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Le lavoratrici stagionali: sempre essenziali, di nuovo invisibili

Sarah Babiker, El Salto - 18 marzo 2021

Foto: Lavoratrici stagionali contro la schiavitù

Un anno fa, quando tutti erano confinati nelle loro case, le lavoratrici agricole sono diventate visibili. In base ai media che si leggevano, i titoli dei giornali parlavano dell’essenzialità di questi lavoratori e denunciavano le cattive condizioni in cui erano costretti a sopravvivere, oppure li accusavano – non sempre – velatamente di essere la fonte delle epidemie, o la causa del rischio e del contagio.

Uno dei temi trattati dai media, quando il lockdown era terminato ma le frontiere erano ancora chiuse, è stato quello delle lavoratrici stagionali bloccate in territorio spagnolo senza che nessuno sembrasse farsi carico del loro ritorno a casa. Molte di queste lavoratrici stagionali, le quali sono rimaste bloccate più a lungo del previsto e hanno lavorato come mai prima essendo la forza lavoro minore – dal momento che sono arrivati meno lavoratori stagionali – rispetto alle stagioni precedenti, fanno parte del gruppo delle 14.000 lavoratrici stagionali assunte attraverso il sistema di contrattazione in origine previsto per quest’anno. Il loro soggiorno, tuttavia, si sta rivelando molto più silenzioso rispetto alle stagioni precedenti.

Angels Escrivá è membro del collettivo femminista Mujeres24h. Ipotizza che, se quest’anno si sta parlando meno delle lavoratrici stagionali, è per non scaldare gli animi: i migranti che già vivono nella provincia o gli stessi nativi hanno bisogno di risorse e quindi di lavoro. Nei commenti alle poche notizie disponibili dove si parla dell’arrivo di questa o quella tranche di lavoratrici, si può intuire un clima sociale difficile. Questa professoressa dell’Università di Huelva che vive in città osserva come molti dei suoi vicini stanno tornando a vivere in campagna. D’altra parte, le fattorie dove vivono queste donne hanno dovuto chiudere a causa della crisi sanitaria, quindi le lavoratrici stagionali marocchine sono più isolate che mai.

La battaglia giudiziaria che alcune di loro hanno iniziato nel 2018 non sta dando i suoi frutti. Secondo Aintzane Márquez, di Women’s Link, un’organizzazione che rappresenta alcune di queste donne, è tutto fermo e procede a rilento. Le loro assistite, denunciando le molestie sul posto di lavoro nonché episodi di violenza sessuale, hanno accettato il rischio di non essere mai più riassunte, oltre al biasimo delle loro famiglie. Sospese in un limbo, non si tratta più solo di sapere se ci saranno sentenze favorevoli nei loro confronti, i tempi della giustizia non si adattano alle loro necessità e, in un certo senso, queste lavoratrici vengono già punite.

Quest’anno, a differenza degli anni precedenti, nessuna ha chiesto assistenza a Women’s Link. “Non siamo stati consultati, il che non significa che non ci siano state denunce. Alla fine, le organizzazioni del territorio sono quelle che hanno informazioni dirette su ciò che sta accadendo lì e penso che dobbiamo aprire spazi in modo che queste donne abbiano accesso, in modo che le donne che operano all’interno delle organizzazioni possano informarle. Dovrebbero avere accesso a entità indipendenti a cui denunciare ciò che sta loro succedendo, in modo che non dipenda solo ed esclusivamente dai meccanismi delle imprese e degli Stati“.


È importante che le donne accedano ad entità indipendenti a cui denunciare ciò che sta loro succedendo, che non dipenda solo ed esclusivamente dai meccanismi delle imprese e degli Stati

Jornaleras en Lucha è una di queste organizzazioni indipendenti che lavorano sul territorio. È da lì che hanno contribuito a rendere visibile la situazione delle lavoratrici a giornata nei campi, non solo quelle marocchine, ma anche le migranti che già vivono a Huelva, così come le lavoratrici locali, tutte sfruttate in modi diversi da un sistema agricolo che paga poco per un lavoro essenziale. Membro di Jornaleras en Lucha, Ana Pinto dice che, anche se sono rinchiuse nelle fattorie, sono state contattate da alcune di queste donne marocchine con varie problematiche che stanno cercando di risolvere. Tuttavia insiste nel porre l’attenzione non solo sulle lavoratrici stagionali, ma anche su tante altre donne, senza documenti, che versano in pessime condizioni nei villaggi e che non sono, di certo, in una situazione migliore.

Per Escrivá, l’invisibilità ritorna perché, dopo tutto, si presume che le condizioni di lavoro delle persone migranti siano peggiori, altrimenti perché si opporrebbero? Ecco perché la realtà delle lavoratrici stagionali marocchine ha fatto notizia nei media quando sono stati denunciati gli abusi sessuali. Con le denunce ancora irrisolte, l’unica cosa che è diventata chiara è che queste donne sono esposte ad una vulnerabilità consistente.

Molte cose devono cambiare, e una di queste è che le lavoratrici che denunciano gli abusi non possano venire un altro anno perché nessuno le chiama. Come fanno a denunciare se già sanno che, come conseguenza, non potranno tornare l’anno prossimo?“, dice Márquez, che insiste sul fatto che è responsabilità dello Stato e delle imprese informare, prevenire e proteggere “e che il peso non deve ricadere sulle lavoratrici stagionali stesse“. Strumenti per denunciare e un sistema di controllo non sarebbero previsioni responsabilizzanti, riflette l’avvocata.

Per Márquez, l’impegno di un femminismo intersezionale incarnato in collettivi come Jornaleras en Lucha, o avvocate come Pastora Filigrana, è stato una risorsa centrale nel far avanzare i diritti di queste lavoratrici, ma ciò che non si muove è la giustizia “patriarcale“. “L’accesso delle donne alla giustizia in generale è difficile, e quando al fatto di essere donna si aggiunge il fatto di essere migrante o razzializzata, o l’essere in una situazione socio-economica precaria, diventa ancora più complicato. Il caso delle lavoratrici stagionali ne è un chiaro esempio“.

La vulnerabilità del sistema d contrattazione in origine non solo le espone ad abusi sul lavoro, a pessime condizioni di alloggio o addirittura a molestie sessuali, ma influisce sulla loro salute e quindi sulla loro vita.

Ad agosto abbiamo visitato alcune lavoratrici stagionali che erano rimaste a causa di problemi di salute“, racconta Escrivá, “c’era un caso grave, una donna a cui era stato diagnosticato un cancro al seno in tarda età“. Secondo quanto raccontato da Jornaleras en Lucha, la donna si era accorta di un nodulo a marzo, ma per la diagnosi si è dovuto aspettare la fine del suo confinamento. L’impresa l’ha incoraggiata a tornare in Marocco.

In agosto, quando finalmente è iniziata l’operazione di ritorno, la donna è andata a fare la PCR come da regola, e lì i sanitari hanno valutato le sue condizioni – la metastasi aveva colpito le ossa – e hanno deciso che non poteva viaggiare. È morta a novembre. Mujeres 24h denuncia “l’abbandono sanitario a cui sono sottoposte queste donne, che non hanno una tessera sanitaria pur essendo lavoratrici che vengono ogni anno“, donne che non hanno nemmeno i mezzi per recarsi ai centri di salute o al pronto soccorso e che hanno anche difficoltà a farsi capire dal personale sanitario.

Il discorso sull’essenzialità di queste lavoratrici venuto alla ribalta attraverso ai media nel pieno della quarantena è un’eco lontana. Nemmeno la richiesta di regolarizzazione che un potente movimento di migranti ha messo sul tavolo ha raggiunto il suo scopo. “Non può essere che coloro che sono più indispensabili siano quelli che hanno le peggiori condizioni di vita, questa è una barbarie“, si ribella Pinto.

Per quest’attivista, il problema è che interessa avere “un esercito di persone che possono essere facilmente sfruttate“. Pinto pensa che sia necessario fare un lavoro pedagogico con la classe operaia locale per spiegare loro che la regolarizzazione delle compagne e dei compagni migranti gioverebbe anche a loro.

Il luogo dei femminismi

Le accuse di violenza sessuale da parte delle lavoratrici stagionali sono venute alla luce nel momento di apice dei movimenti femministi. Sebbene le femministe siano state accusate di essere lontane da queste lotte, ci sono state anche molte mobilitazioni a sostegno di queste donne. Nel 2021 i dibattiti sui femminismi vanno in un’altra direzione. “Sento che si sta perdendo tempo, dal movimento femminista stesso e da molti luoghi, compresi i partiti politici e altri, si sta perdendo tempo in cose come polemiche e dibattiti sulle donne trans, o sulle prostitute“, lamenta Pinto.

L’attivista è preoccupata per la frammentazione delle lotte e sottolinea che il femminismo deve concentrare la sua attenzione sulle donne che hanno più bisogno di sostegno: “non possiamo continuare a parlare di femminismo, di progressismo e di passi avanti se non parliamo nemmeno del fatto che qui ci sono settori di lavoro che sono super-femminilizzati, che la maggior parte di queste lavoratrici sono migranti e che vivono vite che sono un’autentica barbarie“.

Escrivá non crede che vi sia una minore sensibilità nei confronti del tema e ritiene che la solidarietà continui ad esistere. Racconta che l’8 marzo si sono formati gruppetti di “comadres” – visto che non si poteva manifestare – che hanno parlato, tra le altre cose, del perché “non si parla tanto di femminismo o delle violazioni dei diritti delle donne adesso. Mi ricorda molto la crisi precedente, nel senso che quando sembrano esserci altre preoccupazioni, questi temi, relativi alla situazione delle donne, diventano secondari”, osserva.

Timidi passi avanti

Sul lato positivo della bilancia, Women’s Link vede alcuni cambiamenti sia nel sistema in generale che in particolare nel ruolo delle aziende. Ma Márquez chiarisce “Credo che il cambiamento sulla carta non sia sufficiente, ma che ci debba essere un controllo che ciò che è sulla carta venga effettivamente attuato“. A questo proposito, chiarisce che ci sono ancora alcuni casi aperti e che hanno partecipato ad un’indagine per un relatore delle Nazioni Unite, “sia lo stato che le aziende hanno risposto“.

Il giorno in cui si fermeranno e ci renderemo conto di cosa accadrebbe a questo paese con tutti i nostri compagni e compagne migranti in sciopero, sarà il giorno in cui ci renderemo conto di quanto abbiamo bisogno di loro“.

Pinto pensa che di questo passo, prima o poi, saranno le persone migranti a prendere l’iniziativa. “Saranno quelli che finalmente prenderanno le redini e si fermeranno. E il giorno in cui si fermeranno e ci renderemo conto di cosa succederebbe a questo paese con tutti i nostri compagni e compagne migranti in sciopero, sarà il giorno in cui ci renderemo conto di quanto abbiamo bisogno di loro, e queste persone non possono stare qui a lavorare come un esercito di riserva per fare i lavori più essenziali e allo stesso tempo più precari“. Per il momento, stanno aspettando che l’ispettorato del lavoro risponda alle oltre 20 denunce che hanno presentato l’anno scorso.

All’orizzonte si profila un incontro con il Ministero delle Pari Opportunità e hanno anche in programma di incontrarsi con il Ministero del Lavoro e dell’Agricoltura 1. Vogliono così passare la palla alle istituzioni affinché legiferino: “Sono loro che hanno il potere di cambiare tutto questo attraverso le leggi, non abbiamo altra scelta per cominciare. Per questo è un passo avanti che un ministero voglia ascoltarci”.

Una questione europea

Finora, las Jornaleras en Lucha sono state ascoltate al Parlamento europeo. Sono state invitate lì lo scorso 8 marzo dal gruppo GUE/NGL, che riunisce le sinistre alternative. “È stato un grande altoparlante. Ci hanno anche detto che avrebbero lavorato con noi. Almeno non ci hanno detto ‘ecco, arrangiatevi come meglio potete’, almeno si vede un impegno da parte loro e che ci tengono in conto come un progetto politico e sindacale“.

Per Pinto, la mancanza di alternative di lavoro spinge le persone a sopportare la loro situazione per non mettere in gioco il loro sostentamento ultimo. “Le donne che vengono dalle città, e tutte quelle che vengono a lavorare, non sono contente di quello che hanno, ma devono sopportarlo perché non hanno altro. Questo è qualcosa che dobbiamo prendere in considerazione e qualcosa che deve essere cambiato, e cioè che siamo diventati dipendenti da questo modello di agricoltura, un modello di agricoltura intensiva che distrugge tutto, non solo i diritti delle persone“.

Sempre da una prospettiva europea, l’organizzazione italiana Terra ha recentemente presentato il suo lavoro, “Il Caporalato, una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia2. “Il fatto che alla fine, affinché questo modello produttivo possa sostenersi, gran parte del peso ricada sull’anello più debole, i lavoratori e le lavoratrici, è qualcosa che è comune a tutti e tre i paesi. Abbiamo voluto evidenziare che la questione dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura deve essere affrontata a livello europeo“, riflette Mariangela Paone, autrice del capitolo dedicato alla Spagna.

E quando l’attivista italiana parla di livello europeo, si riferisce anche ad un monitoraggio di questa portata: “un organismo di coordinamento, perché ci sono aziende che reclutano da un paese all’altro, come le agenzie transnazionali di lavoro temporaneo, e anche perché le dinamiche di sfruttamento sono simili“. Paone parla di lavoro grigio, in Italia si usa questo termine per indicare la situazione in cui il lavoratore ha un orario di lavoro minore rispetto all’attività effettivamente prestata. In questo modo si ha una parvenza di legalità di fronte ad un’ispezione sul lavoro. Questo tipo di sfruttamento non c’è solo in Italia.

Il fatto che in molti Stati siano state proposte regolarizzazioni è il riconoscimento che una parte della nostra produzione si basa si una situazione di irregolarità amministrativa

Lavoratori in grigio, in nero, stagionali sotto il regime del caporalato, per Terra! è stato positivo che durante la pandemia, tutto questo lavoro sia venuto a galla, “il fatto che in molti Stati siano state proposte delle regolarizzazioni è il riconoscimento che una parte della nostra produzione si basa su una situazione di irregolarità amministrativa, che ovviamente lascia queste persone indifese di fronte a qualsiasi ricatto da parte dei produttori”. Ricorda anche che la debolezza è in correlazione – anche se non è giustificata – con quella di molti produttori per i quali è difficile andare avanti data la compressione dei prezzi. In ogni caso, il riconoscimento del lavoro essenziale non è durato a lungo.

Questa è anche l’impressione di Fabio Ciconte, direttore di Terra, che descrive l’attuale politica italiana come lontana da questi dibattiti, dopo che il paese ha optato per un processo di regolarizzazione limitato. “Grazie all’interpello di organizzazioni come Terra, c’è stato un dibattito politico molto forte all’interno del governo su questo. La regolarizzazione è stata fatta. Il decreto legge è stato approvato, il problema, dal nostro punto di vista, è che questa regolarizzazione ha avuto dei limiti“.

Hanno potuto beneficiarne solo le lavoratrici e i lavoratori nei settori dell’assistenza e dell’agricoltura, ma le procedure erano complesse, soprattutto per i lavoratori stagionali: “Il lato positivo è che 220.000 persone hanno chiesto di essere regolarizzate, ma la maggior parte di loro, tra l’80 e l’85% proviene dal settore dell’assistenza, perché per loro era più facile raccogliere la documentazione”, spiega il direttore di Terra. E anche se si rallegra del fatto che alcune persone abbiano potuto regolarizzare la loro situazione, avrebbe voluto vedere più coraggio politico per costruire cambiamenti più sostanziali.

Nel mezzo della crisi economica, con il discorso anti-immigrazione così radicato e i lavoratori ancora una volta resi invisibili, il coraggio politico è una risorsa che manca a coloro che vogliono porre fine allo sfruttamento agricolo, siano essi immigrati regolarmente o irregolarmente soggiornanti, autoctoni o arrivati in Spagna in base al sistema della contrattazione di origine. Per avere la possibilità di scegliere invece di accettare quello che viene.

  1. L’incontro si è svolto il 29 giugno 2021 (Leggi qui)
  2. Leggi il rapporto