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L’uso dei droni per guardare i migranti che affogano mette a nudo tutta la disumanità delle pratiche di controllo sui confini

Phil McDuff, The Guardian - 6 agosto 2019

Un video ripreso dalla sorveglianza aerea, diffuso da Frontex, mostra un tentativo di attraversare il Mediterraneo da parte di un gruppo di migranti, lo scorso giugno

Se avessi ignorato quelle grida di aiuto, non avrei mai più trovato il coraggio di affrontare il mare”.

Con queste parole il pescatore siciliano Carlo Giarratano ha commentato la sua decisione di sfidare il “decreto sicurezza” del Governo italiano, che prevede sanzioni o l’arresto nei confronti di chiunque trasporti in Italia migranti soccorsi in mare.

La sua storia è un esempio della preoccupante tensione che si è creata ai confini della “Fortezza Europa” in materia di leggi e regolamenti. Secondo il diritto internazionale, il capitano di un’imbarcazione in mare è tenuto a fornire assistenza alle persone in difficoltà, “a prescindere dalla nazionalità o dalla cittadinanza delle persone stesse”. Al contempo, molti paesi europei, e la stessa UE, stanno cercando di limitare questo principio e queste attività, malgrado il tragico bilancio di morti nel Mediterraneo, in continua crescita.

L’Agenzia di Confine e Guardia Costiera Europea, Frontex, sembra aver escogitato una soluzione ingegnosa: i droni. L’obbligo legale di aiutare un’imbarcazione in difficoltà non si applica a un veicolo aereo senza pilota (UAV, unmanned aerial vehicle). Si può aggirare la questione, politicamente calda, su chi sia responsabile di accogliere i migranti soccorsi, se questi semplicemente non vengono proprio soccorsi. Questo principio fa parte di una consolidata tendenza a mettere in atto politiche finalizzate a impedire che i migranti attraversino il Mediterraneo. Visto l’obbligo di soccorrere le persone che ci chiedono aiuto, la soluzione sembra essere questa: fare in modo di non sentire le loro richieste.

Jean-Claude Juncker sostiene che le politiche europee di presidio ai confini sono concepite per “stroncare il business dei trafficanti”, perché nella moralità egocentrica che ispira la politica di frontiera europea, se non ci fossero trafficanti non ci sarebbero migranti.

Ma non ci sono trafficanti che si fabbricano migranti in officina. Se le rotte ufficiali sono bloccate, le persone vanno a cercare quelle non ufficiali. Rendere la migrazione più difficile, ha fatto aumentare la richiesta di trafficanti e scafisti, certamente non l’ha fermata. Invece che stroncare il loro business, queste politiche lo hanno creato.

Secondo la logica della foglia di fico, l’UE sostiene di non limitarsi a lasciare affogare i migranti, ma di fornire supporto alla guardia costiera libica perché intercetti le imbarcazioni che tentano la traversata e riporti le persone nei campi di detenzione in Libia.

Ma il rapporto del Global Detention Project, a proposito delle condizioni in questi campi, riferisce: “I detenuti sono spesso sottoposti a gravi abusi e violenze, compresi stupri e torture, estorsioni, lavori forzati, schiavitù, condizioni di vita insopportabili, esecuzioni sommarie.” Human Rights Watch, in un rapporto intitolato Senza via di fuga dall’Inferno, descrive situazioni di sovraffollamento e malnutrizione e riporta testimonianze di bambini picchiati dalle guardie.

L’Irish Times ha riportato accuse secondo cui le milizie associate con il GNA (Governo Libico di Alleanza Nazionale, riconosciuto dall’ONU), starebbero immagazzinando munizioni in questi campi e userebbero i rifugiati come “scudi umani”. Sembra quasi inevitabile, quindi, la notizia che il 3 luglio almeno 53 rifugiati sono stati uccisi durante un attacco dei ribelli appartenenti all’Esercito Nazionale Libico, nel campo di detenzione di Tajura, vicino a Tripoli.

Secondo una testimonianza riportata dall’Associated Press, a Tajura i migranti erano costretti a pulire le armi delle milizie fedeli al GNA, armi che erano immagazzinate nel campo. Secondo i racconti di testimoni oculari dell’attacco, riportati dalle forze ONU, le guardie del campo avrebbero aperto il fuoco su chi tentava di scappare.

Un rifugiato raccoglie le sue cose nel centro di detenzione di Tajura (Tripoli), distrutto dopo un attacco aereo che ha ucciso 53 persone.

Nel mondo occidentale, quando parliamo di immigrazione, tendiamo a focalizzarci sul cosiddetto “impatto sulle comunità” causato dai flussi di nuovi arrivati che si muovono da un posto all’altro.

Nelle nostre discussioni, ci chiediamo se i migranti portino un guadagno per l’economia oppure intacchino risorse già scarse. Raramente ci fermiamo a guardare nella sua cruda e tecnica realtà la concreta applicazione del controllo alle frontiere, quando si traduce davvero in fucili e filo spinato.

Ci ripetiamo che i costi vanno tutti in un’unica direzione: secondo la nostra narrazione preferita, i controlli di confine sono tutti gratis, è lasciare entrare i migranti la cosa che costa. Ma i costi da pagare ci sono sempre: non solo il tributo di morti che continua a crescere o i budget multimilionari e sempre in aumento delle nostre agenzie di frontiera, ma anche i costi morali e sociali che finiamo con l’estorcere a noi stessi.

L’ossessione per la sicurezza dei confini deve fare i conti con alcune delle più antiche e radicate convinzioni etiche proprie delle società occidentali. Prendersi cura del più debole, fare agli altri quello che vogliamo sia fatto a noi, aiutare chi possiamo. Molti uomini e donne che lavorano in mare, quando soccorrono dei naufraghi non sono spinti solo da una legge che li obbliga a prestare aiuto, ma anche da un imperativo morale più essenziale. “Lo facciamo perché siamo gente di mare”, ha detto Giarratano al Guardian, “in mare, se ci sono persone in pericolo, le salviamo”.

Ma i nostri governi hanno deciso che questo non vale per gli europei. Come se fosse una perversa sfida lanciata a istinti morali vecchi di migliaia di anni, nell’Europa moderna un marinaio che salva un migrante mentre sta per affogare, deve essere punito.

Infrangere queste reti di reciproche responsabilità fra gli esseri umani, ha dei costi: divisioni e tensioni sociali. Ed è un amaro paradosso, perché proprio argomenti di questo genere sono in testa alle nostre preoccupazioni percepite quando si parla di migrazioni. E mentre l’UE fa di tutto per respingere un fronte del confine verso i deserti del Nord Africa, cercando di tenere i corpi dei rifugiati abbastanza lontani da non farceli vedere da vicino, intanto l’altro fronte continua a spingere verso di noi. L’Europa diventa un “ambiente ostile” e quindi noi diventiamo un popolo ostile.

Ci auto-ingaggiamo come guardie di confine al nostro interno. Padroni di casa, infermiere, insegnanti, manager – ogni relazione sociale deve essere controllata. Il nostro regime di “frontiera quotidiana” crea “comunità sospette” all’interno della nostra società: sono persone sospette per il solo fatto di esistere e, nei loro confronti, si possono chiamare le forze dell’ordine in ogni momento, “giusto per dare un’occhiata”.

Il confine non è solo un sistema per tenere gli estranei fuori dalla nostra società, ma per marchiare per sempre le persone come estranee, anche all’interno e per legittimare ufficialmente il pregiudizio, per garantire che “l’integrazione” – il Sacro Graal della narrazione progressista sull’immigrazione – resti illusoria e irrealizzabile, uno scherzo crudele giocato sulla pelle di persone destinate a rimanere etichettate come straniere e sospette. La nostra società nel suo insieme si mette al servizio di questo insaziabile confine, fino a definire la sua vera e propria identità nella capacità di respingere le persone.

Malgrado arrivino continuamente immagini e notizie di tragedie e di morti, i media evitano di collegarle con le campagne di opinione che amplificano le cosiddette “legittime preoccupazioni” della gente e le trasformano in un inattaccabile “comune buon senso”.

I compromessi che reggono le politiche di controllo dei confini non vengono messi in luce. Questo ci permette di guardare da un’altra parte, non perché siamo crudeli ma perché non possiamo sopportare di vedere quello che stiamo facendo. Ci sono persone e gruppi che, come denuncia Adam Serwer in un articolo su The Atlantic, sono proprio “Focalizzati sulla Crudeltà”. E anche se noi non siamo così, viviamo comunque nel loro stesso mondo, un mondo in cui degli esseri umani annegano e noi li guardiamo dall’alto dei nostri droni senza pilota, mentre lo stato punisce chi cerca di salvarli.

In troppi crediamo nel mito di una frontiera dal volto umano, solo perché ci spaventa guardare in faccia la tragica e insanguinata realtà del concreto controllo quotidiano sui confini. E comunque, se fosse possibile, non avremmo ormai risolto questa contraddizione? Il fatto che non lo abbiamo fatto dovrebbe portarci a pensare che non ne siamo capaci e che ci si prospetta una cruda e desolante scelta morale per il futuro.

D’ora in poi, il numero dei migranti non può che aumentare. I cambiamenti climatici saranno determinanti. La scelta di non respingerli non sarà certamente gratis: non c’è modo di condividere le nostre risorse con altri senza sostenere dei costi. Ma se non lo facciamo, scegliamo consapevolmente i naufragi, gli annegamenti, i campi di detenzione, scegliamo di destinare queste persone ad una vita da schiavi in zone di guerra. Scegliamo l’ambiente ostile. Scegliamo di “difendere il nostro stile di vita” semplicemente accettando di vivere a fianco di una popolazione sempre in aumento fatta di rifugiati senza patria, ammassati in baracche di lamiera e depositi soffocanti, sfiniti fino alla disperazione.

Ma c’è un costo che, alla fine, giudicheremo troppo alto da pagare? Per il momento, sembra di no: ma, … cosa siamo diventati?