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La morte a Venezia non arriva per caso: Gholam era già stato respinto

I familiari raccontano la violenza della frontiera del porto

Gholam Alì Evas aveva 29 anni, cinque bambini piccoli e una moglie, rimasti in Pakistan, che ancora non sanno che non lo rivedranno più.
Fuggiva dalle persecuzioni incrociate dei talebani e del governo Karzai, che lo considerava un collaborazionista delle milizie. Cinque anni di carcere e di torture lo avevano segnato duramente: aveva problemi psichici e fisici, cercava disperatamente e ostinatamente un posto nel mondo dove chiedere asilo e fermarsi.
Dal limbo della Grecia, dove i diritti dei migranti sono più che calpestati dalla violenza della polizia e da un sistema che non riconosce lo status di rifugiato a nessuno, un mese fa era riuscito a nascondersi dentro un tir e a raggiungere Venezia dopo più di 30 ore di traversata. La prima volta, quindi, aveva raggiunto l’Italia da vivo. Aveva cercato di chiedere asilo politico, ma aveva incontrato solo la polizia di frontiera.
Anche lui, come tanti ogni giorno, era stato costretto a firmare dei fogli incomprensibili perché non tradotti, ed era stato rimesso a forza sulla stessa nave sulla quale era arrivato, probabilmente dentro la solita cabina attrezzi dove i profughi vengono rinchiusi senza un bagno, e spesso senza acqua nè cibo, fino all’arrivo in Grecia.
Era stato fortunato, Gholam, perchè la polizia ellenica non era riuscito a rimandarlo in Turchia, come prova a fare sempre con i respinti dall’Italia, incurante del fatto che la Turchia deporta poi in Afghanistan o in Iraq persone che in quei paesi troverebbero solo la morte.
E allora Gholam ci aveva provato ancora, perché in Grecia non si sopravvive. Sognava l’Europa dei diritti, dove poter ricongiungere la sua famiglia, magari in Svezia, dove abitano il fratello e altri familiari, venuti ieri a Venezia per riconoscere la sua salma e raccontarci questa storia.
Anche secondo la Convenzione di Dublino, avrebbe potuto raggiungere i suoi congiunti già stabilmente residenti in Europa, fare arrivare la moglie e i figli, e cercare di superare i traumi e tutta la violenza subita.
La polizia di frontiera che, su evidente direttiva informale del ministero dell’Interno respinge al porto di Venezia, ha invece decretato che le cose dovessero andare diversamente.
La seconda volta, il 26 marzo, Gholam a Venezia ci è arrivato da morto. Schiacciato da una balla di carta di tre quintali dentro il tir dove era riuscito di nuovo a nascondersi.
Non c’è più nulla che non sia stato denunciato, ormai. Dopo l’editoriale del Corriere della Sera di una settimana fa, dopo le dichiarazioni pubbliche del sindaco Cacciari che ha definito la situazione del porto di Venezia come “assolutamente fuori controllo e lesiva dei diritti fondamentali”, c’è ancora poco da dire.
Ora, dicono le associazioni che compongono la rete Tuttiidirittiumanipertutti, bisogna agire concretamente per modificare una situazione intollerabile che provoca continuamente morte. Le associazioni hanno chiesto che il Comune stili immediatamente un protocollo di intesa con la prefettura per regolamentare nel dettaglio cosa la polizia è obbligata a fare per permettere che le persone possano chiedere asilo e, soprattutto, che al porto possa operare un osservatorio indipendente e misto, di membri del Comune e membri delle associazioni, per monitorare che le regole vengano seguite.
A cadenze regolari e ravvicinate, inoltre, la polizia dovrebbe essere chiamata a fornire tutti i dati di coloro che arrivano al porto, per ogni persona un fascicolo. Non come adesso che, per raccontare cosa succede in quel luogo, devono arrivare altri afghani dalla Svezia o bisogna tornare indietro a Patrasso a raccogliere le storie dei respinti, che spesso sono ragazzini e bambini.
Quanto avvenuto a Gholam conferma ciò che la Rete ha raccontato all’assemblea cittadina del 31 marzo a Mestre: anche se adesso la polizia di frontiera ha smesso di fornire dati quotidiani dei respingimenti: “oggi due ‘clandestini’ respinti, ieri dieci, ecc.”, perché forse ha capito che non è esattamente una cosa di cosa di cui potersi vantare impunemente, da Patrasso arrivano continue segnalazioni che questi respingimenti illegali avvengono ogni giorno.
L’estate è alle porte e, oltre a quella del Sud Italia, anche la frontiera dell’Adriatico tornerà sotto i riflettori per altre storie di speranza e di morte.
A scegliere, se dare la speranza oppure la morte a persone che hanno tutti i diritti di fare ingresso, sono al momento solo le prassi informali e fuori legge della polizia di frontiera che opera ai porti.