Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La libertà al check-in della sicurezza

Società del controllo

L’insicurezza e la paura per la presenza dei migranti dominano la discussione nell’arena politica. E il linguaggio diventa così il luogo dove conquistare l’egemonia. Un percorso di lettura sulle «pratiche della sorveglianza».

di Federico Rahola

In tutti gli aeroporti dei paesi dell’area Schengen esiste un doppio regime di uscita, per cittadini di stati membri ed «extracomunitari». I passeggeri sbarcati si dispongono ordinatamente e procedono su due file a velocità differenziata. Tra le file passano occhiate furtive, gare nevrotiche verso un traguardo che si risolverà nel passaggio rapido, con o senza controllo di un documento, oppure nel vaglio più attento, a volte esasperatamente lento, di passaporti e visti. Così, carsicamente, da una «semplice» pratica prende corpo una percezione selettiva: i cittadini di quell’ancora indefinita nozione politica che si chiama Europa assistono alla messa in scena di controlli, fermi, perquisizioni (e con sempre maggiore frequenza anche al rilevamento di impronte e dati biometrici) che impongono una definizione su chi li subisce, scartandone implicitamente altre, e che letteralmente «fanno paura». Rovesciando Hegel, verrebbe da dire che è la materialità delle pratiche a determinare l’astrattezza del concetto (Europa). La domanda comunque è più immediata: perché mai ogni discorso su migranti, rifugiati e richiedenti asilo viene inquadrato come una questione di sicurezza? Cosa c’è di ineluttabile in questo slittamento?

La svolta sicuritaria
È da qui, dal disagio nei confronti di risposte che finiscono per assumere implicitamente la legittimità di un tale slittamento, che prende le mosse Politics of Insecurity (Routledge, 2006) di Jef Huysmans, docente di relazioni internazionali alla Open University. Non si tratta infatti di vedere se la politicizzazione delle migrazioni come «pericolo» e la loro traduzione in termini di sicurezza si fondi su basi reali o immaginarie. Piuttosto occorre interpretare la sicurezza, o meglio il sapere e le tecniche di sicurezza, come insieme di pratiche che definiscono quella che Huysmans chiama la politica dell’insicurezza: «l’insicurezza come campo si produce colonizzando la vita sociale con strumenti e criteri di sicurezza». A prima vista potrebbe sembrare la riedizione di una vecchia lezione economica: sono le politiche di sicurezza a generare l’insicurezza, l’offerta definisce la domanda. Il fatto è che le politiche di insicurezza trascendono la gestione di un determinato «pericolo» e pure la natura e il grado della minaccia stessa, puntando molto più in alto.
Ma procediamo con ordine, seguendo Huysmans. Il primo passo, obbligato, consiste nel concepire le politiche di insicurezza come un complesso (e contestato) processo di framing, di incorniciatura, che inquadra rapporti politici e sociali in termini di sicurezza. Huysmans fa riferimento in questo caso alla svolta discorsiva (il linguistic turn) che ha pervaso le scienze storico-sociali a partire dagli anni Ottanta: il linguaggio «sicuritario», cioè, non è semplicemente uno strumento per descrivere eventi ritenuti pericolosi, ma è ciò che permette di produrli, di costituirli virtualmente dal nulla (si tratta, per ricorrere a un termine piuttosto in voga, della performatività del linguaggio: doing things with words – io ti battezzo) e far loro assumere tratti che trasfigurano, modulano e ridefiniscono i rapporti politici e sociali. Se l’analisi di Huysmans si arrestasse qui, in ogni caso, il suo contributo sarebbe forse utile ma circoscritto al noto, associandosi al coro affollato di voci che hanno rinvenuto in una versione testuale, monolitica e annichilente della nozione foucaultiana di discorso il fattore e il campo a cui ricondurre ogni manifestazione o fenomeno storico, sociale, politico: tutto è discorso e dietro al discorso non c’è nulla. E invece Huysamans dimostra un certo disagio anche nei confronti di questa sorta di feticismo linguistico, la tendenza cioè a fare del linguaggio causa prima e fine ultimo anziché, in termini più discreti e complessi, un mezzo attraverso cui leggere pratiche di potere.
Del resto, lo stesso Foucault, nel suo libro probabilmente più difficile – di certo il meno gratificante – Archeologia del sapere, metteva in guardia dal fatto di concepire il discorso come entità astratta e metastorica, sottolineando in particolare l’impossibilità di ridurlo a un semplice atto linguistico. Al contrario, se emerge qualcosa di inequivocabile da quel testo per altri versi ostico e complesso, consiste proprio nella particolare «mondanità» delle formazioni discorsive in quanto agglomerati di enunciati, entità che «grondano storicità» e che soprattutto si definiscono in modo molto materiale. La materialità del discorso è continuamente ribadita in molti altri lavori foucaultiani, basti pensare a quel campo discorsivo che coagula intorno alla nozione di follia e ai saperi che le gravitano attorno: «la scoperta di ciò che va sotto il nome di “psicologia della follia” altro non è che il risultato delle operazioni con cui la follia è stata investita e trattata». Parole che, applicate alla «paura» portano dritti al presupposto da cui Huysmans prende le mosse (l’insicurezza come effetto delle pratiche di sicurezza) e, per inciso, consentono una precisazione, rivolta soprattutto a molti specialisti di analisi del discorso: il discorso non è solo e tanto un testo, ma è prima di tutto il «luogo» in cui un determinato sapere (politico, giudiziario, medico, psichiatrico, sicuritario) incontra dei corpi (malati, detenuti, stranieri) cristallizzandosi in un regime di verità e soprattutto in una pratica di potere. E, in quanto «agglomerato di enunciati», non implica necessariamente omogeneità, né nega la possibilità di contraddizioni al proprio interno.
Dietro la linearità autoevidente di un campo discorsivo c’è quindi un universo non necessariamente coerente, affollato da attori e saperi anche in competizione. Ma soprattutto, recuperando la materialità della nozione foucaultiana di discorso e applicandola a quella particolare formazione discorsiva riassunta nell’idea di insicurezza, si comprende come, anziché limitarsi a semplici testi, agli speech di politici e opinion maker su migrazioni e ordine pubblico, occorra calarsi nel mondo molto più materiale di dispositivi e tecnologie di sicurezza che altro non sono che pratiche di governo. Si tratta cioè di entrare in quell’ambito specifico dell’esercizio del potere che Foucault definisce «governamentalità» – e che nel caso delle migration policies chiama in causa tutta una serie di dispositivi molto concreti come i visti, i permessi di soggiorno, le ambasciate e i consolati, i vettori aerei per le espulsioni, o i centri di detenzione e identificazione di migranti e richiedenti asilo. Il linguaggio, da questo punto di vista, appare allora ridimensionato a riflesso, traduzione continuamente iterata di pratiche e tecniche di esercizio del potere, che Huysmans riassume efficacemente nella formula foucaultiana «tecniche di governo».

Panico da mobilità
Far lavorare insieme i due livelli, quello discorsivo e quello governamentale, sembrerebbe quindi il principale intento del libro, suggerendo però un decisivo spostamento di accento dalla svolta linguistica a quella governamentale: dalla centralità di pratiche discorsive e definitorie a quella di apparentemente più «banali» pratiche di governo tout court. L’obiettivo di Huysmans è comunque più alto, e investe in toto il campo politico, nella misura in cui l’insicurezza prodotta dalle tecniche di sicurezza non si limita a coprire un disagio sociale diffuso e frammentato (nei confronti di quartieri multiculturali, confini aperti, xenofobie da cortile o pianerottolo, idiosincrasie vecchie e nuove), ma assurge a più generale «sistema di intelligibilità» su determinati fenomeni, finendo per governare la vita sociale. Inquadrare e definire l’insicurezza significa infatti investire i rapporti politici e sociali di una più estesa razionalità: conferirgli una portata «esistenziale» che connette e traduce tali diverse e frammentate manifestazioni di disagio e la loro amministrazione in una forma più generalizzata di governo su una determinata comunità politica.
Il discorso allora si estende a un nodo politico assolutamente attuale (questo forse il principale contributo del libro), e cioè il rapporto al calor bianco tra libertà e sicurezza, che non è un semplice gioco a somma zero, ma il trasferimento dell’idea stessa di libertà, delle libertà civili e dei diritti soggettivi, nel frame della sicurezza, la loro sussunzione nel campo operativo delle tecniche di sicurezza, e quindi la loro traduzione in termini di pratiche e metodi di governo della libertà e in particolare dei suoi eccessi più «pericolosi» (la mobilità su tutti). Questo e non altro rende le politiche di sicurezza una – o forse la – tecnica di governo del presente. Una tecnica che finisce per investire e costituire in modo immanente quel particolare costrutto storico-politico che è lo stato. Qui Huysmans sembra rideclinare e attualizzare la tesi foucaultiana di una serie di pratiche e dispositivi che costituiscono dal basso il campo politico dello stato: invece di appellarsi a logiche trascendenti di sovranità e di eccezione, «si tratta di porre lo stato come “questione” anziché come dato o soggetto, come approdo anziché indiscutibile punto di partenza».

Alla ricerca della legittimità
Che lo si voglia o meno, esistono due storie, due versioni difficilmente conciliabili dello stato: una prima, per così dire «tragica», verticale, ci parla di sovranità, patti istitutivi, esclusione e inclusione, eccezione e norma; la seconda, più «comica» e orizzontale, racconta invece di agenzie e attori in lotta per legittimarsi, di procedure e gesti quotidiani, di selezioni e disciplinamenti microfisici che anziché essere riflesso di scelte sovrane, direttamente le realizzano. Aderendo fino in fondo all’idea foucaultiana di governamentalità, Huysmans sembra suggerirci che lo stato sia nothing but practices. E la sua analisi si concentra soprattutto sulla realtà che sta immediatamente sotto ai nostri occhi: l’Europa.
Ma cos’è, da questo punto di vista, l’Unione Europea? La risposta è di certo aperta, ma più che a un indefinito processo di costituzionalizzazione dall’alto, invita a misurarsi con le pratiche di governo e le politiche di sicurezza che materialmente, dal basso, giorno dopo giorno, la definiscono e la costituiscono – tra le quali, perché no, anche la doppia fila nei check in.
Ci sarebbe, forse, un’ulteriore mossa, che Huysmans però non compie, dopo aver ripristinato la materialità del concetto di discorso, e aver usato Foucault contro l’inclinazione «poststrutturalista» a fare del mondo un testo per poi specializzarsi in analisi discorsive. Un movimento che «materializzi» ulteriormente Foucault e la sua analitica del potere. In fondo le pratiche di sicurezza e il campo dell’insicurezza, legittimandosi in una situazione di «apertura», dovrebbero condurre logicamente a una politica di chiusura, a confini impermeabili e perentori. Questo atteggiamento ha contraddistinto alcuni specifici momenti storici (gli anni Trenta, per esempio), ma non questo.

La porosità dei confini
I confini di oggi, deterritorializzati e dematerrializzati, con tutti i dispositivi tecnologici e le pratiche di controllo che li caratterizzano, sono infatti deliberatamente porosi, nella misura in cui i migranti passano, li attraversano, restandone però in qualche modo imbrigliati, marchiati, definiti. In altre parole, più che a un’esclusione perentoria l’azione dei confini sembra orientata a un’inclusione differenziale, che scompone la figura omogenea della cittadinanza producendo sottocategorie con diverse dotazioni di diritti e diverse possibilità di «messa a valore». Ed è questa, forse, la particolare produttività delle politiche di insicurezza e delle pratiche di sicurezza con cui si governano le migrazioni oggi. Se, d’accordo con Huysmans, l’obiettivo è quello di «de-securizzare» l’Europa, per trovare un soggetto che agisca e un terreno su (anzi contro) cui insistere occorrerebbe allora individuare in primo luogo nella materialità dello sfruttamento, anziché nei termini più astratti del potere, la posta in palio delle tecniche di governo delle migrazioni.

Fonte – Il Manifesto del 13 giugno 2007