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da Il Corriere della Sera del 7 maggio 2004

Le barriere da abbattere di Ermanno Paccagnini

È proprio vero che la vita è fatta di strane coincidenze. Sei in treno e un amico ti racconta del dubbio che ha nel trasferirsi a Boston con moglie e figlio in età scolare: meglio un appartamento di fascia alta che consenta il suo invio in una scuola pubblica socialmente selezionata, o risparmiare sull’affitto per una zona di minor livello e investire in una scuola privata per evitare un inserimento in scuole pubbliche ad alto tasso di presenza di indiani, portoricani o etnie varie? Sembrava un problema dell’«altro mondo» solo quattro giorni fa.

E invece te lo ritrovi a Milano, col fenomeno della «fuga verso il centro», della corsa agli asili del centro degli «italiani» delle periferie, per evitare ai figli convivenze con gli «stranieri». Col che, ecco subito un po’ di problemi: odierni e in futuro, quando la crescita trasferirà il problema a successivi livelli di scuola, con sovraffollamenti pronti a invalidare ogni utopica volontà di personalizzazione dell’insegnamento. Perché la conseguenza di tale corsa sarà l’ampliamento del numero di scolari per classe, col medesimo effetto che, almeno a parole di facciata, s’è voluto evitare: un supposto rallentamento dell’apprendimento attribuito dai genitori ai tempi necessariamente imposti da problemi di comunicazione linguistica. In realtà, un falso problema.

È noto che, in ambito di scuola materna ove l’apprendimento avviene attraverso il gioco, il momento fondante è proprio la socializzazione, che a quell’età non conosce barriere linguistiche. Al contrario, ove la fuga non sia dettata da necessità organizzative come l’aver l’asilo vicino all’ufficio per poter «recuperare il piccolo», mentre vicino a casa nessuno lo può fare, a suggerire la corsa al centro è proprio la fuga dall’extracomunitario, dallo «straniero» come compagno di classe. La fuga da quel «diverso» che, a dirla tutta, è tale solo per i genitori, perché quel problema non esiste per il bambino (purché non imbeccato da genitori che magari in pubblico aborriscono i «razzisti»). Per il bambino esiste la curiosità, all’inizio. Una curiosità stimolante, capace anche di generare amicizie di una vita.

Per dirla francamente: si ha probabilmente a che fare con genitori che, pensando di salvaguardare il figlio, in realtà lo impoveriscono. Anche culturalmente. Piaccia o no, i livelli di partenza – aspetti linguistici a parte, forse (penso ai livellamenti televisivi senza problemi di etnie) – a quell’età spesso sono i medesimi. Differenti sono le culture familiari; ma in tal caso è vero che un contatto significa anche la possibilità d’un incontro, e che un incontro è sempre accrescitivo: di conoscenze ed esperienze. Sia chiaro, non voglio dire che sia sempre tutto rosa e fiori e non possano esistere problemi di convivenza. Il discorso è un altro. È educativo. Scolasticamente e socialmente. Per l’oggi, ma soprattutto per il domani neppur tanto remoto verso il quale ci avviamo, e che è quello senza dubbio alcuno della coabitazione e, sperabilmente, della convivenza. Ghettizzando invece la periferia e le sue strutture, quei genitori non si accorgono che stanno ghettizzando socialmente e culturalmente anche i propri figli (e se stessi, ovviamente). Nel presente e in prospettiva futura. E si sa che è sempre dalle segregazioni che nasce il muro contro muro. E che è da questo che si origina lo scontro frontale.