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La verità, le storie dietro la parola “migrante”

Reportage dalla jungle di Dunkerque

Photo credit: Selene Lovecchio

Consegnare la parola ai e alle migranti senza necessariamente dipingerle attraverso il nostro occhio è la migliore modalità per conoscere realmente queste persone e la loro storia. Spesso quest’argomento è ridotto alle narrazioni tossiche o benintenzionate dei media, ricoperte di una patina non totalmente soddisfacente o confacente la realtà. Consegnare loro la parola permette di catturare un racconto diverso e più complesso. Ad un’analisi leggermente più approfondita si nota come la narrazione mediatica non concede quasi mai la parola direttamente ai rifugiati e migranti, su questo il Settimo Rapporto dell’Associazione Carta di Roma compie un’analisi sulle “voci dell’immigrazione” stabilendo quante volte sono i migranti stessi a parlare della loro condizione e quali diverse modalità di “intervista” è possibile riscontrare nei media italiani. Oltre a questo, si può sviscerare più a fondo il perché dello spostamento, cosa le persone sperimentano prima, durante e dopo lo spostamento, le disuguaglianze globali, i fattori chiave del perché i rifugiati si trovano dove sono, quali i motivi scatenanti (spesso non conseguenza di una scelta), le dinamiche della comunità ospitante e il rapporto con la stessa, i loro bisogni o le loro aspirazioni.

La forza di chi decide di migrare è ineguagliabile. Immagino l’ultima sera, il giorno prima di una decisione così grande: partire, iniziare il lungo e tortuoso viaggio consapevoli di tutte le insidie; consapevoli che dopo il vero viaggio, nel paese di destinazione ne inizierà un altro, forse anche più difficile, dell’accettazione, l’inclusione, l’eterna attesa delle richieste d’asilo, attese che durano anche anni al termine delle quali spesso la risposta è negativa.

Un antropologo di nome Sharham Khorsavi conia diversi termini per spiegare l’emarginazione, il rifiuto e il timore del migrante, spesse volte dovuto all’esacerbarsi dei media. Khosravi descrive le caratteristiche distintive di una sub-categoria sociologica, nonché la condizione giuridica di “profugo”. Il termine “profughizzazione”, ad esempio, indica tutte quelle pratiche, non solo discorsive, ma l’intera tendenza ad universalizzare il profugo a un “tipo” specifico di persona. Questa pratica linguistica e sociologica trova i suoi riscontri anche nelle pratiche legali e negli “stratagemmi” utilizzati per dare credibilità a una storia che non necessiterebbe di ulteriori spiegazioni. Un profugo deve apparire in un certo modo, vestito in un certo modo, deve assumere determinati comportamenti, deve trasudare sofferenza e dolore; deve essere “altro” da noi, ed è una visione talmente instillata che viene utilizzata come pratica normale, accettata.
Tutte pratiche che, naturalmente, non fanno altro che allontanare invece che rimarcare l’umana e naturale uguaglianza. Le conseguenze dell’alterità e della distorta concezione che lo stesso migrante arriva ad avere di se stesso è dovuta anche a quell’eterno limbo creato tra noi e loro attraverso la pesantezza di sguardi fin troppo penetranti che vogliono dire “sei altro da me”, il migrante è un “non-io”, un uomo senza identità e un luogo da riconoscere come casa. È un uomo che non ha più molto potere sulla propria identità. “Lo sguardo non consiste nell’atto semplice e naturale del guardare; è un episteme che determina chi e cosa è visibile e invisibile” e lo sguardo riservato al migrante riesce a determinare entrambe le cose: agli occhi del soggetto il migrante è invisibile, ma lo “sguardo di confine”, così come lo definisce l’antropologo, è pesante e percepibile, rendendoti dunque visibile e vulnerabile. La società lo riduce all’invisibilità ma al tempo stesso osserva ogni sua mossa.

I ragazzi di Dunkerque sono pieni di speranza, parlano di “terre promesse” quali l’Inghilterra, con la speranza che potrà essere più facile raggiungerla, e nel frattempo si legge di nuovi accordi bilaterali tra i due paesi, della volontà di rafforzare i controlli alla frontiera. Uscendo dall’Unione europea, l’Inghilterra non aderisce più alle regole confacenti l’Accordo di Dublino, per questa ragione non ha più la possibilità di mandare indietro i migranti nei primi paesi europei nei quali hanno rilasciato le impronte digitali.

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R. è uno degli innumerevoli esempi di persone bloccate in fase di stallo nei paesi di prima entrata, nei quali costruiscono delle vite, trovano lavoro, amici e a causa dei difficili e lenti cavilli burocratici si ritrovano a dover annullare tutto ciò che con fatica hanno costruito. R. è entrato in Italia nel 2017, ha rilasciato le sue impronte digitali ma il suo desiderio era la Germania. Riesce ad arrivarci e a viverci per un anno e sette mesi, dopodiché viene rimandato in Italia, essendo il suo primo paese d’entrata nell’Unione europea. Ha vissuto a Venezia due anni, mi racconta che appena arrivato ha dovuto imparare un po’ di italiano alla sera, seguendo alcuni video su youtube. A parte le difficoltà iniziali si trovava bene, aveva un lavoro e gli piaceva la città. Ogni giorno mi chiede di parlargli in italiano, non lo vuole dimenticare, e insieme ascoltiamo i testi di Fabrizio De Andrè, cercando di tradurre le parti che non riesce a capire. Fece richiesta d’asilo e dopo due anni ricevette il risultato: negativo. Due anni sono sufficienti per stabilirsi in una nuova città, trovare un lavoro e iniziare a sentirla come casa propria.
E invece no, dopo due anni “vai via dall’Italia”, così lo incontro qui, nella jungle di Dunkerque, ancora con la vita spezzata, ancora con dei nuovi piani da costruire, ancora nel vano tentativo di attraversare una frontiera. Punto, e a capo.

R. è anche un artista, mi ha mostrato le foto dei suoi dipinti e disegni, sono tutti lì, appesi sulle mura della sua casa a Venezia, che ha dovuto lasciare all’improvviso. Sono appesi come reliquie di una vita nuova appena iniziata ma stroncata sul crescere, i dipinti aspettano lì, curati e conservati da un suo amico, pronto a spedirglieli nella nuova casa che avrà, quando riuscirà a raggiungerla.

Questo è migrare. Iniziare una nuova vita, lasciarla. Iniziarne un’altra, e un’altra ancora, cercando di conservare alcuni pezzi di ognuna, nella speranza di poterli incastrare di nuovo tutti insieme. Ma non perde mai la speranza e l’energia di non sprecare nemmeno un attimo del suo tempo; “but you said is love, and with love you can do anything“, mi dice, ricordando a se stesso la chiave per non arrendersi, far caso all’amore delle persone, che in un contesto difficile quale quello delle jungle ai confini, ti ricorda di non essere solo, restituisce l’energia per “provare” di nuovo.

Oltre a lui c’è Y., che sogna di aprire un ristorante iraniano in Inghilterra, vive in Francia da quattro anni e frequenta la scuola, ma non è qui che vuole cominciare la sua vita.

C’è K., undici anni, che mi dice “andremo in Inghilterra, ma poi basta eh, che sono stanco e voglio andare a scuola, mi piace studiare, imparare cose nuove”; c’è A. che è qui da qualche giorno e piange tutte le notti non tanto per aver lasciato l’Iraq, ma per l’Italia. Ha vissuto 4 anni, tra Lecce, Luino e Varese, ha una moglie e una bambina in Iraq che aspettano solo di ricongiungersi, “ma come si fa? Se dopo 5 anni sono di nuovo qui al punto di partenza? Gli avvocati non hanno creduto alla mia storia e ogni notte, credimi, piango per l’Italia”, mi chiede poi la logica, cerca di chiedermi perché mandare via le persone proprio dal posto in cui è stato rispedito a causa delle impronte, prova a indagare nella logica illogicità di queste dinamiche, senza venirne a capo.

I ragazzi mi raccontano anche delle loro vite nei paesi d’origine e delle ingiustizie, del malfunzionamento dei servizi, e tra le tante la storia di Khaled mi ha colpito particolarmente. Durante l’anno 2019 la città di questo ragazzo è stata colpita da un terremoto dalla potenza di 7.3 magnitudo: “Several families have not yet been able to rebuild their homes and are still living in huts or tents. At that time, my other friends and I were working as citizen journalists and communicating the earthquake to the people of the world. My young friends and I, like you, helped people in need to find tents or shelters and food […] The government of the Islamic Republic did not help the people of my city in censorship because we are kurds (kurdish). My friends and I communicated the destruction of our city to the world by taking countless videos and photos by Social media. The countless donations came to our people from cities around the world, and my friends and I worked hard to organize public donations, but the government of the Islamic Republic took most of them from us and sent them to terrorists in other countries.
I wanted to say that when I see people like you in this forest who come to our aid as refugees, I remember those days of myself and my friends. We must help each other all the time, today is me, tomorrow could be you
“.

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Mai nella vita sono ancora riuscita a trovare una persona più genuina, più pura e vera di una persona che migra, strappata da ogni normalità e quotidianità umana e che lotta per riaverla, strappata di ogni prima necessità e che è bloccata ai confini, felice di vedere ogni giorno queste persone che cercano di dare una mano, che cercano di essere lì per loro. Mai ancora mi è riuscito di comprendere dove assaporare la vita nella sua natura più profonda, nella sua pienezza e naturalezza come in questi luoghi, nella terra, nello sporco di una vita vissuta al limite, soddisfacendo solo ciò che è primordiale, una vita vissuta a bocconi troppo veloci tra una pioggia e l’altra, di un luogo abitato da centinaia di persone che non vogliono accettare quei luoghi come “casa”, e dunque li disprezzano, li inquinano, li maledicono, e al tempo stesso li vivono nelle danze tipiche delle loro origini, tra le foto e i racconti delle ormai lontane radici, pronti a partire ogni giorno.
Sono persone queste che hanno già vissuto ovunque, c’è chi per mesi, c’è chi per anni, e che ora si ritrovano di nuovo al punto di partenza.

I ragazzi tra di loro ogni tanto si chiamano “Habibi”, si prendono cura l’uno dell’altro, e questo lo si può vedere ovunque. Habibi è un termine in lingua araba che significa “amore mio”, “caro”, “tesoro”, utilizzato in forma affettiva riferendosi alle proprie persone speciali. Nel campo, chiedo a un ragazzo di 19 anni se è da solo, se è in viaggio da solo, e lui mi dice “no, sono con H.”, alla mia domanda “siete venuti insieme?” mi risponde “no, l’ho conosciuto qui nel campo, ed è come se fosse mio fratello maggiore”.

C’è un gruppo proveniente dalla Somalia, è interessante il fatto che parlino un po’ di italiano a causa della colonizzazione del popolo somalo da parte dell’Italia. Durante una conversazione con uno di loro mi racconta che lavorando per Iveco conosce a memoria in italiano tutto il lessico che descrive le parti di una macchina, l’ho trovato un aneddoto molto divertente da ricordare.
M. lascia la Somalia nel 2019. Oggi, 7 luglio 2021, mi racconta la sua storia, qui nel campo di Dunkerque. M. ha perso il padre e lo zio, entrambi sono stati strappati da lui in maniera brutale, trasudante di ingiustizia: “My father died in a fight between two communities on his way to the mosque. My father’s brother was working for the government and his car was blown up, meaning my uncle died”.

M. è stato in Turchia, in Grecia, e ha attraversato il confine con l’Italia. Sono dunque tre anni che cerca di raggiungere l’Inghilterra, rimanendo bloccato per anni nei diversi Stati appena citati. Ha tre sorelle, più grandi di lui e che lo stimano, lo ammirano. Lui vuole arrivare in Inghilterra, studiare e lavorare al tempo stesso, “così potrò mandare loro dei soldi mensilmente e aiutarle, Inshallah”.
Mi dice “sono stanco, spero che negli UK i diritti umani vengano rispettati di più e che mi aiutino, sono da solo“. Dopo avermi raccontato la sua storia mi chiede una crema per i suoi capelli ricci che non riesce a gestire e domare vivendo nel campo, trovando con me un punto di incontro e di comprensione, avendo io stessa i capelli ricci. È una dinamica semplice, che ci accomuna su qualcosa di quotidiano come curare i propri capelli, che ci ha avvicinati in un momento di necessità. Una necessità che non è primaria come quella dei sacchi a pelo o di una tenda per ripararsi e che quindi è riuscito a chiedere solo a me in un momento di apertura, una richiesta privata e intima. Oltre a questo, mi sorprende chiedendomi come stessi, gli rispondo “bene”, e lui “okay, if you’re good I’m good”.

Questo viaggio è pieno di consapevolezze, a volte coperte da un sottile strato di ingenuità colma di speranza, altre volte da cruda volontà di conoscere la realtà il più approfonditamente possibile per affrontarla al meglio.
Queste persone sono anche consapevoli della facilità con la quale si può perdere la speranza, consapevoli che una volta voltata quella pagina tutto diventerà remoto, la famiglia, e tutto ciò che sarà motivo di incurabile nostalgia.

Emmanuel Carrère scrive in Limonov “abbandonare una vita conosciuta da sempre per un’altra da cui si spera molto ma di cui non si sa nulla”.

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Selene Lovecchio

Laureata in Linguaggi dei Media, attualmente attivista e studentessa magistrale di Scienze Internazionali, Human Rights and Migration Studies. Aspirante ricercatrice e giornalista.
Sono interessata alle migrazioni, all'agribusiness e ai temi politico-sociali. Viaggio tra i confini, mi sporco le mani e scrivo.