: lavorare in Europa, poi tornare a casa e aprire un discobar. Una mattina di fine settembre, all’alba, Laouan scopre che è rimasto solo: dall’oasi mancano tre amici e un fuoristrada. Passano i mesi. Laouan torna ad Agadez. Rimpatrio anche per lui. Dei tre ragazzi, in viaggio ormai da cinque mesi, il deserto fa arrivare soltanto una voce. In febbraio. Da un elicottero militare algerino avvistano una Toyota Hilux e tre cadaveri al confine tra Niger, Libia e Algeria. Dovrebbero essere loro.
Hanno seguito quella che i tuareg chiamano mescebed, una traccia che porta al nulla.
Il posto di controllo di Dao Timmi è avvolto da un fuoco invisibile. La sabbia e le uniformi dei soldati si deformano in nuvole incandescenti. Amadou e Suleyman, i due piccoli cugini, ancora non sanno dove sono i genitori. Un altro giorno di viaggio a quasi 50 gradi. In fondo a una di scesa luccicano le palme di Seguedine e le forme arrotondate di due camion carichi di gente. C’è un pozzo qui e ci si ferma a riposare. Ibrahim Soumana, 25 anni, è stremato, ha la febbre alta. Qualcuno ne approfitta per dormire: durante la marcia è pericoloso, si rischia di cadere. Mariana Djallo, la sorellina Aziza, Abdulmagid e gli altri bambini aspettano di ripartire all’ombra dei bagagli ingigantita dal tramonto. La mamma e il papa di Mariana sono ancora in Libia: «Mio fratello e sua moglie sono rimasti a Tripoli», spiega lo zio, Mamadou Djallo, di Agadez. «Lavorano, provano a resistere. Ma abbiamo deciso di portare via i bambini. Sì, deportazione volontaria. La Libia non è più sicura nemmeno per loro». La piccola Amina, incontrata giorni fa, dovrebbe essere ormai a casa. Ma questi bimbi hanno tutto il deserto del Tenére davanti. L’orizzonte nasconde Dirkou, l’oasi degli schiavi e altri 650 chilometri di dune e sabbia. Agadez è ancora lontana.