Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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da Il Manifesto del 2 Ottobre 2007

«La nostra rivolta contro i rimpatri»

Reportage Nel cpt di Gradisca, dopo la ribellione

di Orsola Casagrande

Il centro di detenzione di Gradisca ha il volto piccino di una bimba di otto mesi. Seduta su un letto (in una stanza dove ce ne sono sei) la piccola guarda smarrita e curiosa quei visi bianchi che scattano foto, riprendono con telecamere, parlano. «Ho avuto tanta paura», sussurra in inglese la giovane mamma. Viene dall’Etiopia. Ha viaggiato con la sorella e con la figlioletta. «Ci siamo tanto preoccupate», dicono all’unisono le altre donne della camerata. «Quella notte ci hanno chiuso dentro… c’era quell’odore che ti prendeva alla gola». Frammenti di frasi. Quella notte è la notte di domenica scorsa, la notte della «rivolta degli egiziani». L’odore acre è quello dei lacrimogeni. La piccola è stata portata in ospedale con segni di soffocamento. Adesso tutti, gli operatori della cooperativa Minerva che ha in gestione il centro di detenzione di Gradisca e il funzionario della prefettura che ci accompagna, ripetono che «non è successo nulla. La bambina sta benissimo. Abbiamo i referti dell’ospedale». Se nulla è stare chiusa in quello che a tutti gli effetti è un carcere, sbarre ovunque, porte chiuse a chiave alla notte rischiando il soffocamento per gas lacrimogeni, allora non è successo nulla.
La realtà è invece che la bimba, la sua giovane mamma e le altre donne, liberiane, etiopi, eritree sono rinchiuse nel centro di detenzione di Gradisca da oltre un mese. «Purtroppo siamo stati costretti a utilizzare una parte del cpt come cpa per far fronte alle emergenze estive, sbarchi continui, centri strapieni». Dunque la piccola, sua madre e gli altri 108 richiedenti asilo tra uomini e donne, sono vittime dell’emergenza. Da oltre un mese stanno in quell’ala del centro di detenzione che per l’occasione viene chiamata centro di prima accoglienza. «Possono tutti uscire durante il giorno – dice il direttore della Minerva, Paolo Zotti – devono rientrare alle otto di sera». Certo, i richiedenti asilo possono uscire. E qualcuno esce, gironzolando per le vie di Gradisca. Senza soldi in tasca, senza conoscere una parola di italiano. «No – dicono tanti, soprattutto tra le donne – non usciamo. Dove andiamo? Non abbiamo soldi, non sappiamo neppure dove siamo».
All’inizio timidamente, quindi approfittando della presenza dei parlamentari, le ragazze sollevano il problema dei vestiti. «Abbiamo freddo», dicono. E in effetti anche in cortile c’è gente che batte i denti. La temperatura si è abbassata notevolmente e i 161 rinchiusi nel centro hanno addosso la tuta fornita dalla cooperativa. Il senatore Franco Turigliatto si fa interprete della richiesta delle donne e chiede perché non vengono dati loro vestiti più pesanti. «Perché escono e li vendono», è la risposta del direttore della cooperativa. Sgomento. Certo, chi sta nel cpa può uscire ma non avendo soldi può anche essere che decida di vendersi la tuta grigia della Minerva. Dove? In piazza a Gradisca?

I parlamentari in visita al centro di detenzione, dopo la rivolta degli egiziani, assieme a giornalisti e a qualche associazione (restano fuori MeltingPot e i consiglieri regionali), iniziano il giro dall’ala adibita a centro di prima accoglienza. Ed è un pugno nello stomaco. Non solo per la presenza della bambina, ma perché è chiaro che quelle donne e quegli uomini vivono nell’attesa che si fa angoscia. Soprattutto dopo la rivolta, tutti hanno paura di finire come gli egiziani: deportati in fretta e in furia. Cinquanta ne hanno mandati via. Ma non avevano chiesto tutti asilo politico? Sì, ammette il funzionario della prefettura. E lo confermano i due rappresentanti del Cir. Che aggiungono, «nel loro caso la risposta di diniego è arrivata in pochissimi giorni». Spiega l’avvocato dei giovani che a tutti è stato notificato, a Gradisca, un provvedimento di respingimento. Tutti erano arrivati a Lampedusa e mandati in Friuli. Dove gli è stata anche convalidata la domanda di asilo. Il provvedimento di respingimento ha fatto sì che invece che nel cpa, gli egiziani finissero nel cpt. Quindi detenuti a tutti gli effetti. Non potevano uscire dal centro, non riuscivano a parlare nemmeno con il loro legale. Già a fine agosto, angosciati perché nessuno dava loro spiegazioni, alcuni ragazzi avevano tentato la fuga. La repressione era stata pesante. Un ragazzo, cadendo dalle sbarre dove si era arrampicato, è finito all’ospedale. Ha riportato fratture ad entrambe le gambe. Lo troviamo nel cortile dell’ala adibita a cpt. Ha diciotto anni. Gli occhi lucidi. Racconta che la sera dell’ultima rivolta li hanno tenuti ammanettati per dieci ore. «Non ce la faccio più», dice. Gli altri, giovanissimi, chiedono ai parlamentari di dir loro qualcosa. «Che fine faremo? Noi non vogliamo essere rimpatriati». Un ragazzo racconta l’odissea sua e di altri nove compagni. «Siamo passati per la Libia, ma qui ci hanno preso. Cinque di noi sono morti. In Italia siamo riusciti ad arrivare vivi in cinque». Anche gli altri raccontano di un viaggio inenarrabile. Di minacce, terrore, stenti. Eppure già a Lampedusa, dicono tutti, sono stati separati dagli altri profughi. Gli egiziani sono stati staccati dal resto del gruppo. E spediti a Gradisca. Tornano alla mente le parole (non smentite) del sottosegretario Rosato: egiziani e tunisini non finiranno mai nei centri di prima accoglienza. Come dire che Egitto e Tunisia sono campioni di democrazia e quindi chi fugge da quei paesi è un mascalzone, un millantatore. Le parole di Rosato sembrano essere state prese alla lettera. Dopo la rivolta, in grande fretta, è stato organizzato il volo di rimpatrio. Eppure un arrivo così massiccio di persone dall’Egitto avrebbe dovuto almeno suscitare qualche curiosità. Magari rispetto alle modalità della tratta degli esseri umani, ai cambiamenti in atto. Perché nessuno si è preoccupato di indagare da quale zona dell’Egitto arrivavano questi uomini? Come sono arrivati in Italia, chi hanno dovuto pagare per uscire dal loro paese, chi ha organizzato il viaggio. L’unica preoccupazione delle autorità italiane invece è stata rispedire in patria questi ragazzi. Che qualcuno (il sottosegretario Rosato?) ha deciso che non hanno diritto di chiedere asilo nel nostro paese.

Si tormenta nel silenzio da tre settimane un giovane kurdo di Erzurum. Nessuno parla turco e lui non parla nessuna lingua oltre al kurdo e al turco, appunto. E’ un fiume in piena. La notte della rivolta, dice, si è rannicchiato in un angolo, spaventato. Sembrava di essere in Turchia. Hanno tirato tanti lacrimogeni. Si sentivano urla. Lui ha chiesto asilo politico, ma siccome appena fermato gli hanno dato il foglio di via non può stare nel cpa. Deve attendere di essere ascoltato dalla commissione per i rifugiati nel cpt. Ventuno giorni. Ha imparato queste due parole di italiano. Perché la legge dice che entro venti giorni deve essere ascoltato dalla commissione. Ma lui è qui da ventuno. E ancora nessuna notizia. Nessuno sa nulla. Nessuno sa dirgli quando la commissione lo ascolterà. Il centro di detenzione è un luogo di sospensione dei diritti. Una sorta di limbo che ha fattezze di incubo per chi ci finisce dentro. «I cpt vanno chiusi, i cpt vanno chiusi» continua a ripetere, umanamente provata, la senatrice Siniscalchi. Le fa eco il senatore Turigliatto, «mi sento male per come si sta comportando l’Italia nei confronti di questa gente». Al governo c’è il centrosinistra. La chiusura dei cpt resta tragicamente un miraggio.