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La vita al campo di Idomeni: una testimonianza di volontariato al confine greco macedone

Un racconto di Elisa Ghezzi con alcuni aspetti di quanto vissuto ad Idomeni

Fotografie di Elisa Ghezzi

Il primo impatto con Idomeni non è visivo: veniamo introdotti dall’odore sempre più penetrante di plastica e rifiuti che vengono bruciati durante una breve finestra di pausa dalla pioggia. Gli occhi lacrimano e si fa fatica a stare vicino ad alcune tende, mentre vediamo che su quei fuochi alcune famiglie cucinano o scaldano i cibi distribuiti dalle ong; sono i bambini a tenere vive le fiamme con i paletti delle tende ormai rotte. Sembra inevitabile che i rifiuti vengano bruciati: in tanti punti del campo il primo cassonetto è a più di 1 km di distanza, è quindi naturale che si accumuli tutto tra le tende e periodicamente si bruci accendendo il fuoco con la plastica perché tutto è fradicio.
E’ un odore che non ci abbandonerà più durante tutta la nostra permanenza.

Anche l’impatto visivo è altrettanto forte: distese di tendine piantate nel fango, difficile farsi un’idea della reale estensione del campo camminando lungo i vialoni principali; ogni piccolo nucleo porta ad un altro nucleo in una logica chiara della ricerca di uno spazio decente per vivere non troppo lontano dai seppure minimi servizi che il campo offre.

Le tende sono fradice e ovviamente infangate; non parlerò più del fango perché è come parlare di sole nel deserto: è ovunque, nell’interno delle tende, sui vestiti, dentro le scarpe, sulla pelle.

I rifugiati ci invitano a vedere gli interni delle tende (in tanti ci offrono il tè o qualcosa da mangiare, molti cucinano all’interno delle tende stesse con fornelli a gas, altri per terra all’esterno, accasciati sul terreno dove poi mangeranno): in quasi tutte troviamo acqua sul fondo, anche diversi centimetri. Per arginare vengono messe coperte su coperte, nella speranza che quella superiore si inzuppi di meno.
Le tende sono molto piccole, un igloo da due persone viene dato a famiglie di cinque, si fanno turni per dormire e nelle tende lo spazio è comunque minimo visto che devono essere messi al riparo anche i bagagli, queste persone viaggiano con tutta la loro vita appresso.

L’altra costante del campo sono le code: si fa la fila per tutto, per il medico, per la distribuzione di due arance e latte in polvere alle famiglie con bambini piccoli, per un bicchiere di zuppa; la parola che sentiamo dire più spesso (e che ci troveremo a dire anche noi a malincuore) è “ma fi”, non ce n’è più.

Ci stupiamo dalla scarsità di ong: chiarissima la presenza di MSF che gestisce anche larga parte della logistica del campo, qualche operatore di Save the Children, vediamo un container dell’UNHCR ma nessuno dei loro operatori che si aggiri tra le tende e tante piccole associazioni indipendenti impegnate nella distribuzione mirata (che nella pratica vuol dire prendere nota dei bisogni famiglia per famiglia) di pasti e vestiti: sono le associazioni che si ritrovano al Park Hotel di Polycastro, che ci dicono essere stato prima albergo degli smugglers, i trafficanti di esseri umani e ora camaleonticamente messo a disposizione delle associazioni che operano ad Idomeni (un caffè 2€, stanze completamente piene fuori stagione, diciamo che gli affari vanno a gonfie vele per i proprietari di questo albergo situato in posizione strategica).

Noi lavoreremo con Lightouse relief, che già ha lavorato a Lesvos e che si occupa della distribuzione presso la Eko petrol station (altre 2.000 persone anche lì sulla strada che da Polykastro porta al campo principale) e di far da supporto alle altre associazioni che vivono tutte sulla collaborazione reciproca, ma seguiremo anche un progetto indipendente. Quello che ci avevano detto sul doversi arrangiare e saper essere indipendenti per essere utili è assolutamente vero: cominciamo a raccogliere la spazzatura, ma nel magazzino MSF sono senza sacchi neri, e un camion si è infossato seguendo la marcia dei 1.500, bisogna inventarsi una soluzione per non perdere il pomeriggio. Sarà così anche i giorni seguenti, occhi aperti e flessibilità. Non è la prima situazione di questo tipo nella quale ci troviamo ma è senza dubbio la più caotica e impegnativa dal punto di vista fisico e mentale.
Ci accorgiamo che appena cominciamo a girare a vuoto sale l’ansia, il modo migliore per sopportare la vista di un campo che è una città vera e propria nei numeri è di sentirsi utili.
Ci sono un paio di troupes televisive e qualche fotografo, qualche coppietta che cammina sulla strada principale e si guarda intorno; è la prima volta in vita mia che sono contenta di vedere curiosi in un luogo drammatico perché dal nostro arrivo la mia ossessione è diventata quella della condivisione, forse esasperata dalla presenza della ferrovia e dall’amenità del paesaggio circostante che mi continuano a portare alla mente il campo di Buchenwald, anche se cerco di respingere tutte le associazioni che la mia mente mi propone.

Da mercoledì la situazione cambierà rapidamente, i tre morti e le polemiche suscitate dalla marcia dei 1500 che lunedì hanno passato il confine attraversando il fiume, porteranno al paradosso di avere più cameraman, fotografi e giornalisti che volontari. Anche le associazioni che lavorano sul campo aumenteranno, in parte forse anche grazie alla copertura mediatica, in parte erano arrivi già programmati; cominciano a vedersi anche operatori UNHCR, suppongo addetti stampa perché l’unica attività nella quale li si vede impegnati pare essere rispondere alle interviste televisive…
Gli operatori del Czech Team con il quale avevamo collaborato a Šid, Serbia, ci dicono che hanno raccolto l’appello di uno dei partecipanti alla marcia verso la Macedonia, rimandato indietro dalla stessa strada dalla quale era passato, il fiume: i suoi compagni sono stati trattenuti dalla polizia e nel container dell’UNHCR non hanno voluto accogliere la sua segnalazione. Lo accompagneranno al container (confermando che, come sempre, la presenza di un occidentale purtroppo fa la differenza) e si recheranno insieme a lui e agli operatori UNHCR al commissariato di polizia e i suoi compagni verranno rilasciati dopo poche ore.

Purtroppo cominciano anche gli interventi improvvisati: vediamo macchine distribuire vestiti e merendine lungo il vialone creando situazioni paradossali con 50 persone che si accalcano in pochi secondi attorno alla vettura, salendo quasi le une sulle altre, anche bambini (!), senza neanche sapere cosa venga distribuito. Camion buttano dall’alto sacchetti di vestiti, la gente si accalca anche lì, li vediamo aprire i sacchi, scegliere i vestiti utili e usare per accendere il fuoco quelli che non servono.
Questi interventi sono inutili e pericolosi e cambiano in breve la gente del campo: ora di giovedì sera non ci si potrà muovere tra le tende senza sentire il ritornello “my friend, one, one!” anche se si gira a mani vuote. In pochissimo tempo si trasformano persone in mendicanti, è orribile e, oltretutto, in questo modo sono solo i più forti ad accedere ai benefici. Ancora più pericoloso per i bambini che girano liberi per il campo: abituati a seguire gli occidentali nella speranza che qualcuno dia loro qualcosa diventano una facile preda per qualunque malintenzionato. Chiunque potrebbe farne quel che vuole e la diffidenza è purtroppo una delle poche armi di difesa che questi bambini potrebbero avere e in breve viene meno anche questa forma di protezione. I bambini ci mimano le bombe siriane e le botte dei poliziotti (“police bad bad”), i loro giochi prendono sempre una piega violenta dopo i primi minuti; la loro vita lo è stata fino ad ora e, a voler vedere, lo è anche adesso. Molto diversa la situazione rispetto a quella di Šid solo un mese fa: nei loro disegni il soggetto preferito erano allora le case e le bandiere del loro Paese e del Paese in cui volevano arrivare.

Incontriamo tantissime persone, siamo pieni di tantissime storie, ma forse il più straziante è un padre afghano senza una gamba, giovanissimo con due figli piccoli; la sua tenda è una delle peggio messe nell’ala più allagata del campo, impossibile per lui spostarsi con la stampella.
Ci chiede consiglio sul da farsi, tergiversiamo; insiste chiedendo cosa faremmo noi al suo posto. Gli sono rimasti in tasca 300€, nel migliore dei casi rimarrà stranded ad Idomeni.

I dintorni sono pieni di accampamenti, ogni casa vuota è utilizzata dai rifugiati per dormire e vengono anche piantate tende all’esterno. La pompa di benzina di Idomeni, dove un cartello gigante scolorito recita “WELCOME TO GREECE“, dà rifugio a poco meno di altre mille persone.

Mentre rientriamo in Italia cominciamo già a parlare di ritornare qui il prima possibile, anche se abbiamo un dubbio che stiamo cercando di chiarire a noi stessi: ha senso dare riparo, cibo e, più in generale, aiuto a chi non vuole nessuna di queste cose, ma semplicemente chiede la dignità di poter essere nuovamente padrone della propria vita e passare un semplice cancello (perché quello è l’aspetto del confine che fino alla chiusura della rotta balcanica si oltrepassava, un cancelletto nella muraglia di filo spinato) e da quel cancello accedere all’Europa?