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La situazione dei rifugiati siriani in Turchia nei pressi del confine siro-turco

Una testimonianza prima dei recenti avvenimenti, a 4 anni dall'accordo Ue-Turchia

La casa della signora di Aleppo. Photo credit: Rosa Rivoltella
Muro sul confine turco-siriano
Muro sul confine turco-siriano

Non sono una giornalista, e nemmeno una reporter; sono un’archeologa; mi sono ritrovata, a causa del mio lavoro, a trascorrere mesi della mia vita in varie località del Medio Oriente. Tra queste, la meta principale dei miei soggiorni era nel profondo sud-est della Turchia, al confine con la Siria; lì mi sono ritrovata nel bel mezzo del conflitto, o conflitti, che hanno interessato quell’area negli ultimi anni. La Turchia, è vero, fino a non molto tempo fa, non era ufficialmente coinvolta in nessuna guerra, ma, si sa, l’ufficialità non sempre corrisponde a verità; inoltre confinando con un paese sconvolto da una guerra, gli effetti si vivono ugualmente, anche se indirettamente.

Io, dicevo, sono un’archeologa. Ma come tutti i lavori o le passioni che hanno come oggetto lo studio dell’umanità, sono mossa prima di tutto dalla sete di conoscenza, dalla necessità di comprensione e poi dalla condivisione del mio sapere. Per questo ho deciso di raccontare qui la mia esperienza nella Turchia di sud-est e sono anche convinta che, da archeologa, sia mio dovere interrogarmi e tentare di comprendere il presente di un paese, accanto al suo passato.

Dall’inizio della guerra civile in Siria, milioni di profughi siriani si sono riversati in Turchia, almeno fino alla costruzione da parte della Turchia di un imponente muro di cemento armato che corre lungo tutto il confine turco-siriano, che ha di fatto cercato, spesso con poco successo, di ‘arginare l’invasione’ e rinchiudere le persone in una morsa fatale. La maggior parte di questi profughi, invece di dirigersi verso l’Europa, si sono fermati in Turchia; secondo le fonti ufficiali i rifugiati siriani sono circa 2,5 milioni, ma stime non ufficiali parlano di quasi 5 milioni.

Durante la permanenza in Turchia, mi sono continuamente chiesta come il paese stesse agendo per fronteggiare questa emergenza umanitaria, e la risposta che ho trovato è quella che si trova più spesso davanti alle difficoltà: l’umanità si adatta, le persone sopravvivono e si abituano al peggio molto in fretta, le vite si incrociano e trovano un equilibrio in autonomia, anche se precario.

Intorno al centro
Intorno al centro

I Siriani si sono mescolati ai turchi e i turchi, o almeno una parte di essi, forti della loro posizione privilegiata ne hanno approfittato. Bastava parlare durante lo scavo con qualche operaio turco: nelle piantagioni di pistacchi, di proprietà di contadini turchi (la coltura più diffusa in quel territorio) venivano chiamati a lavorare i siriani, che, disperati, accettavano salari più bassi del mercato (sui nostri giornali è passata la notizia sugli stagionali delle nocciole sul Mar Nero).

A fronte di questa negatività, ho trovato, come sempre, un piccolo nucleo di persone che cercavano, forse mossi da spirito religioso di soccorso al bisognoso, di fare qualcosa di buono.

A Gaziantep, grande città nel sud della Turchia, sorge un centro che si occupa di rifugiati sostenuto dal Comune Metropolitano ma che opera poi con donazioni fatte da fondazioni religiose. Esso si propone di promuovere integrazione e cerca di far fronte alle situazioni più disagiate. Questo centro si trova nel bel mezzo di un quartiere ‘polveriera‘ della città: prima era abitato da turchi e curdi, dall’inizio della guerra civile in Siria poi anche da siriani.

Andrò due volte in visita in questo centro; in entrambe le occasioni tutti i lavoratori e tutti gli studenti saranno molto gentili, aperti, disponibili e curiosi per la mia presenza.

La prima volta vado durante il Ramadan, Ramazan in turco, e tutti sono in digiuno.
Non appena arrivata noto una lunga fila di donne, che dall’ingresso arriva fino ad una stanza all’interno dell’edificio; le donne sono tutte vestite di nero, velate dalla testa ai piedi, alcune indossano anche i guanti, neri; mi spiegano che sono in fila per ricevere la razione di carne che viene consegnata loro in buste di plastica nera; sono tutte vedove, tra di loro noto una ragazza molto giovane e molto bella, con un bambino per mano. Chissà perché sono vedove, lo sono diventate a causa della guerra o lo erano anche prima? Tra di loro c’è anche un bambino di circa 7 anni, solo; in un primo momento penso subito al peggio, sarà orfano?, poi mi spiegano invece che i suoi genitori sono portatori di handicap e quindi viene lui a prendere la carne.

Incontro poi Omer, un ragazzo turco che lavora nel centro; parla inglese e quindi sarà il mio punto di riferimento; sta facendo il digiuno anche lui, è orfano ed è stato cresciuto dallo Stato; ad un certo punto gli chiedo se è un problema se fumo una sigaretta, e lui mi dice tranquillamente: “No assolutamente! Anche io fumo quando non è Ramazan“. E mi dice: ‘Me lo chiedi in maniera quasi spaventata, tu qui puoi fare quello che vuoi!’. Io gli rispondo che temo semplicemente di mancare di rispetto; anche la seconda volta Omer starà con me per tutto il giorno, ma al momento del saluto non mi porgerà la mano.

Mi avvicino ad un gruppo di bambine di circa 7-8 anni, tutte velate; stanno aspettando di andare a lezione; sfogliano un opuscolo scritto in arabo; chiedo: “Cosa state leggendo?” e loro mi rispondono: “Il Corano. Ci piace molto!“.

Bimbe prima della lezione di Corano
Bimbe prima della lezione di Corano

Il direttore del centro mi porta poi in visita all’edificio; dislocate su due piani ci sono varie aule destinate a varie lezioni, che vengono offerte sia durante il normale periodo scolastico, come doposcuola, sia durante l’estate; i corsi sono molteplici: musica, disegno, sport, arabo, turco, e ovviamente lezioni di Corano; gli insegnati sono sia turchi che siriani, e ricevono uno stipendio di 700 lire turche più eventuali donazioni dell’ente religioso che opera con questo centro; le lezioni sono rivolte sia a studenti turchi che siriani.

Il direttore ci tiene a sottolineare che i loro corsi di arabo non sono diretti solo ai i turchi che desiderano impararlo, ma soprattutto agli stessi siriani: i bambini infatti, a forza di parlare turco, si stanno dimenticando l’arabo; è un peccato, dice, perché stanno perdendo la loro identità; questi bambini, crescendo, non saranno né siriani né turchi.

Mi spiega che le ragazze sono più numerose: la maggior parte dei ragazzi infatti, anche molto piccoli, vanno a lavorare; della portata di questa realtà mi renderò conto solo più tardi.

Il disegno di Omar
Il disegno di Omar

Conosco poi l’insegnante di disegno, siriano; nell’aula ci sono molti disegni fatti dai bambini, tutti disegni che ci si aspetterebbe da bambini di tutto il mondo; tranne uno; è il disegno di Omar, 8 anni: su uno scenario apocalittico con palazzi distrutti e in rovina e aerei da cui cadono bombe, si apre una distesa di corpi martoriati, sanguinanti, senza testa, senza arti; l’insegnate mi dice, con sguardo rassegnato: “Disegnano quello che hanno visto, quello che hanno dentro, Omar ha dentro questo“.

In un altra stanza, invece, c’è un modellino 3D della città ideale che questi bambini vorrebbero: una moschea con il suo minareto, palazzi, giardini, campi da pallacanestro, alberi, macchine parcheggiate e fontane; rimango attonita e mi commuovo davanti a questo desiderio di normalità, una realtà davvero diversa da quella che questi bambini, evidentemente, si sono abituati a vivere.

Modellino della città
Modellino della città

Alcuni dei ragazzi del centro si occupano delle relazioni dirette con il quartiere e con le persone che lo abitano; compiono ‘ispezioni’ settimanali per individuare e monitorare le situazioni più drammatiche; dopo la visita alla struttura li accompagno, e mi porteranno con loro anche la seconda volta.

Andiamo a conoscere una famiglia che abita in un negozio: sì, quello che prima era un negozio formato da una stanza, con tanto di saracinesca in ferro, adesso è la loro casa; mi spiegano che i turchi affittano a prezzi altissimi i loro negozi ai siriani, che ci si trasferiscono con tutta la famiglia, spesso numerosa: loro infatti sono in tutto 14, hanno 12 figli! Sono stati sfortunati, mi dicono, perché hanno avuto 3 coppie di gemelli!

Un negozio adibito a casa
Un negozio adibito a casa

La seconda volta andiamo in visita da Shirin, una ragazza curda originaria di Kobane, molto giovane, con due figli; davanti a casa sua fotografo una ‘abitazione‘ ricavata sempre da un negozio; su un filo davanti ad essa, usato per stendere i panni, è ad asciugare un camicione che un tempo doveva essere bianco inamidato; subito schizzano fuori i proprietari, due arzilli anziani, infuriati perché non vogliono essere fotografati. “Chi siete?! Che cosa volete?!”. Pare che una volta si siano riconosciuti in televisione e la cosa non è stata gradita.

Shirin ci accoglie in casa sua, in maniera educata perché siamo ospiti, ma palesemente contro voglia; dal livello stradale si scendono tre gradini, e si accede al piccolissimo ingresso, con un soffitto bassissimo, da cui si diramano i tre piccoli ambienti che compongono tutta la casa: il soggiorno, la camera da letto e la cucina.

La casa di Shirin
La casa di Shirin

La ragazza curda è molto fiera, scontrosa, ci sbatte sul materasso su cui siamo seduti i suoi documenti per far vedere che quello che dice è vero; ha chiamato i suoi due figli, un bimbo e una bimba, Levent e Elanu, come i protagonisti di ‘Doktor Ler’, una soap turca molto famosa; il marito guadagna 325 lire turche a settimana, pagano 200 lire di affitto più 100 di spese; Shirin è fortunata, perché casa sua, a differenza di molte altre del quartiere, ha anche il bagno.

Vicino a Shirin abita Abdul Hamit Hud, di Homs; è dal 2014 in Turchia, in Siria faceva il contadino; paga 350 lire di affitto, più 150 di spese; adesso non lavora e non mi è chiaro come faccia a sopravvivere; è lì con la moglie e un numero non meglio precisato di figli piccoli.

Anche lui ci accoglie nella sua abitazione: essa è composta da una stanza al pian terreno di un palazzo umido e scalcinato; per ovviare alla mancanza di spazio, si sono allargati nell’androne delle scale, dove hanno steso a terra dei materassi che fanno da divano (e, sospetto, da letto a qualcuno la notte); hanno anche attaccato uno spago che fa da attaccapanni e da stendino.

La casa di Abdul
La casa di Abdul

È un uomo di poche parole, dice solo l’essenziale incalzato dalle domande che noi gli porgiamo, e il suo silenzio predomina sugli schiamazzi dei suoi figli; si vede che gli vogliono bene e che lui vuole bene a loro; lo cercano e lui risponde, ma ha negli occhi la triste resa di chi non ha la forza di reagire.

Sempre lì vicino, visitiamo una signora che ha 9 figli, di cui una con evidenti problemi fisici (le fisseremo successivamente un appuntamento per curarne la sindrome ma non si presenteranno in ospedale); il marito guadagna 1000 lire al mese, lavora in una fabbrica di plastica 6 giorni alla settimana per 11-12 ore al giorno. Anche lei è piuttosto fortunata, visto che casa sua conta ben 3 stanze, grandi e ben illuminate.

Sia la prima che la seconda volta, ci rechiamo in visita da una signora di Aleppo. Sono voluta tornare con l’intenzione di filmare il suo racconto, ma lei, come tutte le altre donne, non ha voluto essere fotografata né filmata, per motivi religiosi.

Anche lei abita un negozio: ingresso, cucinino essenziale lungo e stretto e una stanza che funge da camera da letto la notte, da salotto di giorno, e da bagno quando si devono lavare, visto che il ‘bagno’ vero e proprio è costituito solo da una turca. Abita qui con il marito e 4 figli: un neonato, uno di 3 anni, uno di 7 e una di 14; è arrivata in Turchia un anno prima; le ho chiesto come avesse affrontato il viaggio, forse in macchina? domanda stupida; lei mi risponde: “Macché macchina, sono venuta a piedi con mio marito e i miei figli, d’inverno, sotto la pioggia; ero così stanca che mi sembrava di avere le gambe rotte, non riuscivo nemmeno più a camminare; non avevamo acqua, e per bere succhiavo i capelli del mio bambino che tenevo in braccio“.

La casa della signora di Aleppo
La casa della signora di Aleppo

Una volta superato il confine tra Siria e Turchia, i trafficanti hanno chiesto più denaro di quello pattuito, il doppio, minacciandoli di farli tornare in Siria se non avessero pagato; hanno trovato miracolosamente un parente che ha prestato loro il denaro, e sono riusciti a passare; le ho chiesto se, avendone la possibilità, sarebbe voluta tornare in Siria; lei mi ha risposto che probabilmente rimarrà in Turchia: ad Aleppo aveva due case, ma non sa se siano state risparmiate dai bombardamenti; paga 250 lire al mese di affitto, non ha ancora i documenti e quindi non può ancora richiedere gli aiuti allo stato; i due figli più grandi, anche la ragazza, lavorano nei campi come braccianti; la seconda volta che sono andata a trovarla mi ha detto che erano giorni che non andavano a lavorare perché avevano gli occhi infiammati a causa dei pesticidi.

Ma è fiduciosa, spera che con il tempo il marito troverà un’occupazione stabile o quasi, e nel frattempo cercano di migliorare la loro situazione come possono, ad esempio riverniciando la stanza dove vivono, o fabbricando i cuscini che corrono lungo tutte le pareti della stanza.

Alla fine della seconda giornata di visita, mi reco da un giornalista turco, Aykut Tuzcu (ne posso rivelare il nome perché purtroppo è morto un mese fa). Ho discusso con lui della ‘questione siriana’ nella sua bella casa, arredata con stile e gusto, agli antipodi delle bettole abitate dai siriani; è chiaro che sia una situazione davvero complicata: questi milioni di persone, se decideranno di rimanere in Turchia e non far ritorno a casa, cosa faranno? Rappresentano mano d’opera specializzata e a buon mercato che viene prontamente sfruttata dai turchi; molti giovani non sono inseriti nel sistema educativo: la maggior parte dei bambini e dei ragazzi non va a scuola ma a lavorare, e rimarranno quindi privi di istruzione, e allo stesso tempo molti subiranno discriminazione e sfruttamento da parte dei residenti: quale bacino più fecondo per la radicalizzazione? E nel frattempo le giovani ragazzine, o anche bambine, siriane, vengono date in sposa dalle famiglie a uomini turchi adulti: in Turchia è diventato un modo di dire: vado a Gaziantep a prendermi una giovane sposa siriana.

Sono passati due anni da questa mia testimonianza e tutto, intanto, è cambiato politicamente nella crisi siriana, restando uguale e peggiorando: del futuro non so molto se non che se l’Europa resterà passiva per tutte le persone che ho incontrato, deboli per definizione, non vi sarà quasi nemmeno la speranza di un avvenire migliore per sé e le proprie figlie e figli; quello che fa più male, in questi giorni in particolare, è vedere come queste persone, madri, padri, figli, nonni, siano diventati un mero strumento di ricatto da parte di Erdogan nei confronti dell’Europa.