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Le frontiere della morte. Cosa accade al porto di Venezia?

E’ morto un giovane iracheno, già respinto giorni prima nonostante potesse chiedere asilo.

Chiamiamolo Kawa, anche se ancora non conosciamo il suo nome. È il ragazzo di 25 anni e di origine irachena trovato morto dentro un tir che viaggiava su una nave proveniente dalla Grecia e appena entrata nel Porto di Venezia.
Neppure il suo compagno di viaggio sa come si chiamasse. A cosa serve chiedere il nome di chi ti sta accanto in avventure come questa? Forse solo dopo, una volta arrivati da qualche parte, avrebbe senso farlo.

Ma una cosa, il ragazzo che ha conosciuto e visto morire Kawa, se la ricorda benissimo. Cinque giorni prima di quel giorno di morte entrambi erano già arrivati al porto di Venezia ed erano stati rimandati indietro.
“Respingimento alla frontiera”, si chiama questa pratica ed è svolta dalla polizia nei luoghi come porti, aeroporti, frontiere terrestri. Esistono degli enti, come il Cir, che dovrebbero intercettare chi sta per venire respinto e accertarsi quanto meno del fatto che non si tratti di un potenziale richiedente asilo. Questi enti dovrebbero sempre e comunque informare ciascuno della possibilità di chiedere asilo politico e di tutti gli altri diritti cui potrebbe accedere.

“Il Ministero dell’Interno stanzia cifre ingenti affinché esistano delle strutture incaricate di fare orientamento ai migranti che arrivano in porto” Spiega Rosanna Marcato, responsabile del Servizio del comune di Venezia che si occupa di Rifugiati, “ma tutto invece avviene nell’oscurità, non si riesce ad intercettare ed aiutare le persone. Per questo motivo noi abbiamo scelto di andare via dal porto”.

Il porto di Venezia come quelli di Bari o di Ancona, e tutti quanti gli altri. Buchi neri, luoghi militarizzati in cui si decide della vita e della morte dei migranti secondo prassi amministrative che non garantiscono alcuna attenzione per i casi soggettivi (minori, malati, richiedenti asilo)e alcuna tutela per i diritti fondamentali delle persone. per sfuggire a questi controlli senza regole, i migranti sono costretti ad inventare modi sempre più rischiosi per aggirarli, a sfidare continuamente la morte per non farsi intercettare e rispedire al punto di partenza.

I respingimenti, infatti, sono sempre più azione di routine, svolta esclusivamente da uomini in divisa che non hanno evidentemente gli strumenti per sapere chi stanno rimandando indietro. E stavolta chi ha respinto kawa quando era riuscito ad arrivare per la prima volta, da vivo, ha in qualche modo da affrontare una responsabilità pesante.

Kawa, curdo iracheno che avrebbe con tutta probabilità potuto ottenere asilo nel nostro paese, ci ha riprovato. Ma lo ha fatto nel momento peggiore. Più di trenta gradi, un caldo asfissiante.
“In tutta la mia vita non ho mai sentito caldo come lì dentro” racconta uno dei sopravvissuti che si trovano ora (per fortuna) al centro di accoglienza Boa del Comune di Venezia, arrivati lì, in maniera surreale, nel mezzo di una bella festa organizzata per la giornata del rifugiato del 2008, la sera della partita Italia-Spagna del campionato europeo.
“Dopo solo otto ore avevamo già finito l’acqua e siamo rimasti chiusi lì dentro per un giorno e una notte interi”.


Tutti loro avevano già alle spalle mesi e mesi di viaggio attraverso mezza Asia e mezza Europa, alla ricerca di un posto in cui potersi fermare.
Vengono dall’Iran, Dalla Siria, dall’Iraq, ma anche dalla Mauritania e dal Marocco. Hanno seguito la rotta che dal medio Oriente porta alla Turchia e si sono ritrovati tutti in Grecia, a tentare la sorte insieme, sapendo che in quel paese non potevano restare, in questa roulette russa dei percorsi migratori, confinati da dispositivi di controllo sempre più stringenti, ma ancora frutto di strategie di resistenza , di aggiramento, di esistenza, capaci di determinare almeno in parte le direzioni e le scelte.

Scegliere di non fermarsi, nonostante tutto, sapendo perfettamente a cosa si andrà incontro.
I ragazzi sopravvissuti non erano sconvolti nella maniera in cui lo sarebbero stati la maggior parte dei nostri ventenni italiani dopo avere assistito alla morte di qualcuno lì, a un passo da te. Qualcuno che avresti potuto certamente essere tu.
E non lo erano non in quanto insensibili o cinici, ma perché, oltre ad avere già attraversato, nella loro breve vita, situazioni di guerra e conflitti per noi a stento immaginabili, sapevano fin da subito cosa stavano rischiando.

La consapevolezza di chi parte è spaventosa e straordinaria. E gli attuali tentativi di controllare con la violenza questa mobilità sembrano tanto più crudeli di fronte e a queste incredibili risorse umane.
Un ipotetico reato di immigrazione clandestina o la concretissima direttiva europea sui rimpatri avranno come effetti certi la morte di migliaia di persone e spesso di persone come kawa, che avrebbero potuto essere tutelate anche ai sensi delle leggi vigenti.

Il fatto che nelle operazioni di respingimento, espulsione, rimpatrio, il diritto di asilo sia uno dei primi a correre il rischio di venire annientato, è solo una delle evidenti conseguenze di questa modalità di gestione della mobilità dei migranti.
Ci sono moltissimi Kawa di cui non sapremo mai nulla e il cui corpo è finito chissà dove, scomparso come gli altri corpi andati giù nel Mediterraneo.
Ci sono sempre storie come queste dietro di dispositivi di detenzione ed espulsione che si stanno sempre più affinando anche a livello comunitario.

Questa morte avviene, per ironia della sorte, ad un anno esatto dal ritrovamento, alla Bazzera di Mestre, dei corpi di tre ragazzi iracheni morti per asfissia dentro un tir che trasportava angurie.

di Alessandra Sciurba

[ 23 giugno 2008 ]
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