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La crisi perpetua

Come la discriminazione dell’altro mette in luce le nostre mancanze

Photo credit: Carmen Sabello

Ripercorrendo il tempo dei significati, troviamo “crisi” nelle sue forme originarie: krisis (κρίσις) il nome e krino (κρίνω) il verbo, il quale determina l’azione del giudizio, della scelta, ma anche la fase di svolta di una malattia. L’accezione medica è stata nella storia la più lungamente utilizzata, sin dai tempi di Ippocrate, che se ne avvale intorno al 420 a.C. Il viaggio della parola continua dunque lungo le vie militari, e precisamente nella guerra del Peloponneso, dove Tucidide scrive del termine crisi come della capacità di giudizio, in questo caso in battaglia. Troviamo infine, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, l’accezione di crisi come giudizio ultimo, divino.

In senso lato, giudicare qualcosa vuole dire mettere questo qualcosa in crisi, interrompere la continuità degli eventi, la regolarità, la coerenza. Allo stesso tempo, il giudizio nasce col pensiero, ed in particolare grazie al pensiero critico. Emerge qui la connessione intrinseca tra critica e crisi, come ricorda Koselleck (2009).

Abbiamo quindi critica, giudizio, discontinuità, crisi. Succede a questo punto, naturalmente, che ciò che appariva consolidato cessa di essere tale. Il Sole non ruota più intorno alla Terra e novantacinque tesi ridefiniscono l’ordine della Chiesa. Interpretando quindi crisi con il suo significato più antico, essa appare come la chiave di svolta per la rivoluzione – non potendo quest’ultima sussistere se non con la rottura dell’ordine. Questa concezione si avvicina inoltre alla prospettiva gramsciana, che legge la crisi come disgregazione dell’ordine sociale, la quale a sua volta provoca l’emancipazione dell’individuo, che da essere della folla diventa soggetto collettivo, e nel corpo della collettività avvia la rivoluzione.

Se la crisi è dunque un momento, da dove deriva la concezione di crisi della società, come se quest’ultima fosse ad essa inevitabilmente legata? Com’è che l’istante della crisi si è dilatato nel tempo della quotidianità? Come afferma Massimo Cacciari (2020), la nostra è una società ipercritica, e in quanto tale costantemente in crisi. Se l’importanza della critica è il fondamento di per sé della filosofia e della cosiddetta scienza moderna, l’Occidente contemporaneo ha esasperato questa tendenza autoriflessiva fino a renderla, talvolta, autodistruttiva. La cultura della novità, che emerge solo grazie alla rottura della continuità, vince su qualsiasi altra cosa; l’obiettivo è il progresso costante che, ossimoricamente, s’interrompe nella sua necessità di crisi.

Abbiamo quindi le due principali interpretazioni della parola crisi: quella che si rifà al verbo krino, e che legge la stessa come un momento necessario all’evoluzione, e quella più vicina a noi, la quale descrive uno stato, una condizione costante e difficilmente superabile. Noi siamo entrambe. Siamo la società ipercritica alla spasmodica ricerca del nuovo, tuttavia sprofondanti in un’organizzazione sociale, politica ed economica da tempo in crisi, da tempo incapace di riemergerne. Ed ecco che la crisi generale si ripiega su se stessa, dando vita ad una meta-crisi, ovvero la crisi dell’essere in crisi.

Crisi è creazione grazie alla distruzione; è l’abbattimento delle barriere di protezione degli elementi – più o meno rilevanti – con i quali interpretiamo la realtà. E se essa può da un lato scaturire da individui rivoluzionari o da eventi storici non direttamente e volontariamente determinati dall’azione umana, dall’altro possiamo anche parlare di creazione della crisi in termini più propriamente strumentali e simbolici.

Si potrebbe dire che questo sia indubbiamente il caso della rimbombante “crisi migratoria”, binomio che si è insinuato nel mondo dei nostri significati a partire dal 2015, e che continua a riecheggiare non senza intensità sia nei discorsi pubblici, sia e soprattutto nell’immaginario delle persone. Ma ecco che se cinque, quattro anni fa il binomio poteva avere la sua legittimità, in tempi più recenti è stato oggetto di forte strumentalizzazione, essendo l’associazione di questi due termini, crisi e migrazione, generatrice immediata di immagini-schema che producono timori, insicurezze e opposizioni verso l’idea del fenomeno migratorio di per sé.

Come conseguenza, nonostante l’inesattezza, per quanto riguarda i flussi, della definizione emergenziale del fenomeno migratorio attuale, testimoniata da numerose e ripetute fonti (e.g.: Villa, 2020), la percezione popolare continua ad essere, quasi inevitabilmente, quella di un’onda anomala di persone che ci sommerge costantemente da ormai cinque anni. Quello che però risulta ad una più attenta analisi è piuttosto una crisi delle istituzioni europee e statali che dovrebbero amministrare tali flussi, e che ciononostante adottano sistemi gestionali miranti per lo più a “proteggere” l’Europa ed in particolare i suoi cittadini, con i loro lavori, la loro cultura, la loro concezione del mondo, tutti elementi essenzializzati ad un’omogeneità non chiara e innanzitutto opposta a quella orientale – e soprattutto islamica.

Ecco allora che emerge la natura quasi paradossale dell’uso che si è fatto e si fa di questo termine, che nel momento in cui si lega all’Altro, all’estraneo “pericoloso”, ritorna indietro, rimbalzando sulla costruttività di quest’immagine, sul diverso che forse è in crisi ma è soprattutto voluto in crisi; e l’eco di questa decadenza ci si ritorce contro, illuminando ciò che siamo noi, nella nostra crisi perpetua.

Bibliografia:

Cacciari M., “Civiltà della crisi”, 2020
Colloca C., “Di cosa parliamo quando parliamo di crisi”, 2012
– Koselleck R., “Il Vocabolario della Modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti.”, Il Mulino editore, 2009
Villa M., Fact Checking: migrazioni (e Covid-19), in ISPI, 2020

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.