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La questione del bracciantato agricolo tra finti scoop e vere lotte dal basso

Quella appena trascorsa è stata la classica settimana d’agosto dove la stampa italiana, in cerca di scoop e notizie da lanciare in rete, ha dato il proprio meglio, manco ce ne fosse stato bisogno, tra “figli di” e presunte guerre di religione.
Ecco allora che, mentre migliaia di braccianti africani si spezzano la schiena sotto il cocente sole del Sud, l’informazione mainstream riporta la notizia della partecipazione della figlia del ministro Padoan ad una contestazione contro il ministro della Giustizia Andrea Orlando che, a Foggia, presentava la nuova legge contro il caporalato. Gli articoli, tutti, ruotavano intorno alla figura di Veronica Padoan, proprio perché figlia del ministro, donna (questione per niente scontata), in lotta contro il governo; non una parola sullo sfruttamento bracciantile, qualche scarna riga sui motivi della contestazione, niente di niente sulla questione di una legge che servirà a poco e avrà risvolti praticamente nulli. Ovviamente nessuna attenzione particolare all’iniziativa di tre giorni dopo quando 400 lavoratori delle campagne hanno scioperato e bloccato per oltre sei ore la trasformazione del pomodoro a Foggia picchettando la società agricola Futuragri e la multinazionale Princes.
A contorno di tutto questo l’incomprensibile articolo di Fabrizio Gatti, noto giornalista dell’Espresso, che racconta uno spaccato del ghetto di Rignano (Foggia) totalmente fuorviante, paventando addirittura una guerra di religione all’interno del ghetto attraverso quel classico vittimismo cattolico, e post colonialista, prodotto di un giornalismo che non si basa su dati oggettivi e lavora, come il peggior leghismo, sulla pancia della gente. Da un giornalista d’inchiesta e scrittore che ha saputo raccontare minuziosamente nei suoi reportage e libri la vita dei migranti calandosi nelle loro vesti ci saremo aspettati una maggiore attenzione e verifica delle fonti. 1
Si stima che oggi, nel Centro-Sud Italia, lavorino circa 500 mila braccianti africani, rumeni, italiani e asiatici. La raccolta dei prodotti dell’agricoltura non conosce differenza di etnia, sesso o religione; i nuovi schiavi vivono in una condizione di totale precarietà, nonostante il lavoro, sul campo, di molte associazioni, in un regime che potrebbe ricalcare quello del Terzo Mondo. Profughi, disoccupati, rifugiati si ritrovano ad abitare in ghetti, specchio di “new town” contemporanee e di una società che marginalizza e nasconde. Rosarno, Rignano, Boreano, Cassibile o qualsiasi altro ghetto italiano sono la dicotomia più evidente di una società capitalista, imperniata nella frenetica rincorsa al consumo, visibile oggi più che mai nelle grandi città metropolitane, mercati a cielo aperto dell’usa e getta; società che, per propria natura, crea povertà “di confine”, “new town” di cartone e plastica sconosciute ai più dove la brutalità del vivere è un risvolto quotidiano.
Loro, i braccianti, raccolgono la maggior parte della frutta e della verdura che arriva nelle nostre tavole; poche decine di euro al giorno, sotto il sole o in mezzo al fango, per l’arancia calabrese o il pomodoro pugliese. 2
La GDO (Grande Distribuzione organizzata), negli anni, ha stritolato i contadini che sono stati costretti ad abbassare ulteriormente la paga oraria (oggi stimata intorno ai 5 euro) e a servirsi di un fenomeno che l’Italia conosce da molti decenni, il caporalato.
La nuova legge per “combattere” il caporalato, oltre ad inasprire le pene, classico modus operandi italiano per pararsi dietro il concetto “qualcosa abbiamo pur fatto”, parla di lavoro agricolo di Qualità, Cabine di Regia, Istituzioni e Piani di intervento per l’accoglienza, tutte belle parole che però cozzano contro le politiche repressive e securitarie (vedere gli innumerevoli sgomberi, finti e meno finti, dei ghetti) portate avanti da istituzioni e forze dell’ordine.
La grande rivoluzione in ambito agricolo dovrebbe comportare la regolarizzazione di tutti i braccianti, dai documenti ai contratti di lavoro, attraverso un piano abitativo che, per lo meno al Sud Italia, ripopolerebbe aree depresse e di forte emigrazione (il caso Drosi, nella Piana di Gioia Tauro, può fare scuola) in concerto con un lavoro culturale che porterebbe alla creazione di una coscienza comune per la richiesta di reddito, diritti e dignità anche attraverso progetti di autogestione e comunità, di resistenza sociale e culturale portati avanti da SOS Rosarno e altre associazione che combattono sul territorio. A fianco di tutto questo sarebbe fondamentale premere affinché la Grande Distribuzione inizi ad usare il cosiddetto “prezzo alla fonte” (o etichetta narrante), mezzo fondamentale per la formazione di una criticità dal basso del consumatore. Ma, purtroppo, le grandi industrie e cooperative alimentari sono le stesse che muovono le agende politiche ed economiche a livello nazionale e mondiale condizionando così l’intero settore agro-alimentare.
Mantenere lo status quo, in questo momento, pare far bene a molti e il mainstream nazionale sembra essersi consapevolmente adeguato.

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Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.