Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Tratto da Città Meticcia del 6 luglio 2006

La nuova frontiera della lotta di classe

Lo scorso primo maggio negli Stati Uniti si è assistito ad un evento storico: milioni di migranti indocumentados (ovvero senza documenti) hanno fermato l’America per un giorno, non lavorando e non consumando. Un gigantesco e pacifico sciopero per rivendicare il semplice diritto di esistere.

Così, George Bush ha deciso: schiera la Guarda Nazionale alla frontiera col Messico, a protezione dei sacri confini dall’invasione dell’orda di clandestini che salgono dal Sud del mondo a condividere la (mal suddivisa) ricchezza Americana. Su una scala immensamente più grande, è la stessa cultura che in Italia autorizza a sparare per difendere la roba, o vagheggia di affondare le barche degli immigrati nel canale di Sicilia. L’emigrazione è forse la forma più radicale e di massa, oggi, della lotta di classe – se per lotta di classe intendiamo l’azione sociale di chi non ha per costringere chi ha a cedere una parte dei suoi privilegi. E come sempre, ai momenti alti della lotta di classe il capitale risponde con le baionette. Un governo americano privo di idee continua a cercate la soluzione militare, in Arizona come in Irak (e forse in Iran) a tensioni e ingiustizie troppo vaste per fermarle con le baionette (o con i missili).
L’altro giorno per caso ho visto un pezzo del “Daily Show”, la trasmissione satirica della TV americana che è forse l’unica dove veramente si danno le notizie. Il conduttore, Jon Stewart, chiedeva al leader democratico, Howard Dean: come mai Bush si accorge proprio adesso, dopo cinque anni alla Casa Bianca, della questione dell’immigrazione? E mentre Dean si avventurava in complesse e plausibili spiegazioni politiche, il conduttore si rispondeva da sé: dev’essere perché ha saputo solo adesso che il Messico non fa parte degli Stati Uniti. È una battuta, ma rinvia iperbolicamente non solo alla proverbiale ignoranza di Bush ma soprattutto alla visione del mondo di gran parte delle classi dominanti americane: il Centroamerica, l’America Latina tutta, come retrobottega di casa per un’“America” che non ha confini.
Ma se questa “America” non ha confini che la contengano, rischia di non avere confini che la proteggono così, la battuta del “Daily Show” rinvia anche a un’altra paranoia che circola nelle radio di estrema destra che dominano l’etere negli Stati Uniti: la convinzione che l’ondata migratoria sia una calcolata strategia del Messico per riprendersi quei territori (tutto il Sudovest, dal Texas alla California) che gli Stati Uniti gli sottrassero nel 1848. La guardia nazionale al confine, allora, è a suo modo un’ammissione: gli Stati Uniti cominciano qui, ma anche qui finiscono.
Un ragazzo americano incontrato per strada mi dice: io lo so perché la California è in bancarotta; è colpa di tutti quegli immigrati illegali che hanno lì. Lui non aveva sentito parlare della giornata del 1 maggio scorso, il cosiddetto “giorno senza immigrati”, la risposta più eloquente che si potesse dare a questi luoghi comuni.
Perché quella giornata ha dimostrato che se la California e gli Stati Uniti, non sono ancora interamente in bancarotta, questo si deve proprio ai quasi dodici milioni di immigrati che Bush vorrebbe rispedire a casa e che tengono in piedi i servizi e le fabbriche (e diceva Jon Stewart: ma ve l’immaginate come farà a rimandare indietro dodici milioni di persone?). In questo senso, le manifestazioni degli immigrati non sono state solo la scesa in campo di un soggetto “nazionale” o “etnico”: sono state anche la più grande manifestazione operaia che gli Stati Uniti abbiano conosciuto negli ultimi 25 anni.
È scesa in strada, dunque, una nuova soggettività: gli immigrati non sopportano più in silenzio angherie, pregiudizi, discriminazioni. Non solo l’America è stata storicamente un paese di immigrati, ma continua ad esserlo e solo per questo è ancora l’America. Da questo punto di vista, era significativa l’esposizione di simboli nazionali, bandiere a stelle e strisce, inno nazionale.
Dopo l’11 settembre, a Los Angeles, il quartiere con maggiore esibizione di bandiere era proprio il barrio latinoamericano; ma avevano una funzione difensiva, servivano ad esorcizzare il sospetto e l’ostilità che in quei giorni colpivano tutti gli stranieri e i diversi. In questi giorni, avevano un altro senso: rivendicando i simboli nazionali, gli immigrati ne cambiavano il significato. Basta pensare alla trovata dell’inno nazionale americano (un inno bruttissimo, come ha scritto Kurt Vonnegut, con musica incantabile e parole astruse, ma sempre l’inno) tradotto e cantato in spagnolo, con grande rabbia di Bush (che pure in tempo elettorale aveva capitalizzato sulla sua capacità di dire quattro parole in quella lingua). L’inno in spagnolo significa “anche noi siamo americani”, ma anche “l’America è anche noi”: cioè un paese plurale, multilingue, composito, che non può escluderci.

Pure, i problemi cominciano adesso. Non solo perché le forze politiche e le istituzioni sembrano poco disposte ad ascoltare, ma perché, come sempre, l’entrata in campo di un soggetto fino adesso silenzioso è destinata a provocare ondate di ripercussioni su tutta la società. I cosiddetti “latinos” stessi non sono affatto un corpo omogeneo: a parte le diverse origini nazionali, gli interessi dei messico-americani nati negli Stati Uniti e quindi cittadini degli Stati Uniti non coincidono immediatamente con quelli degli immigrati legali che a loro volta non sono la stessa cosa degli illegali. Perché l’unità vista in questi giorni possa crescere e consolidarsi è necessario un lavoro politico attento e in profondità, e non è facile vedere in questo momento chi è in grado di farsene carico. Poi, è significativa la perplessità dei media e degli intellettuali afroamericani: l’analogia immediata fra la manifestazioni dei latinos e la lotta per i diritti civili ha spiazzato molti di loro, che da un lato si riconoscono in questa storia e sentono che sarebbe giusto farla propria, ma dall’altro si trovano dall’altra parte del confine, anche loro americani, anche loro cittadini, separati da questi immigrati che non parlano nemmeno inglese (e gli afroamericani, ricordiamolo, non sono mai stati “immigrati”).
La “coalizione arcobaleno” di tutte le minoranze e le marginalità che Jesse Jackson tentò di mettere in piedi negli anni ’70 non riuscì allora a mettere radici, e la solidarietà fra diversi soggetti emarginati, discriminati e oppressi non è affatto automatica come può sembrare a chi guarda da fuori. Fin dai tempi della guerra alla povertà del presidente Johnson, i governi americani sono stati maestri nel prevenire la solidarietà e nel generare concorrenza. Anche qui, c’è un lavoro politico, e culturale, da fare.
Tuttavia, gli eventi di queste settimane hanno evocato anche un’altra immagine: il finale di Almanac of the Dead, gigantesco romanzo della scrittrice nativo-americana (Pueblo) Leslie Marmon Silko. È una scena di utopia, in cui tutti i marginali e gli oppressi di tutta l’America – gli indios del Messico, i neri dei ghetti, i drogati, gli esquimesi, gli omosessuali, gli indiani degli Stati Uniti, i latini… – convergono su Tucson, Arizona, per riprendersi il continente che gli è stato strappato e che li esclude. È un’utopia, naturalmente. Però: Leslie Silko immaginava che tutto sarebbe cominciato in Chiapas – e il romanzo uscì quando ancora degli zapatisti nessuno aveva sentito parlare. Chissà, forse le visioni a volte possono vedere il futuro più nitidamente di tanta politica e sociologia di breve respiro.

Alessandro Portelli
Università La Sapienza – Roma