Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La schiavitù non è un concetto puramente tecnico

L’esclusione dalle forme di protezione aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù

Ho parlato di contatti.
Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, Ia sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite1.

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Il reclutamento di manodopera a basso costo è stato ampiamente incentivato dopo la seconda guerra mondiale attraverso la forza lavoro immigrata. In base alla teoria dei ‘push and pull factors’ gli spostamenti migratori seguono la logica dei fattori di attrazione e di spinta. Le pressioni del mercato globale hanno creato i presupposti per la ‘schiavitù moderna’, congiuntura economica poco favorevole, in cui i fattori di spinta sono determinanti come anche gli immigrati.
Fondamentali nei lavori manuali da esterno, ad esempio, si pensi all’agricoltura, alle imprese di costruzioni, alla cura degli animali e del territorio, e nei lavori domestici o settori come la ristorazione, i servizi alberghieri e i servizi legati alla salute e all’assistenza delle persone. In questa lettura, la schiavitù odierna, dunque, non è una conseguenza del sottosviluppo ma, al contrario, appare nei processi produttivi dei Paesi ricchi perché consente eccezionali profitti ed è una strategia vantaggiosa per l’economia globalizzata.

Lo schiavismo moderno, che nessuna legge internazionale definisce, è un termine ombrello attraverso cui si enfatizzano le commistioni tra la tratta di persone, il lavoro forzato e la schiavitù.

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Lo sa bene questa sanatoria che rifiutando la migrazione come un’esperienza che ingloba tutte le dimensioni dell’esistenza umana, confina il migrante al suo esclusivo ruolo di lavoratore – bracciante.

Infatti una delle sue frasi si impone: «non aspiriamo all’uguaglianza, ma alla dominazione. Il paese di razza straniera dovrà ridiventare un paese di servi, di braccianti agricoli, o di operai industriali. Non si tratta di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e legittimarle2».

Sanatoria che risulta essere ‘il pessimo prodotto della scelta governativa che invece di affrontare il problema nella sua interezza e dal punto di vista primario dei diritti e delle garanzie, ha deciso di muoversi solo per provare a soddisfare le immediate esigenze del sistema economico e produttivo3‘.

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Un permesso di lavoro per 6 mesi, ossia valido il tempo della raccolta che asseconda una rappresentazione dell’io e dei diritti radicalmente gerarchica e definita in base a criteri di riferimento ed orizzonti definiti per cui l’immigrato non ha possibilità di essere classificato, di avere altro spazio all’interno della società di destinazione 4o altro “modo d’essere all’interno del gruppo“, se non quello di essere un corpo – forza lavoro -. Un’etichetta a cui, tuttavia, si pretende ancora di collegare ‘l’entità fisica, psicologica e morale’, ‘uomo’[[Polanyi, 2010. Inoltre, vedi Bales, 2002: «Questa nuova forma di schiavitù imita l’economia mondiale: si sottrae al rapporto di proprietà e all’impegno gestionale fisso, concentrandosi piuttosto sul controllo e sull’uso delle risorse e dei processi. […] Nella nuova schiavitù lo schiavo è un articolo di consumo: in caso di necessità può aggiungersi al processo di produzione, ma non è più un bene ad alta intensità di capitale».]].

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Insomma, ‘un inganno per le migliaia di migranti in attesa della possibilità di emergere dalla condizione di annullamento civile e sociale in cui sono costretti 5’.

Una sanatoria che senza mezze misure vuole mantenere il migrante in una condizione di marginalità, senza concedere il pieno godimento dei diritti fondamentali, attraverso un inserimento lavorativo forma di una integrazione subalterna.

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Sicuramente il sistema di lavoro temporaneo è una forma di restrizione dell’immigrazione. La sua caratteristica è legare l’immigrato a un singolo datore di lavoro e quando ciò accade, lo sfruttamento risulta più semplice. Ed infatti, già questa sanatoria ha alimentato le speculazioni ed i raggiri ai danni di migranti costretti a pagare dai 6.000 agli 8.000 euro per ‘regolarizzare’ la loro posizione sul territorio italiano.
Ovviamente, laddove i datori di lavoro privati ​​hanno un alto grado di controllo sulla capacità di rilasciare un PDS, il potenziale di sfruttamento è un rischio che si auto verifica.

Un lavoro si definisce para-schiavistico perché è connotato dalla totale assenza di libertà decisionale. Il perimetro di tale azione si verifica su due aspetti contrapposti: da un lato è necessario che lo sfruttamento intensivo sia finalizzato a rapidi guadagni, dall’altro vi è la necessità di non degradare troppo la fonte di guadagno stessa (ossia le persone sottomesse) per non renderla inattiva e impossibilitata a produrre ulteriore ricchezza. Per garantire i profitti è necessario, dunque, assicurare un continuo ricambio delle vittime o di quanti accettano volontariamente, o meglio per necessità, tali condizioni lavorative, attraverso impieghi di breve durata.

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Lo stato di sudditanza socio-economico e socio-psicologico, le forme di sfruttamento basate sul dominio e sulla completa coercizione, sono gli elementi che spiegano cosa s’intenda per condizione servile6. Come ben suggerisce questa sanatoria.
È stato osservato che in Europa negli ultimi anni un inasprimento della politica migratoria è stato accompagnato da una riduzione della protezione dei migranti. Dal Global Slavery Index 2018 emerge che, anche nei paesi con risposte apparentemente più forti alla schiavitù, l’esclusione dalle forme di protezione normative, aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù.
La vulnerabilità alle condizioni servile è matematica nelle situazioni e nei luoghi in cui l’autorità dello Stato e della società non è in grado di proteggere i migranti.

Non si tratta, dunque, di un concetto puramente tecnico.

La vulnerabilità alla condizione servile definita, dall’International Organization for Migration (IOM) come suscettibilità ai danni di alcune persone rispetto ad altre a seguito dell’esposizione a un certo tipo di rischio. Le dimensioni in cui si manifesta la vulnerabilità dei migranti sono: fattori individuali (come età, genere, etnia), fattori familiari e domestici (come dinamiche familiari interne), fattori della comunità (come gli atteggiamenti culturali e l’ambiente naturale) e i fattori strutturali (come le strutture legali e una più ampia stabilità sociale) .
La giustizia rientra, istituzionalmente, in quella dimensione discriminante per cui si produce la condizione servile, supportata da politiche restrittive in materia di immigrazione combinate a forti incentivi economici e a salari indegni.
Una “persecuzione burocratica7” che colpisce gli immigrati nei Paesi di destinazione, che contribuisce a definirne la loro diversità e a delimitare, in ultimo, i contorni dell’identità nazionale.

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Si potrebbe pensare che […] l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo per trovarvi un’esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta. Ma non è così. L’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto […] Bisognava comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità della nostra cultura8‘.

I siti di vulnerabilità – ossia le zone dove si verifica il crimine della schiavitù moderna -, le caratteristiche delle vittima (o cosa rende alcuni migranti più vulnerabili a schiavitù moderna di altre?), le caratteristiche del trasgressore e le prospettive del guardiano, sono i riferimenti che spiegano le dinamiche della schiavitù moderna e, nello stesso tempo, i punti su cui intervenire per non commettere questo crimine. Così lontano, così vicino.

  1. Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.
  2. Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.
  3. Cfr. Siamo qui, sanatoria subito.
  4. Bourdieu in Sayad 2002.
  5. Cfr. Siamo qui, sanatoria subito. Inoltre vedi Bartoli, 2012: «Quando l’etnia, la nazionalità, la cultura e la religione non sono trattate come categorie aperte, negoziabili, mutanti, frutto di processi storici, ma come un dato naturale, inalienabile, immutabile, che determina totalmente i comportamenti e le opinioni dell’individuo che vi è rubricato e ne decreta l’incommensurabile diversità dal «noi», allora divengono nomi criptati del concetto di razza. Il diritto finisce dunque per creare, quasi fossero nuove denominazioni di razza, l’identità di “straniero” – che rischia di rimanere tale a vita e non ottenere mai la cittadinanza per residenza, perché questa è basata sullo ius sanguinis e difficile da ottenere anche per i figli degli immigrati nati e vissuti in Italia – e quella del “clandestino”, che è tale per definizione di legge – “La clandestinità è una sorta di status d’eccezione in cui finanche i diritti fondamentali possono essere sospesi”».
  6. Cfr. Carchedi – Mottura – Pugliese, 2015: «Il fattore che la caratterizza è la mancanza di libertà. In questo tipo di relazioni la caratteristica sembra essere la distanza tra le parti in causa, distanza necessaria a mantenere il rapporto sui binari della completa soggezione coatta delle vittime».
  7. Dal Lago, 1998.
  8. Dal Lago, 2004.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.