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Rubrica: Speciale Hotspot

Lampedusa, "Mandateci via da questa prigione"

Di Giacomo Zandonini, Repubblica.it

Scesi in piazza ieri, nel centro di Lampedusa, per chiedere di poter lasciare l’isola, dove sono bloccati da mesi, più di 70 rifugiati sono in sciopero della fame e della sete contro le identificazioni e il “sistema hotspot”. Altri 400 persone sono sbarcati sull’isola in 24 ore.

LAMPEDUSA - Sono i stati i primi a svegliarsi nell’isola, spruzzati di sale da un’aria tesa, nata con uno scirocco tiepido per diventare vento di levante misto a pioggia. Usciti alla spicciolata nel pomeriggio di venerdì dal centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola, oggi trasformato in hotspot europeo, circa 70 rifugiati etiopici, eritrei, somali, sudanesi e yemeniti hanno dormito nel piazzale della chiesa, affacciati sul “corso” di Lampedusa, quella via Roma, che punta dritta a nord-est, verso un’Italia che vorrebbero terra di transito. Bloccati da mesi sull’isola, sono decisi a dormire fuori, “senza mangiare né bere, fino a quando non ci sposteranno in Sicilia”.

“We are refugees, we need freedom”. ‘Siamo rifugiati, abbiamo bisogno di libertà’, ‘Vogliamo andarcene da questa prigione’. Scritte a penna, sulle lenzuola di carta del centro, le richieste dei migranti residenti nella struttura di Contrada Imbriacola hanno attirato l’attenzione dei lampedusani, abituati a piccoli gesti di solidarietà verso gli ospiti dell’isola - dalla connessione wi-fi in bar e spazi comuni a lezioni di lingua improvvisate - e solo in piccola parte ostili a chi approda qui, dopo viaggi estenuanti attraverso nord Africa e Medio Oriente.

In protesta contro l’hotspot. Iniziata venerdì 6 maggio, la protesta è la terza da quando, nel settembre 2015, l’ex-centro di primo soccorso e accoglienza, incassato in una valletta nell’interno dell’isola, è stato dichiarato hotspot, primo delle dieci strutture oggi attive a livello europeo (5 in Grecia e 5 in Italia). Cittadini eritrei che, secondo le procedure di relocation previste dall’Agenda sulle Migrazioni della Commissione UE, potevano essere trasferiti verso altri paesi europei, erano scesi in strada a dicembre e gennaio per criticare un sistema che, nei fatti, gli avrebbe costretti ad accettare la meta scelta dai funzionari dell’Unione.

Bloccati dalle impronte digitali. Nodo centrale della protesta è quello dell’identificazione, tramite rilascio delle impronte digitali. “Se ci identificano qui, dovremo restare in Italia, mentre abbiamo conoscenti e amici in altri paesi”, spiega in un inglese scolastico Abdi, ventenne etiopico. Arrivato sull’isola a gennaio, dopo aver attraversato Sud Sudan, Sudan e Libia, come tutti i presenti ha rifiutato lasciare le impronte, “e ora sono bloccato qui, senza nessun documento, senza diritti”. A preoccupare il giovane sono anche le relazioni fra l’Italia e il suo paese. “Sono di etnia Oromo e da mesi il governo etiopico sta arrestando e uccidendo la mia comunità; so che l’Italia ha molte relazioni con loro, e anche il vostro presidente è andato in Etiopia, sarò al sicuro qui?”, chiede con la fronte corrucciata.

In fuga da guerre e violenza. Se Abdi ha perso il padre, vittima della repressione del regime di Addis Abeba, dovendo abbandonare “una vita bellissima, in cui non mi mancava nulla”, tutti i rifugiati scesi in strada hanno alle spalle violenze, abusi e lutti. Mohammed è partito subito dopo la laurea in zoologia, scappando da una guerra che nella regione del Darfur, Sudan occidentale, dura da oltre dieci anni, e che è tornata di recente a fare morti e sfollati. Proprio il regime di Al-Bashir, presidente-padrone del Sudan dal 1989, sotto accusa presso la Corte Penale Internazionale per genocidio e crimini di guerra nel Darfur, è paradossalmente uno dei partner italiani ed europei nel contrasto all’immigrazione irregolare dal Corno d’Africa verso la Libia.

Condizioni “critiche” nell’hotspot? Abdulwahab, scappato dai bombardamenti incrociati dell’Arabia Saudita e delle milizie Houthi nello Yemen, ha attraversato “due mari, il mar Rosso e il Mediterraneo, e in mezzo il deserto del Sahara”, mentre Umar, seduto poco lontano, è sfuggito al reclutamento forzato del gruppo Al Shabaab, che controlla buona parte della Somalia. Oltre a chiedere di poter raggiungere altri paesi europei, i migranti denunciano le condizioni precarie dell’hotspot. “Dormiamo su materassi sporchi e spesso umidi per le perdite dei bagni”, spiegano, riferendo poi episodi di “violenza e intimidazione verso chi non rilascia le impronte”. A febbraio, 18 sudanesi sarebbbero stati picchiati, mentre quotidianamente “chi non si è fatto identificare viene discriminato, non riceve pasti in orario e subisce continue pressioni”.

Sbarchi e sovraffollamento.
Mentre i rifugiati si preparavano alla notte, a meno di un chilometro due motovedette della Guardia Costiera sbarcavano 121 persone tratte in salvo dalla nave Bourbon Argos, di Medici Senza Frontiere. Uomini, donne e 8 bambini, il più piccolo di pochi mesi, partiti dalla Libia giovedì notte, sono stati portati nell’hotspot, che ospiterebbe oggi, secondo fonti locali, quasi 550 persone, fra cui decine di minori non accompagnati. Lo sbarco di ieri notte è il quarto in 24 ore sull’isola. “Siamo preoccupati”, ha detto Sebastien Stein, coordinatore di Msf a bord della nave, “perché sappiamo che queste persone, costrette a viaggi pericolosi dall’assenza di accessi legali all’Europa, troveranno condizioni di accoglienza non adeguate”. Ad aspettarli, anche una burocrazia inattesa, che traccia percorsi obbligati per chi, invece, cerca libertà e affetti.

vedi sito Repubblica

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[ 9 maggio 2016 ]
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