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La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani

Un libro di Luca Rastello. Recensione a cura del Prof. Sandro Chignola per Il Manifesto

Il 9 dicembre 2009 le agenzie battono la notizia della morte di un senza tetto a Roma. All’angolo tra via Principe Eugenio e Piazza Vittorio viene trovato il corpo senza vita di un immigrato. Si chiamava Mohammed Muzzafar Alì. Ma tra i migranti e i militanti antirazzisti romani era noto come Sher Khan, la Tigre. Aveva fondato la UAWA, l’Unione dei lavoratori asiatici e la sua voglia di vivere aveva attraversato l’intero ciclo di lotte degli invisibili dagli anni ’90 sino a quel momento. Con don Luigi di Liegro, fondatore della Caritas, aveva guidato la storica occupazione della Pantanella nel 1991, quando tremila persone si erano procurate un posto dove poter stare e non morire, appunto di freddo.

La sera del 13 ottobre 2008, sostenuti dai Centri Sociali Gabrio e Askatasuna, un centinaio di rifugiati e di richiedenti asilo, tra di loro donne incinte e bambini, occupa a Torino l’ex clinica San Paolo. Dopo lunghe trattative, dovranno andarsene nell’aprile 2010. Nonostante il loro status preveda, per la Convenzione di Ginevra, il diritto di essere protetti, verranno abbandonati a sé stessi e, per molti di loro, il destino sarà l’espulsione.

Tra queste due vicende si colloca l’intera parabola della trasformazione del diritto di asilo in Italia e in Europa; lo scatenarsi di una guerra silenziosa e non dichiarata contro i rifugiati; l’abbozzarsi di una riorganizzazione complessiva del sistema dei confini e degli assetti fondamentali del diritto delle migrazioni. E’ merito di un recente libro di Luca Rastello (La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza, 2010, pp. 280, € 16) l’aver fatto il punto sulla situazione.

Quella che i richiedenti asilo incontrano mentre cercano di arrivare in Europa è una situazione affatto paradossale: i paesi di immigrazione, che pure riconoscono la Convenzione di Ginevra, tendono ad aggirare la Convenzione di Dublino (1990; 2003) che assegna allo Stato entro il quale il richiedente asilo abbia fatto irregolarmente ingresso provenendo da uno Stato esterno all’UE la competenza sull’esame della domanda di asilo, qualificandolo contemporaneamente come stato di residenza per il richiedente. Inoltre, nell’esame delle richieste, viene spesso fatto valere un principio restrittivo che pretende di verificare, in cittadini stranieri in fuga da guerre civili o da oggettive situazioni di miseria e di violenza, la reale minaccia di un rischio o di una persecuzione personale che non prende in considerazione l’evidenza delle situazioni di povertà o di fame dalle quali il migrante è in fuga. E ancora non basta: i bastioni d’Europa vengono infine difesi con procedure di esternalizzazione del controllo che annullano, anche non facendolo formalmente, la Convenzione di Ginevra, indirizzando i respingimenti di migranti, e dunque degli stessi rifugiati, verso paesi che non la riconoscono, come la Libia, o affidando a «paesi-tampone», che in molti casi non brillano per efficienza o per trasparenza, la verifica della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento del diritto d’asilo.

La parte decisamente più interessante del libro di Rastello è quella che ricostruisce questo meccanismo. Ed in particolare, il modo attraverso il quale opera l’agenzia europea FRONTEX esternalizzando le frontiere ed erigendo dispositivi di controllo ben oltre i confini formali dell’UE.

Nell’aprile del 2010 Ilka Laitinen, direttore di FRONTEX, ha avuto modo di ricordare il compito principale dell’agenzia europea in questione: «assistere tutti i paesi per il rimpatrio dei migranti irregolari», sostenere Italia e Malta nel controllo del canale di Sicilia, la principale rotta migratoria in direzione dell’Europa (almeno sino all’ascesa della Turchia e dell’Ucraina), impegnarsi a fondo nei confronti di Tripoli, «per far chiudere una volta per tutte le rotte del traffico degli immigrati».

Si tratta di esercitare una pressione costante sulle vie del diritto di fuga – l’evocazione del «traffico di esseri umani», va ricordato, è la comoda foglia di fico con cui ci si copre gli occhi di fronte alla violenza, alle torture, all’orrore dei campi e delle carceri libiche, greche, maltesi, tunisine, maliane, ucraine, serbe e di quelle dei molti altri paesi extraeuropei, cui viene affidata, con fondi europei, la gestione dei fenomeni migratori e la sicurezza del «virtual border» dell’Unione – fatta di pattugliamenti in mare, di controlli via terra, di operazioni di filtro negli aereoporti, delle operazioni speciali del battaglione «Rabit» (Rapid Border Intervention Team), dell’organizzazione di operazioni di ritorno (altro eufemismo per esplusioni coatte) gestite anche attraverso voli charter congiunti.

Missioni di controllo marittimo dagli esotici nome in codice sono in corso sulla rotta atlantica verso le Canarie, nello stretto di Gibilterra, fra Spagna, Marocco e Algeria, tra Algeria e Sardegna, nel canale di Sicilia, nel Mar Egeo, tra Turchia e Grecia, nel Mar Nero, nel Mar Baltico. Questi pattugliamenti, quando non esplicitamente affidati a paesi extraeuropei dotati di mezzi, addestramento e finanziamenti europei – come nel caso delle tre motovedette d’altura affidate ai libici che hanno recentemente aperto il fuoco su di un peschereccio italiano in acque internazionali – rappresentano una delocalizzazione e un’esternalizzazione dello spazio giuridico europeo, che a sua volta si introflette e si addensa, ma solo per gli aspetti della propria costellazione concentrazionaria, negli aereoporti o nelle stazioni marittime e ferroviarie delle principali città europee.

Respingere indiscriminatamente i migranti senza la fatica di accertarsi se tra di essi vi siano profughi o richiedenti asilo; deportarli in supposti paesi di provenienza senza aver verificato se lo siano davvero; trattare adulti e minori allo stesso modo; spegnere i riflettori sui carceri di Ganfruda, Kufrah, Tuaisha-Binkeshir, Misratah in Libia, sulla «Guantamanito» di Novadhibou in Mauritania, sui molti campi nei posti di frontiera sahariani dove finiscono rinchiusi moti di coloro che sfuggono alla morte nella traversata del deserto; accendere convenzioni bilaterali con i paesi extraeuropei vincolandoli ad accordi di riammissione dei migranti espulsi dall’UE in cambio di aiuti economici (è la pratica di cooperazione diffusa tra singoli nazioni europee e paesi quali Albania, Moldavia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Russia, Ucraina, ma anche con Macao, Cina, Hong-Kong, SriLanka, Pakistan…); preparare i dossiers per la candidatura all’ingresso nell’Unione con esplicito riferimento al controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina e alla localizzazione dei Centri di permanenza e identificazione da realizzarsi; reclutare le organizzazioni del terzo settore specializzate nell’assistenza ai migranti e ai rifugiati (tra tutte l’IOM e l’UNHCR) ai fini dell’invisibilizzazione della guerra in realtà silenziosamente condotta contro di loro, sono tutti strumenti utilizzati per impedire fattualmente che rifugiati e richiedenti asilo, indiscriminatamente trattati come clandestini, possano accedere ai diritti che la Convenzione di Ginevra gli riconosce.

Il libro di Rastello ricostruisce nei particolari il sistema di «clandestinizzazione» coatta della migrazione internazionale, assegna un nome ai molti buchi neri della catena omicidiaria che disegna un altro confine dell’Unione Europea, lavora, con dovizia di particolari sulle statistiche ufficiali e non della guerra quotidianamente condotta contro i migranti. Permette di vedere da un altro punto di vista, quello forse accessibile ad uno sguardo più acuto, come proceda la tracciatura dello spazio giuridico europeo attraverso la normalizzazione delle procedure di emergenza con cui viene affrontato lo stato d’eccezione permanente della crisi umanitaria.

E tuttavia viene da chiedersi se l’angolo d’approccio scelto, quello del diritto d’asilo, sia il più adatto per parlare degli attuali regimi migratori. Se il discorso sul confine e sulla frontiera, sull’esternalizzazione del controllo, non rischi di sostenere la retorica che, nel discorso pubblico, valuta il migrante come sempre in ingresso o in espulsione, sospeso tra un dentro ed un fuori, senza tenere in considerazione il fatto che il migrante è in realtà, in molti casi, da sempre già qui, per così dire; entrato con un visto turistico o nella finzione di una quota flussi, nato da genitori stranieri o clandestino per un licenziamento o per un permesso di soggiorno non rinnovato oppure in attesa di rinnovo; materiale presenza su una gru del lavoro vivo vampirizzato nei gironi infernali del lavoro nero e precario.

E ancora: se le configurazioni e trasformazioni attuali del diritto (gerarchizzazione del diritto di cittadinanza; informalità e discrezionalità dell’agire amministrativo in rapporto al diritto di restare; denazionalizzazione, desovranizzazione, decostituzionalizzazione dei codici e circolazione di norme che definiscono materialmente uno spazio giuridico transnazionale non esclusivamente europeo, dato il suo protendersi e il suo prolungarsi al di fuori d’Europa e il suo lavorare con meccanismi e dispositivi importati da altrove: così nel diritto del lavoro o dei contratti ad esempio…) possano essere descritte, in rapporto alle migrazioni contemporanee, facendo riferimento ad una Convenzione di Ginevra disattesa o tradita.

Il richiedente asilo non è un clandestino: è questa la distinzione che orienta il lavoro di Rastello. Clandestini, sono tutti coloro che lo spazio giuridico globale produce come tali, varrebbe forse la pena di ricordare. Quella vasta parte dell’umanità invisibilizzata dalla grande macchina dell’accumulazione globale che ritrascrive continuamente la differenza tra i molti Nord e i molti Sud del mondo. E che per funzionare, lavora disegnando zone di eccezione, perimetri di saccheggio, aree in cui stabilizzare regimi duali di lavoro subordinato.

Fuggire davanti a questa macchina è certo possibile e giusto. Pensare che essa conceda asilo al di fuori di essa, invece, forse solo del tutto illusorio.