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La frontiera europea come infrastruttura di sorveglianza

Frontiere del controllo - Rubrica a cura di Giuseppe Campesi, Università degli Studi di Bari

Lo scorso 6 aprile 2016 la Commissione ha presentato il suo nuovo Smart Border Package, proponendo la creazione di quella che si candida a diventare la più vasta banca dati esistente a livello europeo. Il cosiddetto Entry-Exit System (EES) dovrebbe infatti registrare i dati biometrici ed alfanumerici di tutti i cittadini stranieri che attraversano (tanto in entrata, che in uscita) la frontiera esterna dello spazio Schengen, producendo un accumulo di informazioni che potenzialmente riguarderà centinaia di milioni di persone ogni anno. A differenza delle banche dati già esistenti, che registrano gli stranieri in funzione del loro status personale (SIS per gli indesiderabili, EURODAC per ingressi irregolari e richiedenti asilo; VIS per coloro che sono soggetti all’obbligo di visto), l’EES riguarderà chiunque.

Tale proposta non è una novità assoluta. Di confini “intelligenti” si parla in realtà da diverso tempo, in parallelo con il trend di moltiplicazione degli strumenti di sorveglianza utilizzati nel governo delle migrazioni (su cui cfr. il mio precedente contributo). Tale tendenza va di pari passo con le proposte, come quella sulla creazione di una banca dati denominata Passenger Name Records (PNR), in cui raccogliere le informazioni dei passeggeri accumulate dai vettori al momento della prenotazione del viaggio, che hanno invece radici ben piantate nelle strategie antiterrorismo. Nonostante siano stati sospinti dalle ricorrenti emergenze, i progetti sui confini “intelligenti” e i nuovi strumenti di sorveglianza dei viaggiatori avevano incontrato numerosi ostacoli, costringendo la Commissione a riformulare più volte le sue proposte per incorporare le obiezioni che venivano dai principali organismi di tutela. Questi ultimi, in particolare, avevano sostenuto che l’accumulo di una così vasta quantità di informazioni su tutta la popolazione in movimento attraverso le frontiere europee non fosse legittima, poiché sproporzionata rispetto agli obiettivi che si volevano conseguire.

Nel 2015 si è tuttavia assistito ad un decisivo rilancio dei vecchi progetti, al punto che i due principali documenti programmatici in materia di sicurezza (COM(2015) 185: 6) e governo delle migrazioni (COM(2014) 240:11) menzionano l’approvazione delle proposte sui “confini intelligenti” come un aspetto decisivo delle strategie politiche europee in materia. Mentre la Commissione non ha sostituito la proposta di Direttiva sul PNR del 2011, che dopo un periodo di stallo in Parlamento europeo, sembra infine essere stata rilanciata dai recenti attentati terroristici (si vedano la Joint Resolution adottata dal Parlamento europeo l’11 febbraio 2015 e le conclusioni del consiglio europeo del 20 novembre 2015), essa ha invece presentato una nuova proposta di regolamento sull’EES, accompagnata da una comunicazione intitolata Stronger and Smarter Information Systems for Borders and Security. A differenza dei precedenti documenti sui confini “intelligenti” pubblicati nel 2008 e nel 2013, la comunicazione dello scorso aprile pone meno enfasi sull’esigenza di facilitare l’attraversamento della frontiera e il movimento dei “viaggiatori in buona fede”. Certo la retorica efficientista non scompare del tutto, dato che i sistemi di sorveglianza vengono pur sempre presentati come sistemi diretti a “migliorare la gestione dei confini esterni”, ma essa passa adesso decisamente in secondo piano rispetto agli obiettivi del contrasto dell’immigrazione irregolare e della lotta al terrorismo o ad altre forme di criminalità transnazionale.

Per come immaginato dalla nuova proposta, il sistema EES non differisce molto da quello disegnato nella proposta del 2013. A differenza che in passato, si prevede, ad esempio, di rendere la nuova banca dati comunicante con il VIS, l’utilizzo dell’immagine facciale come identificatore biometrico, una parziale riduzione dei dati da raccogliere, che saranno conservati per cinque anni, o ancora una complessiva riduzione dei costi dell’intero sistema. Ma al di là dei dettagli tecnici, ad essere mutato è soprattutto il contesto politico in cui la nuova proposta si inserisce. Come accennato, essa viene presentata alla stregua di uno strumento che si situa all’incrocio tra le necessità di governo delle migrazioni e la lotta al terrorismo e non è un caso se la differenza più vistosa rispetto alla proposta precedente riguardi proprio la possibilità di accesso alla banca dati da parte delle agenzie di controllo sociale, che sono adesso sin da subito autorizzate alla consultazione delle informazioni in essa raccolte.

Che la nuova banca dati immaginata dalla Commissione possa servire a “prevenire” le minacce alla sicurezza è quantomeno dubbio. Per come è disegnata, essa appare piuttosto uno strumento di supporto all’attività “repressiva”, dato che potrà essere consultata per identificare i sospetti o gli autori di gravi reati già commessi, qualora questi siano privi di documenti, ricostruendo al limite i loro movimenti attraverso le frontiere esterne europee. Ma c’è un aspetto latente in tutte le proposte relative alla creazione di nuove infrastrutture di sorveglianza, il cui valore strategico risiede sempre nel loro potenziale quale strumento di intelligence e risk profiling. L’EES consente infatti di moltiplicare l’accumulo di informazioni sulle persone in movimento attraverso lo spazio europeo indipendentemente da specifici sospetti o esigenze investigative, creando un ulteriore segmento informativo che potrà essere combinato con gli altri prodotti da differenti banche dati per effettuare analisi dei rischi. La logica del profiling è tuttavia intrinsecamente discriminatoria, dato che rischia di portare al trattamento differenziale degli individui sulla base di inferenze probabilistiche circa il loro comportamento futuro. Ma la discriminazione può anche discostarsi da inferenze di natura “comportamentale”, spingendosi fino al profiling basato su caratteristiche come l’etnia o la nazionalità. Per quanto la Commissione si sia sforzata di accomodare la sua proposta con i principi in materia di diritto antidiscriminatorio, è evidente che la schedatura sistematica dei soli cittadini dei paesi terzi abbia un significato profondamente stigmatizzante, che finisce per associare il rischio terroristico con la provenienza degli individui e la loro nazionalità.

Se come accennato, l’efficacia nella prevenzione del terrorismo è dubbia, o perlomeno limitata rispetto alla vastità dell’infrastruttura di sorveglianza che si immagina, ancora più dubbia è la sua efficacia rispetto alla prevenzione dell’immigrazione irregolare. La Commissione sostiene che la nuova banca dati consentirà alle agenzie di controllo di individuare più facilmente coloro che si trattengono sul territorio oltre la scadenza del periodo di permanenza loro concesso, sostituendo al tradizionale timbro sul passaporto un sistema di allerta automatizzato che segnalerà immediatamente gli overstayers e consentirà la loro identificazione nel caso in cui questi abbiano successivamente distrutto i loro documenti. Ciò non toglie, tuttavia, che una efficace politica di contrasto all’immigrazione irregolare passi soprattutto attraverso la capacità delle forze di polizia di intercettare gli overstayers che verranno segnalati dal sistema. La banca dati di per sé non è uno strumento che amplifica la capacità di controllare il territorio, oltre a non essere in grado di distinguere tra coloro che si trattengono a seguito di una modifica della loro posizione giuridica (perché, ad esempio, chiedono asilo) e coloro che lo fanno irregolarmente. Anche in questo caso, dunque, accanto alla scarsa efficacia dello strumento, ci troviamo di fronte al rischio che esso produca effetti distorsivi e discriminatori, finendo per schedare come “migranti irregolari” anche coloro che hanno semplicemente mutato le ragioni della loro permanenza sul territorio europeo.

Accanto agli obiettivi di “politica interna” di cui abbiamo discusso, tale proposta persegue un ulteriore obiettivo che sembra piuttosto diretto a favorire la “governance esterna” della frontiera europea. Laddove descrive i vantaggi che deriveranno dall’istituzione della nuova banca dati, la Commissione menziona un aspetto apparentemente marginale che, a mio modo di vedere, è probabilmente la chiave di lettura principale per interpretare il senso del pacchetto di misure sui confini “intelligenti”. Si dice, infatti, che l’EES consentirà di valutare in maniera più accurata le politiche in materia di visti, soprattutto quando si tratti di politiche puntano alla facilitazione o alla liberalizzazione degli stessi (COM(2016) 194: 3). Simili politiche sono alla base del tentativo di coinvolgimento dei paesi terzi nel controllo della frontiera europea (come dimostra il recente accordo con la Turchia), che in cambio della loro accondiscendenza nel creare una zona cuscinetto a protezione dello spazio Schengen, pretendono l’eliminazione dell’obbligo di visto per i loro cittadini. Creando una nuova banca dati destinata a schedare chiunque attraversi la frontiera europea (indipendentemente dall’obbligo di visto), la Commissione immagina di compensare il deficit di sicurezza prodotto dal processo di liberalizzazione cui la politica di esternalizzazione del controllo della frontiera la costringe. In questo senso, il significato della proposta sull’EES va interpretato anche e soprattutto in prospettiva. La nuova banca dati serve a creare l’infrastruttura di sorveglianza necessaria a gestire in un “ambiente sicuro” (EU Commission Fact Sheet, 6 aprile 2016) le politiche di liberalizzazione dei visti cui l’Europa sarà sempre più insistentemente costretta a piegarsi per coinvolgere i paesi terzi vicini nel controllo delle nostre frontiere. Essa riflette la dialettica tra libertà e sicurezza che ispira sin dalle origini la logica della governance di Schengen, dove ogni concessione in termini di maggiore libertà di movimento deve essere compensata attraverso la creazione di nuovi dispositivi di sorveglianza.