Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Lavoro e cittadinanza migrante

Relazione di Sandro Chignola al seminario di Uninomade del 13 febbraio 2010

1. Quello che mi si chiede è un intervento difficile. Difficile perché costretto ad una strana operazione sul piano temporale. Da un lato, esso deve riprendere il filo di una discussione interrotta. Quasi come se, cioè, non avessimo negli anni accumulato una serie di riflessioni, elaborazioni, sperimentazioni politiche decisive sul terreno delle migrazioni e delle trasformazioni della cittadinanza. Dall’altro, perché mi obbliga ad espormi sul terreno della crisi e sull’effetto che essa potrebbe indurre in rapporto ai flussi migratori, senza tuttavia che la crisi abbia ancora sedimentato passaggi definitivi.
Più di una volta ci siamo detti che cartografare i processi e le tendenze è un’operazione difficile. E che ancora più difficile è lavorare su quadri in movimento, in rapidissima trasformazione, come quelli della cittadinanza.
Se è vero che all’origine della sociologia c’è il dagherrotipo, la fotografia, è una fotografia davvero difficile da mettere a fuoco, quella che cerca di catturare la mobilità sfuggente, rapidissima, del migrante.

Ripartiamo dai fondamentali allora. Un concetto, una categoria, compare quando compare qualcosa di nuovo che deve essere concettualizzato, categorizzato. Qualcosa che sfida la tenuta dei paradigmi in uso. E’ sintomatico che sia solo dagli anni ’80 che nei dizionari di scienza politica in Italia e nell’Europa continentale compaiano voci dedicate alla «cittadinanza», termine sino a quel momento aproblematicamente riferito al sistema delle norme concernenti il suo esercizio. E’ esattamente nella misura in cui una serie di claims vengono ad essa riferiti, che la cittadinanza – i suoi perimetri, le sue forme, i suoi codici – diventa un problema. Dibattiti sull’esclusione e sulle nuove povertà, critica femminista dell’universale astratto del diritto, tensioni interne ai suoi quadri di inclusione in rapporto al lavoro migrante, mettono allora al centro la cittadinanza come concetto conteso e come concetto di contesa.
Di cittadinanza si inizia allora a discutere non come di un campo definito da titolarità di diritto e da forme secche di esclusione, ma come del punto di giuntura, della linea di tensione, tra gli ordinamenti oggettivi della politica (sovranità, Stato, costituzione) e le forme soggettive di attivazione che premono per riaprire quanto nei primi è dato per scontato e, quindi, almeno in apparenza «chiuso».
Schemi gradualisti volti a recuperare l’esclusione in termini democratico-progressivi; analitiche critiche della contemporaneità del non contemporaneo (per riprendere l’espressione di Ernst Bloch) e cioè della tensione esistente tra quadri formali e quadri materiali della cittadinanza, tra la garanzia di diritti estremamente avanzati e la persistenza di forme arcaiche di esclusione e di sfruttamento; istanze volte ad una brusca accelerazione degli squilibri che la attraversano, tendono allora a mettere in movimento la nozione di cittadinanza ad alludere, con essa, ad un autentico terreno di lotta.
Parlando della cittadinanza come pratica sociale parliamo di una sfida che muove dai suoi confini. Parliamo di ciò che attraversa e che rimette in discussione i confini; di ciò che li disarticola e li obbliga a ricomporsi in altre forme. Parliamo, soprattutto di pratiche di soggettivazione e di dispositivi di controllo; di mobilità e di imbigliamento della mobilità. Di macchine da guerra che tracciano confini, che lavorano a edificare e a fissare la cittadinanza come spazio difeso, rimodulando il codice binario di inclusione ed esclusione della sovranità classica – ce ne ha parlato poco fa Alessandra Sciurba –, e di uomini e donne i cui movimenti quella macchina da guerra non è in grado di controllare nonostante i controlli biometrici, i droni, il proliferare delle agenzie e delle tecnologie militari attivati per il loro controllo. La cittadinanza nazionale ed europea come fortino difeso, anche con la delega del controllo dei confini a paesi terzi; il suo spazio interno come spazio di validazione e di agency dei diritti; e quello stesso spazio interno fratturato, sfidato, attraversato, da processi di soggettivazione che dello spazio della cittadinanza eccedono gli schemi e le procedure, che determinano una temporalità eccedente e che tracciano altrimenti il processo della sua territorializzazione.

2. Non so come sia potuto accadere che finisse con l’essere accreditata la tesi che la crisi avrebbe comportato un cedimento dei flussi migratori o un’inversione della tendenza in atto dagli anni ‘90.
I migranti non «tornano a casa», ci dicono i dati. Non solo quelli attuali, ma anche quelli relativi alla recessione del 1966/67 o alla crisi petrolifera del 1973/74. Sono, quelli, gli anni in cui viene per la prima volta smentita nei fatti la teoria sull’«esportabilità» della disoccupazione e sull’assorbimento congiunturale della crisi con il ricorso al lavoro migrante transitorio. La nostra arcaica ipermodernità ripropone spesso relitti della storia. L’idea della «buffer theory», risalente agli anni ’50, è semplice: si attirano lavoratori stranieri nelle fasi alti del ciclo economico, li si trattiene come «Gastarbeiter», e cioè ai limiti della cittadinanza e incardinandoli a programmi di lavoro temporaneo, sinché la congiuntura è favorevole, li si facilita al rientro nei paesi di provenienza con il sopravvenire della crisi. Ciò dovrebbe permettere, in una fase di scarsa occupazione, di riservare i posti di lavoro ai concittadini nazionali. E nondimeno, le statistiche rilevano solo flessioni di breve periodo nella composizione migrante del lavoro nella crisi degli anni ’60 e, anzi, un suo sostanziale incremento, in molti paesi europei (Francia, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera) all’inizio degli anni ’80, nonostante la recessione del ’73. La contrazione che si segnala negli USA nel 1991 dipende dall’Immigration Reform and Control Act adottato qualche anno prima che, va ricordato tuttavia, prevede anche una vasta sanatoria.
In generale, è questa la conclusione che ne possiamo trarre, se una flessione esiste nella percentuale dei migranti residenti nei paesi di destinazione, questa flessione, in tutte le crisi che si sono succedute dagli anni ’60 in avanti, è stata una flessione di brevissimo periodo.
E’ una cattiva immaginazione dei flussi migratori, quella che lavora nella tecnologia sociale del «ritorno» o della «Gastarbeit». E non a caso è stata ampiamente dismessa sin dagli anni ’90 anche in Germania.
Esemplificando al massimo, possiamo dire che essa:
1) non considera il processo di stabilizzazione dei lavoratori migranti (ricongiungimenti famigliari, matrimoni, inserimento in «social network» comunitari);
2) non considera che molto spesso tornare nei paesi d’origine significa comunque precipitare in condizioni comunque peggiori (se questo era vero negli anni ’60 e ’70, possiamo facilmente immaginare quanto questo dato si rafforzi sulla soglia di interdipendenza definita dall’attuale economia globale e dalla «globalità» della crisi;
3) non considera in alcun modo la struttura degli impieghi (e cioè il fatto che i migranti sono spesso occupati in posizioni ed in processi del tutto inappetibili per i cittadini nazionali);
4) non considera che la migrazione segue sempre più spesso traiettorie circolari (nel caso europeo vale in particolare tra il Maghreb e i paesi bagnati dal Mediterraneo e per i paesi sul confine Est di Schengen), descrivendo stagionalità e intermittenze, che possono permettere di attraversare i momenti più bui della crisi come «vacanze allungate» o come momenti di consapevole riappropriazione di quote di reddito sociale con il mancato pagamento dei debiti o degli affitti, in attesa di rientrare, probabilmente altrove, nel processo migratorio.

Alcuni dati ulteriori confermano tutto questo, io credo.
1) il sostanziale fallimento dei programmi di finanziamento per il rientro dei migranti nei paesi di origine – quegli stessi piani che qualche giunta leghista vorrebbe ora copiare – avviati dalla Repubblica Ceka e, nella primavera del 2008, dalla Spagna (vi hanno aderito in 2200 su una platea potenziale di oltre 100mila migranti «regolari» eliggibili); 2) il fatto che, nonostante la crisi, i dati indichino un incremento e non una flessione della presenza dei migranti nei nostri territori (+ 13,4% rispetto al 2007); 3) il fatto, attestato in alcuni modelli e che io credo davvero significativo, della cessazione o dell’inversione, su scala globale, delle rimesse dei migranti (ne parlava, per quanto riguarda i migranti latinos negli USA il «New York Times» qualche mese fa) in vista di autonomi progetti di permanenza e di stabilizzazione relativa nei paesi di destinazione.
Vi è una serie di idee sulla migrazione che occorre smontare, per poter avvicinare la realtà dei problemi – e dunque delle occasioni – che abbiamo davanti. Innazitutto, il fatto che la migrazione sia essenzialmente un transito e che questo transito avvenga da Sud a Nord, sui barconi della disperazione, come nell’immaginario mediatico e del senso comune. Il migrante, occorre ribadirlo, non è un soggetto la cui mobilità possa essere rappresentata come sospesa tra un ingresso e un’espulsione. Il lavoro migrante – regolare o clandestino, in gran parte per overstaying – è una parte decisiva della composizione di classe contemporanea. Si muove, si sposta, circola. Come dice qualcuno, i flussi migratori sono pressoché indecifrabili, difficilissimi da fissare, perché «vanno dappertutto». Ma nello stesso tempo incrocia logiche di accumulazione selvaggia, produce valore, territorializza conflitti.
Solo per restare all’Italia, dati recenti ci dicono come sul nostro territorio siano presenti circa 5 milioni di «stranieri», in gran parte distribuiti nel Nord del paese, che rappresentano il 15 % della forza lavoro complessiva (dati ISTAT). Essi fruttano all’INPS oltre 7 miliardi di Euro (2,4 miliardi come contributi diretti) all’anno; sono occupati al 58% nei servizi (con punte significative nei settori della logistica, oltre che nel lavoro di cura, nella ristorazione e nell’ospitalità alberghiera), al 35,3 % nell’industria (in gran parte metalmeccanica), al 7,3 % in agricoltura (anche se questa quota non considera ovviamente il lavoro semischiavile dei clandestini). A questi vanno aggiunti circa 200.000 migranti imprenditori e almeno altri 300.000 soci di cooperativa o partite IVA nella precarizzazione generale dei rapporti di lavoro. Nella fase incipente della crisi, nel corso del 2008, i migranti occupati sono cresciuti ancora di 200.000 unità, in Italia. E iniziano ad occupare anche segmenti «alti» nella stratificazione sociale del lavoro: in particolare in campo medico.
Una seconda questione, riguarda le direttrici delle migrazioni contemporanee e le loro caratteristiche fondamentali. Esse non riguardano solo il Nord del mondo: l’Europa, gli USA o l’Australia, ovviamente. Ma contrassegnano una circolazione complessa tutta da mappare. Solo per citare un dato: il rientro di lavoratori di origine russa nel loro paese, sta creando enormi problemi in Asia dove molti migranti indonesiani finiscono con l’incrementare la disoccupazione. I flussi di uomini seguono i flussi di merci. E il livello di interdipendenza raggiunto dall’economia globale non permette una visione eccessivamente semplificata né dei movimenti di popolazione, né di che cosa siano i territori che essi segnano, attraversano o incidono. Lasciando per ora da parte la complessa questione delle migrazioni globali (c’è gente, nel mondo, per la quale una meta ambita di migrazione è Calcutta, per altri lo è la Thailandia… e, per restare vicino a noi, vale forse la pena di notare come tutti i paesi del Medioriente e dell’Africa del Nord siano diventati paesi di partenza e paesi di destinazione dei flussi di lavoro migrante), vi sono un paio di questioni decisive da sottolineare in relazione a recenti mutamenti del progetto migratorio.
La prima: viene sempre maggiormente assegnata preferenza a schemi circolari (in questo caso il rientro a casa è spesso una sosta prima di una nuova partenza) con preferenze di prossimità, ciò che permette capacità di anticipazione, adattamento alla crisi, flessibilità nel rispondere ad essa. L’essere interni allo spazio Schengen rende molto più mobili i migranti che perdono il lavoro, che possono immediatamente cercarlo altrove al suo interno. Specie quando si tratta di Est europei. I circuiti della migrazione sembrano in molti casi ricalcare il modello della migrazione stagionale senza che per questo venga abbandonata la ricerca di migliori opportunità nei paesi di destinazione, che, anzi, proprio per questo vengono sottoposti a continua selezione come sedi di stabilizzazione opzionale.

La seconda: si determina sempre più radicalmente un mutamento dalla migrazione orientata alle rimesse ad una migrazione come investimento sul capitale cognitivo del soggetto in movimento («from a remittance driven to a human capital driven pattern of migration»): acquisizione di competenze, skills, abilità linguistiche e/o imprenditoriali. Il migrante del XXI secolo pensa sempre meno «a casa», pare. Al contrario, accade sempre più spesso che siano le comunità di partenza a finanziare tanto nelle fasi di insediamento, quanto in quelle di crisi, i migranti, sostenendoli nei loro progetti imprenditoriali o di formazione, e non viceversa.
La terza: la migrazione, quando è orientata da scelte di lungo termine, e questo accade sempre più spesso, si muove dando comunque per assodato il differenziale di opportunità stabilito tra il paese di partenza e quello di destinazione. La crisi è globale: subirla nei territori di origine può diventare ancora più duro, innanzitutto. Inoltre, in particolare per le famiglie, i paesi di destinazione offrono in genere migliori condizioni di welfare – formale o informale, come lo sono i networks sociali autonomamente stabilizzati dagli ultimi vent’anni di migrazione – anche in caso di disoccupazione.

Terzo: fuoriuscita dalla crisi e ripresa economica sono molto più facili da agganciarsi nei paesi di elezione, piuttosto che nel quarto mondo. Quarto: l’investimento che la migrazione comunque comporta, risulterebbe fallimentare, qualora si optasse per un immediato e definitivo ritorno.
Si potrebbe facilmente continuare. Magari lasciandosi andare all’oggettivismo prospettico degli andamenti demografici o al sociologismo delle tipologie mansionali ormai saldamemente in mano ai migranti. Senza parlare dell’affacciarsi di stranieri nelle Università o della loro massiccia presenza nella scuola elementare o media. Quello che le statistiche tendono a restituirci – anche per i nostri territori – è, io credo, un ormai conquistato, anche se da posizioni marginali, «right to stay».

3. Questo «

right to stay

», altra faccia di quella «freedom of movement» che definisce il lato soggettivo delle migrazioni contemporanee come movimento sociale, rappresenta la turbolenza che mette definitivamente in questione, revoca di stabilità, apre alla contraddizione, i profili e i perimetri della cittadinanza. Il migrante è marcato da una caratteristica irrappresentabilità. Spesso in fuga dalle identità ascrittive del proprio paese di origine, attratto dal vortice di anonimizzazione delle aree metropolitane, invisibile e «senza parte» nel conto democratico delle posizioni, talvolta tentato dal rifugio in calde identità culturali di ritorno, il migrante è il perturbante concreto della nozione giuridica astratta di cittadinanza, proprio per l’impossibilità di «fissarlo», di disciplinarne la soggettività e i movimenti.
Di più: perno di un confronto irriducibile tra mobilità e controllo, tra sconfinamento e confini, tra ingovernabile e governo, il migrante mette radicalmente in discussione la serie di categorie e di concetti sui quali la cittadinanza edifica la propria definizione, revocandone il riferimento antropologico-politico classico: il «cittadino» come il nativo, maschio e proprietario e, possibilmente, bianco. Come ha di recente avuto modo di notare Engin Isin, al cui lavoro mi rifaccio per le brevi note che seguono, «abbiamo bisogno di un nuovo vocabolario della cittadinanza».
Nella nozione classica di cittadinanza convivono due aspetti: l’abilitazione e la tutela dei diritti da un lato, un radicale principio di esclusione dall’altro. Su questo secondo lato, la cittadinanza viene identificata ad uno status. Esso seleziona chi è cittadino e chi non lo è in base a un criterio più o meno largo che, nei vari modelli, viene di volta in volta ancorato ad uno jus sanguinis (il privilegio etnico), ad uno jus soli (la nascita) o, nei casi più «aperti», ad uno jus domicilii (la residenza). E’ facile intuire come il migrante, ed in particolare la sua versione indocumentada, clandestina, aliena, ecceda tutte queste forme di certificazione; scuota sin dalle fondamenta l’anagrafe poliziesca delle identità.
La cittadinanza non è solo status, tuttavia. Essa è anche «empowerment», accesso, volano per la traduzione di rivendicazioni e di istanze. E’ su questo piano che essa si trova costitutivamente in tensione con le pratiche che la sfidano. Per riprendere la felice espressione di Isin, la cittadinanza, non più pensabile nella classica sovrapposizione sequenziale di territorio, soggetti e diritti, deve essere considerata una «istituzione in scorrimento» («citizenship is an institution in flux»), fluida; un’istituzione il cui alveo è tracciato da conflitti sociali e politici nei quali si producono imponenti, e in gran parte incontrollabili, processi di soggettivazione. Processi che modificano le rappresentazioni tradizionali della spazialità politica, il gioco del riconoscimento delle identità, il lavoro della macchina costituzionale; processi che, vale forse la pena di farlo notare, non si muovono linearmente e non pertengono solo all’alea dell’evento. Ma che scavano il corso del fiume con la carsica fatica del quotidiano.
Vale la pena di riprendere lo schema di Isin, per parlare di questa dinamica di costante riconfigurazione soggettiva della cittadinanza. >La cittadinanza, da non intendersi come un fascio di diritti o come un principio di inclusione più o meno aperto, coinvolge «attori», «siti», «gradienti» e soprattutto «azioni».
Nessuno di questi termini, tuttavia, va inteso in senso univoco o semplificato.
Di «attori» di cittadinanza possiamo parlare solo eccedendo la griglia che perimetra l’«azione» politica istituzionalizzandola (soprattutto in termini rappresentativi) o assegnandola al monopolio dei cittadini legalmente riconosciuti.
Con Saskia Sassen, possiamo parlare di nuove figure che ridefiniscono la cittadinanza. «Soggetti autorizzati ma non riconosciuti» (le mille figure del precariato sociale) e soggetti «riconosciuti ma non autorizzati» (i migranti «clandestini» dei mille Sud del mondo…) attraversano, sfidandone i dispositivi di controllo, i quadri della cittadinanza formale e rappresentano le traiettorie del lavoro vivo contemporaneo. Attori di cittadinanza sono quei soggetti i cui claims si dimostrano irricevibili nel sistema di rapporti stabilizzato e rinviano, piuttosto, ad una nozione, materialissima ed eccedente, di giustizia in divenire, anticipata nel farsi politico dei conflitti.
Dei «siti» della cittadinanza, in secondo luogo, possiamo parlare solo sbarazzandoci della troppo semplificata visione che abbiamo delle figure della spazialità politica. «Siti» di cittadinanza non sono le nazioni, le città, le regioni dell’Impero. E non lo sono, almeno di per sé, nemmeno i «territori», se ad essi facciamo riferimento come a sezioni immediatamente identificate dello spazio. Isin, e io credo che si possa seguirlo, parla dei «siti» di cittadinanza come dei luoghi di contaminazione in cui vengono assemblate, montate, connesse rivendicazioni, questioni, revoche di evidenza.
Quei luoghi, potremmo dire a nostra volta, in cui si territorializzano conflitti, rudi confronti tra libertà e governo, nei quali un «territorio» si illumina, si accende, come lo scenario di una battaglia che identifica, per forzarli, i limiti ed i confini della cittadinanza.
Siti e «gradienti» sono implicati l’uno nell’altro, in terzo luogo. Cosa identifica un territorio, una qualsiasi delle nostre aree metropolitane, se non l’agglomerarsi, spesso contraddittorio e conflittuale, di spazi e di tempi? I migranti sono inseriti in circuiti che si sovrappongono alla scala cittadina o nazionale. Le informazioni scorrono su vettori che non sono quelli della cronologia o dei calendari. Le merci circolano con velocità e ampiezze che non sono quelle della nostra percezione quotidiana del tempo…
La nozione classica di cittadinanza entra in fusione nella misura in cui le battaglie per la cittadinanza mettono out of joint le rappresentazioni tradizionali dello spazio e del tempo.
Un «sito» è determinato dal territorializzarsi di un conflitto, abbiamo detto. Un «gradiente» lo incrocia nella misura in cui quel sito è capace di far rete, di generalizzarsi, di intensificare la potenza che esprime attraversando, e dunque destituendoli, confini nazionali o barriere etniche e di genere. Ne abbiamo avuti esempi decisivi in anni recenti: dalle lotte dei sans-papiers francesi al «dia sin migrantes» dei latinos negli USA il 1 maggio 2006. Lotte capaci di materializzare politicamente la nozione di cittadinanza, esattamente nella misura in cui rendevano evanescente il suo riferimento formale e agganciavano processi di soggettivazione che evidenziavano – e a partire da un’esclusione -, il «becoming political» del terreno dei diritti.
>«Azioni» di cittadinanza, esattamente in questo senso, sono quei processi di soggettivazione che fanno saltare l’ordine amministrativo e gestionale della cittadinanza come anagrafe ufficiale della titolarità e dell’imputabilità dei diritti.
Sono «azioni di cittadinanza» quelle dinamiche di attivazione sociale che segnano un cominciamento e un inizio; quei claims di giustizia che provengono da chi non ha titolarità giuridica a farlo e che prendendo parola, qualifica un’esclusione, la rende percepibile, rovesciando il tavolo sul quale vengono assegnate le parti.
E’ possibile qualificare come «atti di cittadinanza» quegli atti che modificano gli equilibri interni agli spazi di inclusione democratica trasformando forme e modalità della loro gestione; quegli atti che introducono nuovi attori e nuovi cittadini nei siti e nelle situazioni amministrate dal codice binario del riconoscimento e dell’accesso.
Nuovi attori e nuovi cittadini sono il movimento in atto che abolisce e che trasforma le forme presenti della cittadinanza. I migranti, percepiti come «immanent outsiders» rispetto ad esso, non stanno tuttavia in un rapporto di esteriorità con lo spazio politico. Al contrario, lo istituiscono come scena politica e come quadro in tensione. La cittadinanza è una pratica. Uno spazio di conflitto.
Ed è uno spazio di conflitto, non nell’appello retorico, ma nella materialità delle pratiche che disfano e riqualificano soggettività e diritti. I migranti, lo abbiamo visto sopra, pensano davvero poco «a casa». Il loro «right to stay» è la tendenza che indica una direzione, un obiettivo, e ciò che incide un segno costituente nella regolarità delle procedure.
Su questo terreno è possibile progettare un’agenda di lotte: incrociare battaglia per il reddito e per i diritti sociali, connettere le lotte per il diritto allo studio a quelle dei migranti i cui figli subiscono la redistribuzione nelle classi su base etnica o razziale, estendere i conflitti sulla formazione all’ingresso subordinato nel mercato del lavoro previsto per gli stranieri delle scuole tecniche e professionali, meticciare i processi di soggettivazione che si producono tra lavoro e non lavoro, fare a pezzi la linea del colore che ancora attraversa le Università.
E fare in modo che il «right to stay» significhi soprattutto lo stare sull’onda tesa del futuro.

Riferimenti:

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