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La Libia, le armi e la paura

Il racconto di un periodo trascorso a Taraghin e Sabha

Photo credit: Africa News
Taraghin nella mappa
Taraghin nella mappa

Libia, 2013

Sono arrivato a Taraghin, stavo male forse perchè avevo bevuto l’acqua salata nel deserto. Siamo entrati in una casa in costruzione, c’erano 20 persone e ci hanno diviso in gruppi.

Da lì non potevamo muoverci, dovevamo stare fermi e io continuavo a stare male. Il giorno dopo ho messo dei soldi per fare la spesa, per mangiare qualcosa.
Io dormivo perchè stavo male e nessuno mi ha svegliato per mangiare.
Il giorno dopo dovevamo andare a Sabha, ma ho detto loro che non ero in grado di partire.
Gli altri sono andati via e io sono rimasto lì da solo.

Sono uscito per cercare qualcuno che mi aiutasse. Ho incontrato un africano che faceva il muratore e gli ho spiegato il mio problema.
Lui mi ha indicato dove andare, lì potevo trovare degli altri africani.
Ho incontrato un senegalese e finalmente dopo una settimana ho mangiato, mi hanno fatto uova e patate.
Intanto continuavo a stare male e ho deciso di andare in ospedale: c’era un medico turco, non era una buona struttura ma per una settimana andavo ogni giorno lì per curarmi.
Poi questo uomo senegalese mi ha proposto di lavorare per lui. Facevamo lavori di muratura, io seguivo la parte elettrica.

Mentre ero a Taraghin mi ha chiamato Alì, il mio amico senegalese, per dirmi di andare a Sabha.
Per entrare in città devi farti portare da delle persone, il passaggio è sempre con i pick-up.

Viaggiavamo su due pick-up, quello su cui viaggiavo prima di arrivare a Sabha si è fermato e ci hanno fatto entrare una casa. L’edificio aveva una porta in ferro, la “vigilanza” era svolta da africani e non si poteva uscire.


C’era un solo bagno e noi eravamo più di 150 persone, mangiavamo pane duro e dormivano tutti ammassati, quasi uno sopra l’altro.

Con noi c’era anche un gruppo di eritrei, tra di loro anche una donna. A un certo punto questo libico le ha detto “Tu non dormi con loro“. I parenti che erano con lei non hanno potuto fare niente. Di fatto eravamo tutti prigionieri nelle loro mani.

Dopo 4 giorni il mio amico Alì ha pagato l’equivalente di circa 100 euro per farmi uscire e siamo andati a Sabha.

Quando siamo arrivati alla casa dove lui viveva, gli altri connazionali che erano con lui ci hanno detto che non potevamo stare perchè era pieno.
Allora siamo andati in un “foyer”, un grande centro di accoglienza. C’erano più di 150 persone, soprattutto africani, e ho dovuto pagare 33mila dinari (circa 20 euro) come cauzione di “affitto“. Poi ogni mese avrei dovuto dare 30 euro.
Erano 4 camere in tutto, per dormire eravamo stretti e non riuscivi a muoverti.
La mattina tutti uscivano per cercare lavoro.

Il tetto della casa era fatto di arbusti, i libici armati salivano sopra e ci chiedevano di aprire le porte.
Ma avevamo paura e non aprivamo.
Qui sono rimasto 3 giorni.
Non era un posto sicuro e mi sono spostato in una fabbrica fuori città, avevano bisogno di personale per ampliarla. A fianco c’era una casa dove ci facevano dormire con diverse stanze da usare come dormitori. Ho lavorato lì per tre mesi ma non tutti i giorni. Il proprietario della fabbrica è stato ucciso da degli uomini armati durante una rapina.

Me ne sono andato, non avevo altra scelta, sono stato costretto a tornare a Sabha.

Sabha nella mappa
Sabha nella mappa

Nel frattempo avevo chiamato una persona nota per fare “passaggi” dalla Libia all’Italia. Gli ho chiesto di aiutarmi a trovare ospitalità.

Lui mi ha detto di andare in un quartiere di Sabha controllato dagli uomini di Gheddafi. Mi ha detto che siccome sono elettricista potevo trovare lavoro.

Ho ritrovato il mio amico Alì, che mi ha pagato il viaggio per arrivare (per farti entrare a Sabha devi avere qualcuno che garantisce per te) e un nuovo lavoro: lavoravamo molto ma era pericoloso. Sentivamo spesso dei colpi di arma da fuoco, ma dovevamo far finta di niente e continuavamo a lavorare. Il nostro capo ci accompagnava al lavoro garantendo la sicurezza armata.

Dopo 6 mesi nel quartiere ero conosciuto come elettricista e ho iniziato a lavorare in proprio.
A volte era un lavoro pericoloso perché dovevo intervenire sulle linee elettriche che portano la luce alle case.

In giro però erano tutti armati, ogni cosa era sotto il controllo delle milizie.

Mi sono detto che era troppo pericoloso restare a Sabha e allora mi sono organizzato per andarmene. Ho raccolto i soldi necessari per andare a Ben Walid.

Il viaggio è stato molto lungo (mi pare due giorni) e difficile, si attraversa un deserto. C’erano tante persone dirette a Tripoli che volevano partire per l’Italia, ma io non avevo intenzione di andarci.
Eravamo stipati su tanti pick-up ma ci siamo fermati fuori dalla città.

Per entrarci siamo saliti tutti su un grande camion scoperto. Ci hanno fatto sdraiare e poi coperto con dei teli. Se le milizie ti scoprono vieni messo in prigione. Alle porte della città ci hanno messo in una specie di prigione e siamo rimasti lì per due giorni.

Solo in 5 dovevamo fermarci a Ben Walid, allora ci hanno caricato su un pick-up e ci hanno fatto finalmente entrare in città.

Redazione

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