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Le Barracks della Città Bianca

Reportage da Belgrado di diaPHrame [?], aprile 2017

Photo credit: diaPHrame [?]

Sono a Belgrado, in una soleggiata giornata di Aprile. Le strade intorno alla stazione dei bus sono animate da persone in preda alla frenetica vita di città.
A poche decine di metri di distanza, dietro la stazione ferroviaria centrale, si nasconde un’altra realtà, trascurata dai media e non solo. Qui nelle Barracks, come viene comunemente chiamato questo campo, appena oltrepasso la sbarra che divide i “legali” dagli “illegali”, l’impatto emotivo è violento. La prima cosa che salta all’occhio sono le pessime condizioni e le precarie strutture in cui circa 1.300 persone sono costrette a vivere ogni giorno.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Mi addentro tra i due capannoni principali del campo, l’odore si fa sempre più aspro. Tra le varie lingue che sento, principalmente pachistano e urdu spicca la voce di una donna. Mi avvicino, sta consegnando delle scarpe ed alcune uova a dei ragazzi. Ljiljana è una cittadina serba che da alcuni anni aiuta nelle Barracks in tutti i modi possibili, dal fornire delle scarpe a semplicemente socializzare. Mi spiega in breve quello che fa e, senza indugio, mi introduce un giovane ragazzo afgano, Hamayun, che da il suo contributo traducendo per chi non parla inglese. Insieme mi mostrano cosa succede qui.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Le condizioni continuano ad essere pessime, ma comunque migliori rispetto all’inverno quando il termometro sotto lo zero costringeva ad accendere fuochi di fortuna all’interno delle strutture, provocando danni alla respirazione e alla salute in generale. Gli aloni neri provocati dal fumo sono ancora visibili all’interno e, chiedendo se ci fosse stato o no qualche incidente, mi compiaccio di come non sia accaduto nulla.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Nonostante le temperature sono di gran lunga migliori, le condizioni igienico sanitarie spaventano. Oltre a un paio di lavandini a cielo aperto e dei bagni chimici, da pochi giorni i volontari di Soul Welders hanno fornito le prime docce al campo: un sistema davvero ingegnoso che consiste in quattro box doccia in un camion, inclinato su due lati per far defluire l’acqua; detta così sembra quasi semplice.
Camminando mi sembra di sentire le mura parlare, straripanti di messaggi di speranza, libertà, uguaglianza, dolore e voglia di cambiamento. Una sorta di libro in muratura dove tutti possono dire la loro, esprimere le proprie paure e la loro determinazione ”Please don’t forget about us”.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Alcuni bambini mi invitano a giocare a cricket, ma io sono troppo preso a fotografarli e ad osservare la pallina, da tennis che costantemente finisce in pozzanghere di acqua putrida. Il cattivo odore in cui giocano viene coperto dai loro sorrisi costanti, incredibilmente stampati sulle loro facce, sotto un velo di amarezza.

Mi soffermo a guardare dei ragazzi scherzare su un muretto e mi saltano subito all’occhio i due enormi palazzi in costruzione che incombono minacciosi dietro di loro. Chiedendo informazioni scopro qualcosa di sconcertante: sono questi ammassi di cemento che da mesi minacciano lo smantellamento del campo dall’oggi al domani. Su uno di loro la scritta della compagnia matrice del progetto: Eagle Hills, con sede ad Abu Dhabi. Iniziato sul finale del 2015 con il supporto del governo e fortemente voluto dal primo ministro Aleksandar Vučić, ricoprirà di cemento un’area di circa 2 milioni di metri quadri. Come sempre accade per le grandi opere, le polemiche sono mancate di certo con serie preoccupazioni riguardanti la provenienza dei fondi e la reale utilità del progetto che ad oggi continua a risultare poco trasparente. Alla fine, a pagar pegno, sono sempre i meno agiati.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Sotto questa costante minaccia i rifugiati vanno avanti, aiutati dai vari volontari che forniscono loro i beni primari nonostante lo scorso novembre il Ministero del Lavoro serbo, responsabile per la salvaguardia dei rifugiati, sollecitò i vari gruppi di aiuti umanitari a cessare la loro attività al di fuori dei centri di accoglienza ufficiali. Tra le varie operanti nella città bianca ci sono “One Bridge to Idomeni”, un’iniziativa partita da dei ragazzi veronesi, e “Hot Food Idomeni”, entrambe nate in Grecia collaborano insieme in cambio di qualche sorriso. I volontari di quest’ultima provenienti da tutto il mondo preparano circa 2.000 pasti al giorno in una cucina situata leggermente fuori città, servendoli non solo nelle Barracks, ma anche in altri campi in Serbia, come quello ufficiale di Obrenovac.

Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)
Photo credit: diaPHrame [?] (Belgrado, aprile 2017)

Cerco di fare del mio meglio per dare una mano. Centinaia di persone in fila per la razione di cibo giornaliera. Una sensazione strana sentirsi utile e avvilito nello stesso momento. Sui volti delle persone sarebbe da scrivere un libro a parte, espressione di forza e dolore. Tra il sentire le varie storie tutte diverse e con un lungo tragitto tumultuoso alle spalle, molti di loro appena ricevuta la loro razione di cibo giornaliera mi invitano a condividerla con loro; un gesto semplice che mi rallegra la giornata. Sono contento di poter dare il mio contributo seppur piccolo, ma non posso compiacermi di come tutto questo continui ad accadere.

Links utili:
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