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da Il Manifesto del 23 ottobre 2004

La pazienza di Nancy la filippina di Cinzia Gubbini

Nove anni a servizio tra i ricchi della Capitale che pagano i contributi. 530 euro al mese, non una lira di più. E una vita in coda per un visto, un ricongiungimento

L’autobus non passa, oggi è sciopero. Non è un problema, per la maggior parte del popolo di via Teofilo Patini la giornata di lavoro è persa comunque. La strada è all’imbocco di Tor Sapienza, estrema periferia romana – anche se la periferia della capitale assomiglia a un organismo vivente che si ciba del rialzo del prezzo degli immobili e ingrassa a dismisura. Proprio qui, da qualche mese, sorge il nuovo Ufficio immigrazione della questura di Roma: i maligni dicono che è stato spostato per nascondere le file dei cittadini stranieri che facevano bella mostra di sé nel pieno centro della città, dove si trova la «storica» sede di via Genova. Il palazzo, certo, è meglio attrezzato del vecchio. Resta il fatto che in questa landa c’è solo questo bel palazzo. Non un bar, non un tabaccaio, non un’edicola, non una cabina telefonica. Insomma, niente di niente. Neanche una panchina, così tutti quelli che oggi confidano nell’autobus «crumiro» aspettano in piedi, oppure seduti sul pezzetto di muro che avanza da un’inferriata. Ma i pensieri sono altri: per esempio, quello di «dover tornare la prossima settimana», spiega Nancy, donna filippina, cinquant’anni, che neanche a dirlo fa «la filippina» in casa di un’anziana signora romana. La storia di Nancy riassume bene il dramma sotterraneo degli stranieri caduti tra le maglie della Bossi-Fini che ha reso a dir poco traumatico il rinnovo del permesso di soggiorno. A lei è toccato aspettare 10 mesi. Se lo ricorda bene: il permesso «scadeva il 13 settembre 2003. Ho ottenuto il rinnovo il 13 luglio 2004». In quei 10 mesi, Nancy ha avuto i suoi problemi, come si può immaginare: intanto con il medico, perché la tessera della Asl scade insieme al permesso di soggiorno. Ma soprattutto con il marito. Dopo cinque anni, Nancy aveva promesso alla famiglia (tre figli, cinque nipoti nelle Filippine) di tornare a casa, giusto per due mesi. Poi l’intoppo con il rinnovo. E senza permesso di soggiorno, se si va all’estero non si può rientrare in Italia. Il marito che l’aspettava nelle Filippine, però, non ci credeva «e io che non sapevo come farglielo capire», racconta Nancy. Aveva già fatto il biglietto aereo per dicembre, «che ne sapevo. Prima di questa legge per rinnovare il permesso di soggiorno aspettavi qualche settimana». Ora partirà il 29 novembre ma con il marito c’è stato bisogno di qualcosa di più per ricucire i rapporti: la promessa del ricongiungimento familiare.

In coda nel labirinto

Ed eccola qui, in via Teofilo Paini, per una nuova avventura nel labirinto della burocrazia. Al primo appuntamento le è stato detto di tornare dopo un mese. Ieri, appunto. Ma la brutta sorpresa è dietro l’angolo: il foglio di autocertificazione con cui la sua datrice di lavoro ha attestato di impegnarsi a ospitare anche il marito di Nancy porta una firma non conforme a quella che c’è sulla carta d’identità. Diciamo che la signora romana, più che firmare ha scritto il suo nome in stampatello. Nella cartella in cui Nancy custodisce il pacchetto di documenti per ottenere il ricongiungimento familiare, ora appare una bella nota in cui precisa che occorre produrre un paio di documenti in più e sotto «n.b.», precisa: «controllare la firma». Tanti pensieri di ordinaria ruotine per tutti gli stranieri che vivono in Italia, legati a doppio filo con i controlli continui della «regolarità».

A nulla vale, per Nancy, frequentare – se così si può dire – il mondo dell’alta società. Eh sì, perché Nancy è «la filippina delle dive»: nei suoi nove anni a Roma è stata la colf di una nota famiglia che gestisce un’agenzia di sicurezza per ricchi e famosi, di una giornalista di un grande quotidiano e anche adesso è al servizio di una famiglia decisamente benestante. Così, mentre aspetta l’autobus seduta sul «pizzo» di un muretto, racconta la sua vita. La vita di una donna che si spacca la schiena a lavorare e che farebbe le gioie di un qualsiasi giornale di gossip, mentre tra una chiacchiera e l’altra sulle assurdità della Bossi-Fini snocciola episodi esilaranti su personaggi stranoti: «quella volta che Sylvester Stallone…», «quel concerto con Tina Turner…», «quella crociera in barca al largo dell’isola di Formentera…», il matrimonio del famoso cantante che «alla fine mi ha anche donato il cappello che indossava per la cerimonia». Lei, sempre presente, per accompagnare le sue «signore». Tutte «molto gentili e molto buone». Ogni volta che vanno all’estero per un viaggio «c’è un regalo anche per me».

Peccato che ogni tanto si verifichi qualche inconveniente: la sua vicenda lavorativa con la famiglia che gestisce l’agenzia di sicurezza, per esempio, finì in tribunale. Non le volevano riconoscere la liquidazione, «sei milioni di vecchie lire». La giusta liquidazione per chi ha «lavorato per quella famiglia due anni e mezzo guadagnando un milione al mese». Ma si sa, «in tutte le buone famiglie c’è sempre qualcuno cattivo». E anche adesso che lavora per una famiglia che, tanto per intendersi, possiede tre ville nell’agro romano, il suo stipendio non va oltre i 530 euro mensili. Più o meno quello che stabilisce la legge, è vero, e i contributi sono tutti pagati, che è una rarità. E’ giusto così, mica vorremo cancellare la divisione tra le classi. Cominciando con una filippina, magari.

Anche la domenica

Certo, il lavoro con l’anziana signora benestante non le occupa tutto il giorno, come è stato stabilito con i figli, uno avvocato e l’altro architetto: comincia alle 19,30 di sera e finisce alle 11 di mattina. Poi Nancy esce e inizia la sua seconda giornata di lavoro. Di signore a cui badare, infatti, ne ha tante. Quasi per tutte lavora quattro ore, una o due volte alla settimana. Pulisce la casa, un lavoro che faceva anche nelle Filippine: «Ma laggiù lavoravo molto di più, lo posso giurare, e guadagnavo di meno. In Europa si guadagna bene». Il lavoro extra lo fa anche il giovedì pomeriggio, canonico giorno di riposo per le colf. Neppure la domenica si risparmia: il giorno del Signore è dedicato alla pulizia di tre uffici.

Tutti soldi messi da parte per inviarli alla famiglia. E lei? «Ah, io non esco mai». Nancy non ha mai visto San Pietro, «a piazza di Spagna ci sono stata solo una sola volta», «non mi piace passeggiare, andare in giro». Quando esce, una volta alla settimana, è per accompagnare la sua signora in visita alla tomba del marito, in un cimitero vicino Roma. Il suo rapporto con la signora «è ottimo». Qualche volta è nervosa e alza la voce, Nancy le dice di calmarsi «che le fa male alla salute». Comunque, stare con gli anziani è una cosa che le piace: «Per me è come con mia mamma. Ci vuole pazienza, questo è tutto».

La stessa pazienza che ci vuole a tornare ogni settimana per un documento, a fare la fila la mattina molto presto davanti ai commissariati, a rinunciare a vedere il marito e i figli lasciati nelle Filippine per cinque lunghi anni. Che ne pensa Nancy del fatto che l’ultima trovata del governo è di tentare di accorciare i tempi del rinnovo dei permessi, costruendo un servizio ad hoc alle Poste, dietro pagamento? «Va bene», risponde Nancy, «basta che diventi tutto un po’ più facile. I soldi, in qualche modo, li trovo». Che i soldi i lavoratori immigrati, in qualche modo, li trovano sempre, lo sa bene lei e lo sanno altrettanto bene i legislatori che di una colf non hanno mai potuto fare a meno.