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La dottrina dello shock che la Grecia applica alle sue frontiere

Alba Díez Arrea, El Salto - 13 giugno 2020

Vista del porto dalla giungla di Igoumenitsa Fonte: Border Violence Monitoring

Ricevo una chiamata da Feisal (nome fittizio). “Alba, dimmi, ci deporteranno?!”. Mi chiama da Patrasso, città portuale del Peloponneso dove ci conoscemmo a novembre mentre collaboravo con l’organizzazione No Name Kitchen.

Nella città ci sono un numero considerevole di persone in transito che vivono in fabbriche abbandonate in condizioni ben poco salutari, dove subiscono aggressioni e persecuzioni frequenti dalla polizia locale.

Il numero cambia di settimana in settimana, ma potremmo dire che nell’ultimo anno varia da 100 a 200 persone, numero lontano dalle più di mille persone che si raggiunsero nel 2009 o 2013. Sono quasi tutte di nazionalità afgana, ma ci sono anche gruppi più piccoli che vengono da paesi del Nord Africa; certo, i gruppi vivono in luoghi diversi gli uni dagli altri. Varie zone del porto sono controllate da trafficanti a cui devi pagare un pedaggio se vuoi passare attraverso il “loro” territorio. Le persone pensano di poter arrivare in Italia sui traghetti che attraversano l’Adriatico, e non esattamente in modalità crociera ”all inclusive”.

Spesso sgattaiolano clandestinamente nei camion successivamente imbarcati, se sono fortunati, senza essere scoperti dalle autorità in questione. Sempre nel caso non sia il camion sbagliato che conduce alla frontiera con la Bulgaria, com’è successo a più di uno.

Nel porto di Patrasso sono tre i corpi di polizia che operano: la Guardia Costiera Greca, la Polizia Nazionale e la sicurezza privata. Secondo la testimonianza dei ragazzi, nelle ultime settimane questi ultimi (la sicurezza privata n.d.t) sono più violenti del solito, ma ciò non significa che siano gli unici né che ciò esoneri dalla responsabilità quelli che dovrebbero garantire il rispetto delle leggi dentro lo spazio portuale. Le aggressioni sono diverse: cani sguinzagliati per attaccare le persone in transito che cercano di salire clandestinamente sui camion, elettroshock, manganelli, calci, pugni, insulti.

Da un po’ di tempo a questa parte i punti caldi di confine si sono convertiti in zone grigie dove il decantato impero della legge si avvicina sempre più al razzismo istituzionale che, anche se non legalizzato, è accettato e legittimato.

A Patrasso succede dagli inizi degli anni ‘90, quando la città era il principale ingresso in Europa ed ancora non si parlava di rotte migratorie come fenomeno di massa. Una problematica adesso endemica che è parte dell’organismo europeo. Allora la demografia migratoria era diversa, si trattava soprattutto di curdi – ma rimane quella reminiscenza nell’immaginario di Patrasso, giacché molta gente si riferisce ai migranti come “curdi” – che fuggivano dalla prima guerra del Golfo.

Feisal era a Patrasso da più di sei mesi, vivendo in quel limbo dove finiscono la maggioranza dei ragazzi che vogliono continuare il proprio cammino verso Francia, Italia o Germania, dato che il Regolamento di Dublino obbliga a rimanere nel primo paese europeo nel quale arrivi, lo stesso dove sarà sbrigata la pratica per ottenere la protezione internazionale. La libertà di movimento dentro lo spazio Schengen sembra impossibile per quelli che, come lui, arrivano in qualità di “rifugiati”.

Torno alla chiamata. Hanno paura, lui e praticamente tutti i ragazzi che vivono in queste fabbriche abbandonate, perché è arrivata loro la notizia che stanno deportando altri ragazzi in Turchia da varie città del nord della Grecia. Questo tipo di operazioni sembrano rispondere ad una tattica che potrebbe ben considerarsi una “dottrina di shock alla frontiera”. Espellono un piccolo gruppo, ma la paura si impianta in tutta la comunità.

Le frontiere dovrebbero intendersi al di là delle delimitazioni dei territori tra Stati. Sono frontiere anche le restrizioni che, all’interno dello stesso paese, determinano chi rientra nel considerarsi cittadino a pieno diritto e chi no.

Quelle frontiere che prendono vita in ciascuno dei corpi e delle menti delle persone in transito, maltrattate ed obbligate a vivere in forma clandestina ai margini della società nei quali sono bloccati.

Quelle frontiere che si creano in e con ciascuna violazione dei Diritti Umani per la sicurezza di un’Europa complice, se non carnefice.

Quelle frontiere che funzionano grazie alla paura, all’agitazione, allo shock. In definitiva, alla spoliazione della dignità di chi osa migrare senza le carte in regola. Prima o poi, forse, ci chiederemo chi ha perso la dignità in questi tempi di Fortezza Europa.

I “respingimenti a caldo” sono abituali da anni nella regione del fiume Evros che separa Grecia e Turchia, come lo sono anche in altre frontiere esterne dell’Unione Europea ed anche interne, per esempio tra Francia e Italia o tra Francia e Spagna.

Secondo un ufficiale di polizia di frontiera greca di stanza nel 2012, che preferisce rimanere nell’anonimato, queste pratiche erano sistematiche ed accadevano tutti i giorni nel periodo in cui lui era lì. Condotte in maniera non ufficiale, funzionavano come “accordi silenziosi” i cui responsabili sono difficilmente rintracciabili. Gli ordini dipendono dal capo di ciascun commissariato e, secondo la fonte, il criterio con il quale si emettono non è chiaro. Ovvio che, se consideriamo che sono una violazione del diritto internazionale, europeo e nazionale e che pertanto ci potrebbero essere conseguenze penali per gli esecutori o responsabili, è chiaro l’oscurantismo mostrato al pubblico e anche all’interno.

Prima gran parte di queste pratiche riguardava le persone che cercavano di raggiungere l’interno della Grecia dalla Turchia in modo irregolare, senza dare loro nemmeno l’opportunità di rivendicare il proprio diritto a richiedere asilo e violando in questo modo il principio fondamentale di non-refoulement contemplato nella Convenzione di Ginevra, così come nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e, quindi, nella legislazione nazionale degli Stati membri dell’UE, in questo caso la Grecia. Ma negli ultimi mesi si è assistito a una nuova escalation. Non tanto per il numero di respingimenti, ma per il discredito che il governo greco sta portando alla protezione internazionale.

La Grecia non deporta più solo chi è stato “cacciato” dopo aver attraversato il confine, ma deporta anche i richiedenti asilo che si trovano in Grecia.

Dalla fine di marzo a maggio, gli attivisti di Mobile Info Team, Wave Thessaloniki e No Name Kitchen hanno raccolto diverse testimonianze in cui gli intervistati affermano di essere stati rimpatriati illegalmente in Turchia da varie località del nord della Grecia. Secondo questi rapporti, pubblicati da Border Violence Monitoring, che funge da collettore per le organizzazioni indipendenti che documentano la violenza alle frontiere nei Balcani e in Grecia, più di 350 persone sono state rimpatriate senza alcuna base legale, ma potrebbero essercene molte di più dato che non esiste un monitoraggio ufficiale.

Josoor, che opera ad Edirne (Turchia), vicino alla frontiera con la Grecia, assicura che superano le 500. Durante queste procedure non ufficiali, gli intervistati assicurano di essere stati duramente picchiati, obbligati a spogliarsi e torturati con elettroshock prima di essere rimandati in Turchia. In sostanza sono tre i posti da cui si concentrano i respingimenti: il campo di rifugiati di Diavata, vicino a Salonicco; il centro di detenzione e pre-espulsione di Paranesti a Drama, ed Igoumenitsa.

Quest’ultima è l’altra città, insieme a Patrasso, da dove partono i collegamenti con destinazione Italia e dove si concentrano quelli che provano a partire dalla Grecia via mare. Le due enclaves portuali condividono varie caratteristiche come punti caldi della rotta migratoria; tra questi, le continue espulsioni dall’Italia alla Grecia.

A Igoumenitsa, i giovani (tutti uomini che viaggiano soli) vivono sul crinale di una montagna da cui si avvista il porto, in tende da campeggio, quando ci sono. Stanno lontano dal nucleo urbano come ben comanda la politica segregazionista prevista dalla xenofobia di una cittadinanza timorosa di trovarsi faccia a faccia e da pari a pari con persone che si differenziano per i propri tratti, religione o semplicemente, processi di vita.

I gruppi di solidarietà locali, attivi soprattutto tra il 2010 ed il 2016, non hanno più tanti contatti con la gente che sta tentando il game, come si definisce tra i ragazzi il tentativo di attraversare clandestinamente le frontiere. Ci fu un tempo in cui membri di Antarsya ed il “Papa Theodor”, un prete della chiesa ortodossa locale, si univano per preparare fino a 700 porzioni di cibo al giorno. Lontano da questi numeri, quello stesso anno e prima che queste deportazioni illegali si portassero a termine, nell’accampamento improvvisato c’erano circa 70 persone. Ne rimangono 4. A differenza di Patrasso, dove la minaccia di essere deportati è ancora una paura e non un fatto, qui hanno portato via quasi tutti.

Uno di loro è Avi (nome fittizio) viene da una piccola località del Kurdistan iraniano dove si dedicava a lavare macchine, sua moglie e suo figlio di 3 anni lo aspettano a Roma. Venerdì 22 maggio riuscì ad arrivare al porto italiano di Ancona; a poche ore di distanza si trovò ancora, questa volta di ritorno, sulla stessa nave Grimaldi che lo aveva appena portato in Italia. A poco gli servì esprimere ripetutamente il suo desiderio di arrivare a Roma per riunirsi con la sua famiglia, sottoporsi a un interrogatorio, permettere che gli facessero delle foto, dare le sue impronte digitali, lottare per esprimersi con difficoltà senza un traduttore ufficiale, la cui presenza dovrebbe essere condizione imprescindibile durante questi procedimenti.

Una volta presi tutti questi dati, Avi assicura che, dopo essere stato picchiato, lo portarono in una cella dove lo trattennero varie ore, con appena un pezzo di pane da mangiare, per poi trasferirlo ammanettato di ritorno alla barca. Una volta in Grecia, passò 5 ore in una sala del porto di Igoumenitsa dove lo obbligarono ad inginocchiarsi, minacciando di picchiarlo se alzava la testa. In effetti, ci raccontò che quando cercò di togliersi i capelli dal viso, ricevette uno schiaffo.

Domenica è tornato nella “giungla“, dimostrando ancora una volta il culmine della visione di una strategia perversa che mette i mari tra genitori e figli. Con i gesti della sua mano e del suo viso ha espresso più e più volte come deve essere assente durante la crescita di un bambino. Ha anche detto: “Io, un terrorista? Io in Iran?“. Ha chiuso gli occhi e si è legato al collo una corda invisibile a cui sembrava impiccarsi, come se le sue mani fossero quelle del regime iraniano che esegue i prigionieri curdi. Dopotutto, salvargli la vita è ciò che lo ha spinto a cercare di arrivare in Italia per “ripulire i lamborghini“.

Alle espulsioni in Turchia dal continente si dovrebbero aggiungere quelle portate a termine nelle acque del Mar Egeo ed anche dalle coste delle isole greche.

Di nuovo, è la società civile quella che documenta, denuncia e pubblica questi fatti. Al contrario, le istituzioni sembrano approvare, promuovere ed anche elogiare queste pratiche.

Ad esempio, i complimenti che la Guardia Costiera Greca ha ricevuto da parte dei sindaci delle capitali delle isole di Lesvos, Chios o Samos per il loro “valore e abnegazione nel vigilare le frontiere marittime”. Non sorprende considerando che già all’inizio di marzo, quando la Grecia scatenò il suo esercito alla frontiera con la Turchia, la stessa presidentessa della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen si complimentò con la Grecia per il suo impegno come “scudo d’Europa”.

Sono state Watch the Med – Alarmphone ed Aegean Boat Report a riportare l’espulsione di 11 piccole imbarcazioni da acque territoriali greche tra il 20 aprile ed il 2 giugno, che sono arrivate a deportare 213 persone, inclusi 28 minori. Sebbene queste pratiche continuino a perpetuarsi impunemente da vari anni come segnalava un rapporto di Pro Asyl nel 2013, non era così comune assistere al “respingimento a caldo” degli sbarchi. Da aprile si è potuta registrare l’espulsione di 174 persone che erano già riuscite ad arrivare in isole come Samos o Chios. In quest’ultimo caso, di nuovo un’organizzazione non governativa come Mare Liberum ha analizzato in dettaglio quanto accaduto. Il fatto che li mettano in gommoni e li rimandino in Turchia dalle coste, è qualcosa senza precedenti.

Quando si analizza assieme ciò che succede sia nel continente che nelle isole è possibile tracciare dei parallelismi che danno la certezza che dietro questi respingimenti ci sia una strategia, che non si tratti di azioni isolate. Ad esempio, gli ufficiali che impiegano le pratiche più violente registrate portano normalmente un passamontagna nero a coprire la testa; il loro operato va dalla distruzione di motori delle barche in mare al colpire le persone in transito nel Delta del fiume Evros, in una sala che è stata descritta “come il luogo perfetto per commettere crimini”.

Attira molto l’attenzione anche che in entrambe le aree Frontex, l’Agenzia Europea delle Frontiere, ha dispiegato una serie di missioni, come l’”Operazione Poseidon” o l’ultimo intervento rapido nella frontiera terrestre. Nonostante l’agenzia non si sia pronunciata su queste denunce, lo ha fatto il Governo greco negando quando accaduto quando è stato interpellato dal quotidiano tedesco Deutsche Welle.

Sia nelle espulsioni via mare che via terra, negando il diritto delle persone in transito ad un processo di asilo giusto, lo Stato greco incorre nella violazione della Convenzione relativa allo Statuto dei Rifugiati (Ginevra, 1951), in particolare nei suoi articoli 32 e 32 sul non-respingimento; così nel non compimento della Direttiva 2008/115 dell’Unione Europea su norme e procedimenti per il ritorno di persone in situazione irregolare a paesi terzi che, per difetto, dovrebbe far parte del corpo legislativo nazionale. Oltre alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE negli articoli 18 e 19.

Il fatto che il Governo della Grecia sospendesse il diritto di asilo il 2 marzo per un mese, prorogandolo a causa delle restrizioni per il Covid-19 fino alla data di scrittura di questo articolo, dovrebbe essere, secondo organizzazioni come UNHCR o la Commissione Nazionale dei Diritti Umani della Grecia, un’aggravante e non un alibi.
Nonostante la violazione di tutte queste regole, tra l’altro, non esiste un canale chiaro per facilitare la denuncia da parte delle vittime. In effetti, l’ultima sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui “respingimenti a caldo” a Melilla [[https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/cedu-spagna-unione-europea-confini-diritto-asilo/ NdT.] in seguito al ricorso dello Stato spagnolo, fa temere che l’impunità rimanga intoccabile.

Durante la nostra intervista, Mati (nome fittizio), un giovane trasferito dal campo di Diavata, ci chiedeva per telefono se riferire il suo caso e denunciare tramite il Greek Council for Refugees lo aiuterebbe a tornare in Grecia. Gli avvocati di questa organizzazione ci avevano già anticipato che in nessun modo la riparazione contempla il ritorno di queste persone dal luogo di espulsione.

A quale protezione si possono appellare queste persone se nemmeno si rispetta il principio fondamentale della protezione internazionale del non-respingimento? La verità è che questo passo avanti nella sfacciataggine con cui le autorità greche perpetuano il respingimento dimostra solo la mancanza di volontà politica di porre fine a questa violazione dei diritti umani. Invece di considerare le accuse, di propugnare un’indagine interna che possa chiarire quanto accaduto o di promuovere meccanismi di prevenzione, la tattica è, ancora una volta, quella di propugnare l’occultamento delle violazioni con l’approvazione delle istituzioni europee.

Mentre scriviamo questo articolo Feisal ce l’ha fatta ad uscire da Patrasso.

Si trova in Francia in attesa di compiere la prossima tappa del suo viaggio, il tratto finale: ottenere la regolarizzazione della sua situazione quando il lento sistema di asilo lo permetterà. La cosa migliore sarebbe ottenerla ora.
Per lui, per Avi, per Marti. Per tutti.