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da Repubblica on line del 5 novembre 2006

La rom Castela, un figlio malato come “permesso di soggiorno”

di Giovanni Maria Bellu
Venerdì prossimo, 10 novembre 2006, sarà uno dei giorni più importanti, forse il più importante, della vita di Castela, 28 anni, cittadina romena di etnia rom. Il giudice dei minorenni di Roma deciderà sulla sua vita e, soprattutto, su quella di Leonard, il suo bambino di otto mesi. Sarà una specie di interrogatorio: il magistrato domanderà a Castela se Leonard è veramente malato, come lei sostiene e quindi, se si convincerà che effettivamente lo è, ordinerà alla questura di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di salute.

Per quanto l’esperienza di questi anni insegni che in materia di diritti umani in Italia non si può dar nulla per scontato, è molto probabile, se non certo, che il magistrato si convinca. La gravità delle condizioni di salute del piccolo è attestata da una serie di inequivocabili certificati medici dai quali risulta che soffre di una patologia cardiovascolare così grave da richiedere frequentissimi controlli ambulatoriali, terapie continuative per almeno un anno, e che, nei suoi otto mesi di vita, ha subito sei operazioni.

Il fatto che Castela, pur trovandosi in questa situazione, ancora tema una decisione negativa, aiuta a chiarire qual è la condizione dei rom romeni, “i paria dell’emigrazione” come sono stati efficacemente definiti sul “Manifesto” da Luca Chianca e Riccardo Iori. Sono gli ultimi arrivati e anche gli altri rom li guardano con fastidio perché la loro comparsa in Italia – determinata dalla devastante crisi economica che alla fine degli anni Novanta colpì il sud della Romania e alcune zone urbane come Craiova, la città di Castela – ha riattizzato l’eterna diffidenza nei confronti degli “zingari”.

Attualmente Castela, Leonard (e altri due figli, uno di 13, l’altro di 6 anni) vivono, anche se forse la parola è grossa, al residence Bravetta, il gigantesco fabbricato che a Roma da anni è il simbolo del degrado e dell’emarginazione. Per i rom romeni è diventato anche il luogo dove hanno scoperto di trovarsi veramente nel gradino più basso della stessa scala sociale degli immigrati. E’ accaduto quando, con l’intento di eliminare quella “sacca di degrado”, a marzo è stato avviato lo sgombero del residence. Uno strano sgombero.

In realtà un silenzioso va e vieni, con gli immigrati che s’allontanavano prima dell’intervento della polizia e poi tornavano alla spicciolata trovando posto in altre zone del complesso edilizio. All’inizio i rom romeni avevano fatto fronte comune con le altre etnie. Ma via via sono rimasti soli. Gli ultimi ad abbandonarli, dopo l’intervento della loro ambasciata e una serie di rassicurazioni su future sistemazioni, sono stati i senegalesi. I rom, come è noto, non hanno ambasciata. A settembre hanno realizzato un presidio di protesta nel centro di Roma, con scarsi risultati.

Un mese prima, il permesso di soggiorno che Castela aveva avuto dopo il parto era scaduto. Suo marito, d’altra parte, aveva già ricevuto un ordine di allontanamento dall’Italia. Il rischio di trovarsi tutti sulla strada, o più probabilmente in qualche bivacco sulle sponde del Tevere, era molto alto. Così la convocazione da parte del giudice dei minorenni è stata accolta con particolare sollievo. La malattia di Leonard ha aperto una nuova possibilità.

Col permesso di soggiorno per motivi di salute il rischio dell’espulsione sarà rinviato di altri sei mesi, forse addirittura di un anno. E’ vero, con quel tipo di permesso Castela non potrà lavorare, quindi dovrà mendicare. Ma questi, per un rom venuto dalla Romania, sono solo piccoli particolari della lotta per la sopravvivenza.
(glialtrinoi@repubblica. it)

(5 novembre 2006)