Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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La lotta di Jalila è anche nostra

di Silvia Di Meo, Borderline Sicilia - maggio 2021

Jalila

Contro le politiche di frontiera che uccidono e contro la rimozione della testimonianza di queste tragedie, la storia di Jalila è un prezioso contributo di denuncia e di lotta per la costruzione di una memoria collettiva sul Mediterraneo che si opponga alla negazione delle storie e dei diritti dei migranti.

Il viaggio coraggioso di Jalila

Hedi e Mehdi, giovani tunisini di 24 e 22 anni, sono partiti con un barchino da Biserta nel novembre 2019 per raggiungere l’Italia: vittime di un naufragio, i loro corpi sono stati ritrovati nei primi mesi del 2020 sulle coste siciliane tra le province di Palermo e Messina. Jalila ha riconosciuto i figli dalle foto dei tatuaggi dei corpi dei naufraghi diffuse dalla Procura di Termini Imerese.

Da quel momento, non si è più fermata: ha contattato l’Italia, ha fatto ricerche su internet, si è appellata alle istituzioni tunisine e italiane fino ad ottenere risposte, anche grazie al prezioso e fondamentale lavoro dell’avvocata Serena Romano, legale che sta continuando la ricerca per la verità e la giustizia degli altri giovani morti in quel naufragio.

Fatto il confronto biologico con il test del DNA e confermata l’identità di Hedi e Mehdi, Jalila ha elaborato questo dolore e lo ha trasformato nel motore necessario a riportarli indietro. Dalla Tunisia, ha diffuso la sua storia in Italia per rivendicare la vicenda dei figli: sognavano l’Europa come tanti migranti ma la possibilità di viaggiare in maniera sicura è stata loro negata. Prima di partire dalla Tunisia i due ragazzi hanno detto alla famiglia: “Vogliamo lasciare questa prigione, vogliamo un nuovo mondo da vivere.

Sono morti in mare, come migliaia prima e dopo di loro, insieme ai compagni di viaggio Kais, Enis e Akram.

Così Jalila ha ottenuto un visto dall’ambasciata e ha attraversato quel mare che ha sommerso i suoi figli. Arrivata a Palermo, grazie al lavoro dell’avvocata Romano, Jalila ha concluso il percorso legale e burocratico necessario al rimpatrio delle salme e ha ripreso il cammino del ritorno per restituire al padre dei ragazzi e a Nourhene, l’altra figlia, i loro cari scomparsi. Dopo tanta sofferenza, è tornata a casa a Biserta con i suoi figli, ha attraversato quel mare che glieli ha portati via.

Mercoledì 28 aprile si è svolto il rito funebre e i corpi finalmente sono stati sotterrati nella terra dove sono nati, con i loro nomi e le loro storie.

Jalila se li è ripresi, li ha sottratti all’oblio della morte senza nome, ha trasformato delle bare anonime in corpi da ricordare. Ha rivendicato le storie, ha significato le ragioni di chi parte e ha smascherato le responsabilità di chi uccide. Ha combattuto la criminalizzazione dei figli, additati dai giornali come trafficanti di droga, smentendo la relazione dei due giovani con un traffico internazionale di stupefacenti e identificando i veri responsabili criminali: le politiche di morte che governano le frontiere europee.

Jalila ha fatto tutto questo con grande coraggio, supportata anche dalle associazioni Carovane Migranti, Accoglienza ControVento, Rete Antirazzista Catanese, Borderline Sicilia, LasciateCIEntrare, Forum Antirazzista Palermo.

Per sostenere le spese di esumazione e di rimpatrio, Jalila ha lanciato una raccolta fondi, ora conclusa, con cui ha riunito il denaro necessario, grazie ai fondamentali contributi di singoli e associazioni solidali. Una partecipazione significativa di tanti che ha contribuito alla riuscita di questo piccolo atto di giustizia.

La trama della memoria delle donne tunisine

Con straordinaria forza, nel suo periodo di permanenza in Sicilia, Jalila si è data da fare anche per le altre donne tunisine alla ricerca dei loro figli e fratelli: Awatef, Fatma, Raja e altre.

Mentre lottava per i propri figli pensava anche a quelli degli altri e tentava di supportare le altre donne, di raccogliere altre informazioni sulle scomparse. Si è messa personalmente alla ricerca perché: “Le madri devono lottare altrimenti non si muove niente. Noi facciamo pressioni, noi spingiamo per avere la verità. Se un cammino non funziona ne prendiamo un altro per trovare un’altra soluzione. Siamo madri e vogliamo giustizia per le nostre famiglie.”

Così è stato. Jalila, di ritorno in Tunisia, racconta delle riunioni con le altre madri dei disparus: già pensa alla costruzione di una memoria dei figli, al significato della loro morte, alla possibilità di dare un senso a queste scomparse con un impegno che contrasti questa barbarie politica e umana: “I miei figli sono stati il motore della ricerca, ora loro saranno il motore della giustizia per tutti i figli del Mediterraneo. Davanti a questi crimini non possiamo rimanere con le mani in mano”.

E quindi Jalila ha cominciato a cucire: filo alla mano, ha dato avvio al racconto, alla sua trama di storia all’interno della grande coperta di Yusuf, nata a Lampedusa con il Forum Lampedusa Solidale.

Cucendo ha iniziato ad intrecciare la sua memoria con quelle di altre famiglie e altre madri che hanno vissuto tragedie simili nel canale di Sicilia e nelle acque del Mediterraneo.

La lotta per i morti nel Mediterraneo è una lotta di tutti

Spesso si dimentica che questa lotta non è solo per la dignità e il rispetto dei morti e degli scomparsi nel Mediterraneo, è una lotta per i vivi, poiché i morti di migrazione sono soggetti ad una violenza che ricade su familiari e conoscenti. È una lotta urgente, perché legata a chi resta in attesa di risposte, a chi prega nel desiderio di sapere con certezza se i propri familiari sono vivi o morti, a chi spera di riavere un corpo o celebrare un rito d’addio, a chi si appella ad istituzioni mute, a chi si chiede come sarebbe andata se questi uomini e queste donne che hanno attraversato il mare fossero nati in una parte di mondo dove la mobilità non è un crimine.

Non solo, è anche una lotta doverosa di chi ha il privilegio di vivere dall’altra sponda del Mediterraneo: non esclusiva di chi ha subito la perdita direttamente, ma anche di chi ne è testimone diretto o indiretto, di chi non può ignorare questa umanità sommersa, di chi difende la libertà di movimento, di chi si oppone all’annegamento dei diritti in un’area mediterranea che – non va dimenticato – è parte integrante della nostra storia.

Una battaglia comune, di noi tutti che ci opponiamo allo sterminio in corso lungo le frontiere, che non possiamo lasciar avanzare il securitarismo fascista e razzista che uccide i migranti. Perché queste morti non sono crimini individuali subiti da alcune famiglie, sono morti con responsabilità politiche che ci interpellano.

E dunque, sostenere la lotta per il riconoscimento degli scomparsi e farne memoria non è secondario: è l’unico modo per non cedere alla rimozione storica, per non rassegnarsi alle violenze alle frontiere, per non essere – nemmeno in minima parte-complici davanti alla totale negazione e svalutazione della vita dei migranti, alla dis-integrazione dei loro corpi e al principio di ineguaglianza delle esistenze che sostiene le necropolitiche europee.

Proprio per questo, quella di Jalila è una battaglia che facciamo attivamente nostra: costruiamo una memoria comune per non consentire che il vuoto di queste scomparse sia riempito, che la ferita sia cicatrizzata, che i colpevoli restino impuniti e la verità venga rimossa.

Verità e Giustizia

Tornata a casa, Jalila ha ringraziato affettuosamente le amiche e gli amici italiani per l’accoglienza che ha ricevuto. Penso con rabbia a quella accoglienza che i suoi figli non hanno avuto e che invece, per fortuna, intorno a lei si è stretta con forza: una presenza umana e politica per contrastare il vuoto di quella perdita, una difesa preziosa da parte della sua avvocata che ancora ricerca verità e responsabilità, un supporto dalle associazioni che non l’hanno mai lasciata sola, una mano dalle persone solidali che l’hanno rasserenata e sostenuta, vicine e lontane.

Te lo dobbiamo, Jalila: amplifichiamo la tua voce, sosteniamo la tua causa, collettivizziamo il tuo dolore e il tuo coraggio. E li rendiamo nostri.

La tua memoria la custodiremo come un tassello prezioso di resistenza nel racconto comune di questa storia di violenza.

E ti promettiamo che in questo sterminio – che un giorno la Storia riconoscerà come tale – non saremo mai spettatori sopiti e indifferenti. Siamo tuoi vigili alleati, impegnati con ostinazione nella battaglia comune per i diritti dei migranti uccisi dalle frontiere. Al tuo fianco per la verità e la giustizia.