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La rotta marittima tra Patrasso e i porti italiani torna ad uccidere

di APS Lungo la rotta balcanica

Foto di Aps Lungo la rotta balcanica, porto di Patrasso

07 giugno. Venezia. Un camion, proveniente dalla città greca di Patrasso, viene fermato per un normale controllo della polizia lungo la tangenziale di Mestre. All’interno viene rinvenuto il corpo senza vita di un uomo, di nazionalità afghana. Morto di stenti, morto di caldo, di fame, morto asfissiato a causa dei gas esalati. Nessuno ancora lo sa. Sarà l’autopsia a dirlo. Ma forse poco importa. Ad ucciderlo è stata la frontiera. E’ stata, ancora una volta, la politica dei respingimenti illegali, dei confini chiusi. Abd Ar-Rahman, ci piace chiamarlo così, sapeva bene che per partire da Patrasso ed arrivare in Italia non aveva altra scelta se non quella di rinchiudersi dentro un tir ed imbarcarsi in una nave nascondendo ogni prova della sua identità, del suo passato, della sua storia. Ogni piccolo pezzo di carta doveva essere occultato, eliminato. Così è partito senza niente in tasca, lasciando in Grecia il suo nome, la sua identità, la sua storia. Probabilmente era da mesi che provava a salire su un camion diretto in Italia. Probabilmente, come tanti altri ragazzi afghani e pakistani costretti a vivere nelle fabbriche abbandonate a Patrasso, era stato ripetutamente picchiato dalla polizia greca mentre tentava di nascondersi sotto ad un tir. Probabilmente aveva contratto debiti per potersi pagare il viaggio fino in Italia. Probabilmente, quando il camion si è mosso per imbarcarsi nella nave, aveva pensato di avercela finalmente fatta.

Invece, il cadavere di Abd Ar-Rahman è stato rinvenuto in forte stato di decomposizione, quasi per caso, per un ordinario controllo della polizia, lungo la tangenziale di Mestre. Non è stato nemmeno possibile scattare una foto. Non è stato nemmeno possibile dare dignità al suo volto, al suo nome, alla sua storia, alla sua morte.

Chissà per quanto tempo è rimasto sospeso in quella linea di confine che separa la vita dalla morte.

Chissà perché non ha trovato nessuno a respingerlo, stavolta.

Che nome aveva? Che sogni aveva? Dov’era diretto? Chi lo stava aspettando? Chi sa o potrà mai sapere qual è stato il suo destino?

10 giugno. Ancona. Diamogli prima di tutto un nome. Adnan. 18 anni. Afghano. Stesso paese di Abd Ar-Rahman, stessa rotta, stesso destino. Adnan si nasconde sotto un camion, nel porto di Patrasso. Stavolta fugge ai controlli della polizia. Si parte. Il tir si muove lentamente, si imbarca sulla nave. Direzione Ancona. Adnan si tiene forte in quello spazio invisibile che si trova tra le ruote e il motore. Si tiene con tutte le sue forze, che sa che gli devono durare per tante lunghe ore, senza acqua né cibo. Sa che il momento più difficile è quando si arriva al porto, sa che lì non può avere momenti di debolezza, che deve rimanere nascosto sotto al tir, fermo, immobile, nella speranza di non essere visto dalla polizia di frontiera. Nei porti italiani si respinge, illegalmente. Si continua a respingere. Sa che se venisse bloccato all’interno dell’area portuale, verrebbe rispedito subito in Grecia, sulla stessa nave da cui è venuto. In una stanza sotto stretta sorveglianza, spesso senza acqua né cibo. Per questo Adnan al porto di Ancona si tiene forte, con tutta l’energia che gli rimane. In quel momento sa che si sta giocando il suo destino. In quel momento vivere significa non mollare la presa. Null’altro.

Poi è questione di un attimo. La forza, per un secondo, gli viene a mancare. La presa scivola. Cade a terra. Viene ritrovato da alcuni automobilisti sul ciglio della strada, immobile, lungo la via Flaminia. Le lesioni all’addome e al torace sono troppo profonde per essere curate. Adnan muore dopo un giorno e mezzo di agonia in un letto di ospedale.

Così viene ucciso Adnan.

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10 giugno. Patrasso. Ahmed guarda dritto nell’obiettivo. Ha lo sguardo serio, sostenuto, gli occhi socchiusi, baffi appena accennati, capelli corti, nerissimi, pakol in testa, giacca militare aperta e una grossa sciarpa bianca e nera. Sullo sfondo delle aride colline dell’Afghanistan. E’ un mio amico afghano, Zahid, a mandarmi la foto di Ahmed su Viber, assieme ad un messaggio. “E’ morto ieri a Patrasso, aveva 21 anni. Come me. Ci eravamo conosciuti qualche mese fa all’interno delle fabbriche. Anche lui voleva arrivare in Italia. Si è attaccato sotto ad un camion. E’ caduto. E’ stato schiacciato”.

20 giugno. Atene. Piazza Omonia. Zahid mi stringe forte la mano. Sono passati due mesi da quando ci siamo conosciuti a Patrasso, ma da allora tante cose sono cambiate. Le fabbriche sono state evacuate dalla polizia, i richiedenti asilo che vivevano all’interno sono prima stati arrestati e poi trasferiti di forza ad Atene, col divieto di tornare a Patrasso. Molti di loro vivono in piazza Vittoria, nel cuore di Atene. Giorno e notte. Zahid, nonostante sia appena stato dal barbiere, ha il volto stanco, sfinito. Stessi vestiti, che non ha i soldi per cambiare. Sa che non può tornare a Patrasso, che rischierebbe di essere nuovamente arrestato, che vivrebbe nel costante timore di essere preso dalla polizia e rinchiuso chissà dove. Ma sa anche che in Grecia non può rimanere. Che dopo due mesi ad Atene e quattro a Patrasso, deve proseguire il viaggio. A qualsiasi costo. Destinazione Italia. “Buongiorno, come stai?”. Zahid sorride timidamente, abbassando lo sguardo. Mi chiede com’è la sua pronuncia, mi dice che sta studiando italiano da solo, perchè pensa che sapere qualche parola potrebbe aiutarlo.

Tra qualche giorno partirà assieme ad un gruppo di cinque amici verso Macedonia e Serbia. Sta contrattando con i trafficanti per rotta e soldi, ma l’accordo sembra vicino. Dalla Serbia poi deciderà se tentare la via verso la Croazia o provare verso la Romania o la Bosnia. Chiederà ai tanti amici in Europa che lo stanno aspettando. Per ora, l’importante è partire.

Viaggio solo col telefonino per parlare con la mia famiglia e per orientarmi col gps. Non ho documenti personali all’interno. Quelli li custodisco nella mia mail, a cui non voglio accedere dal cellulare. Non si sa mai che qualcuno me li rubi, che prenda i miei codici di accesso, che si impossessi degli unici documenti che possano dimostrare la mia identità, il mio passato, la mia storia”.

Qui siamo invisibili. Non solo nella vita, ma anche nella morte. Ho molti amici che si sono imbarcati nelle navi verso l’Italia e che ora non sento più. A volte le famiglie pensano che si siano costruiti un’altra vita. Ma purtroppo la verità, molto spesso, è un’altra. Avere una dignità almeno da morti, qui, in Europa, è un lusso che non tutti si possono permettere”.