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Le porteadoras, il dramma delle lavoratrici dimenticate

Intervista a Cristina Fuentes Lara, esperta in politiche migratorie e attivista di APDHA

Photo credit: Antonio Sempere

L’8 ottobre del 2019, il Marocco ha predisposto il blocco unilaterale di ciò che viene cinicamente chiamato “commercio atipico”. Delle donne porteadoras, di Ceuta e Melilla 1, che da anni mettono a rischio la loro vita, portando sulle loro spalle fino a 90 chili di merce per meno di 10 euro, se ne parlava poco già prima, ma ora se ne parla ancora meno.

Queste donne si spostano per il maggior numero di volte che gli è possibile tra le frontiere nel contesto di una “nuova forma di schiavitù”, diffusa a Ceuta e Melilla ormai da quasi mezzo secolo. Molte di loro muoiono schiacciate dalla calca che si forma negli stretti valichi di frontiera e sono inoltre vittime di diverse forme di violenza, ma tutti sembrano voltarsi dall’altra parte, infatti né in Spagna, né in Marocco e nemmeno in Europa vengono considerate lavoratrici.

La studiosa dei fenomeni migratori e docente presso l’Università Rey Juan Carlos di Madrid, Cristina Fuentes – premio nazionale per la lotta contro la violenza di genere nel 2018 – da anni studia questo fenomeno drammatico e, grazie alla sua collaborazione con l’Associazione Pro Diritti Umani dell’Andalusia, denuncia le violazioni di cui sono vittime queste donne.

Secondo il dossier pubblicato da questa associazione nel 2016 – un nuovo rapporto è stato reso pubblico quest’anno 2 – oltre 7.000 donne “sono sottoposte quotidianamente a vessazioni, abusi, trattamenti degradanti e le più giovani sono anche vittime di molestie sessuali”. Le donne porteadoras portano sulle loro spalle tra i 60 e i 90 chili per ore e “vengono insultate, molestate e disprezzate, obbligate a rimanere in fila per ore e picchiate se non lo fanno, tutto ciò per meno di 10 euro al giorno”.
Stanno in fila per ore sotto il sole sulla spiaggia del Tarajal senza potersi riparare all’ombra né avere accesso ad acqua potabile o a bagni pubblici.

Uno studio dell’Università di Granada intitolato “Indagine sul regime economico e fiscale di Ceuta” mette in evidenza che “circa la metà delle esportazioni partono da Ceuta sulle spalle delle donne porteadoras, si tratta di un’attività illegale stimata per più di 400 milioni di euro”, inoltre si sottolinea che “questi benefici si fondano sulla violazione dei diritti umani ai danni di queste donne, che hanno bisogno di un lavoro per mantenere le loro famiglie”.

Photo credit: Cristina Fuentes, Passo de El Biutz
Photo credit: Cristina Fuentes, Passo de El Biutz

Cristina, siamo abituati a sentir parlare di commercio atipico, di problemi legati alla situazione di frontiera o del caos in cui si trova il Tarajal… però sappiamo pochissimo sulle porteadoras, chi sono queste donne?
Si tratta di donne marocchine che tutti i giorni attraversano la frontiera spagnola (da Ceuta o Melilla) trasportando carichi di merci. Risiedono nei villaggi situati nei pressi della frontiera e hanno tra i 40 e i 55 anni. Alcune di loro sono sposate, altre vedove o divorziate, ma indipendentemente dal loro stato civile, sono loro a mantenere economicamente il loro nucleo familiare, in quanto il marito è disoccupato da molto tempo o è impossibilitato a lavorare. Inoltre, queste donne hanno in media dai 3 ai 5 figli a carico.

Com’è la loro quotidianità?
Dunque, la loro giornata inizia intorno alle 3 del mattino. Si alzano, preparano la colazione per la loro famiglia e prendono un taxi collettivo per la frontiera. Poi si mettono in fila al valico fino a quando possono dirigersi verso il lato spagnolo. Dopodiché si dirigono verso le navi container (nel caso di Ceuta) e i tir (nel caso di Melilla). Lì prendono i pacchi con la merce e li trasportano fino all’altro lato della frontiera, dove l’acquirente della merce aspetta il suo pacco. Come compenso per il loro lavoro ricevono una paga tra i 10 e i 25 euro; poi tornano nelle loro case.
Tra i rischi del loro lavoro occorre menzionare: la confisca della merce da parte della polizia, il divieto di oltrepassare la frontiera con i pacchi e il vedersi costrette a pernottare nelle Città Autonome, oltre alle violenze perpetrate dalla polizia di cui sono spesso vittime e la calca.

Alcune di loro hanno perso la vita…
Si, sono morte almeno 10 donne porteadoras durante lo svolgimento del loro lavoro, quasi tutte a Ceuta e a causa della calca che si forma per poter prendere un pacco o della merce.

Sulla base di ciò che queste donne le hanno raccontato, loro cosa pensano?
Pensano che è il loro lavoro, che non hanno alternative per poter mantenere le loro famiglie. Chiaramente, pensano che possa essere una situazione temporanea, un mestiere che devono svolgere fino a un miglioramento della loro situazione economica. In Marocco, questo mestiere gode di bassissimo prestigio sociale e per questo spesso queste donne mentono alle loro famiglie sul lavoro che svolgono, facendosi passare per domestiche a Ceuta o Melilla.

Perché è nell’interesse di entrambe le parti che le porteadoras continuino a essere grandi dimenticate?
Dunque, perché rappresentano l’anello più debole del commercio atipico. Lavorano e vengono rese invisibili. Influiscono anche altri due fattori: da una parte il fatto che il loro lavoro non gode di alcun prestigio sociale in Marocco e dall’altra il fatto che essendo considerato illegale in Marocco, loro fanno contrabbando e quindi non possono agire in alcun modo.

Quali sono i rischi che corrono queste donne se questo trasporto di merci diventa illegale?
Secondo la prospettiva marocchina l’attività lavorativa delle donne porteadoras è considerata illegale mentre in Spagna è non regolamentata. Il divieto di trasporto di merci è legato a un cambiamento nella gestione politica marocchina, più che a un cambiamento nella gestione della frontiera da parte del Marocco.
Dall’ottobre del 2019, la frontiera è chiusa al traffico di merce e loro sopravvivono grazie al mutualismo di quartiere e alla rete di assistenza.

In collaborazione con l’Associazione a favore dei Diritti Umani dell’Andalusia ha elaborato un dossier su questa tematica, quali sono i suoi punti chiave?
Sono tutti raccolti nel decalogo delle misure del dossier del 2016. In linea generale proponiamo la riduzione del peso massimo del bagaglio a 20 kg; la chiusura immediata del passaggio del Biutz, in quanto non rispetta gli standard minimi di sicurezza; il rispetto della dignità delle persone; l’apertura del passaggio del Tarajal II, con aree di riposo e servizi come bagni pubblici, fonti idriche e aree all’ombra; che le donne corriere vengano considerate lavoratrici; il miglioramento delle infrastrutture della frontiera del Tarajal, che è ormai obsoleta; la delineazione delle competenze dei diversi corpi di sicurezza a entrambi i lati della frontiera; la creazione di protocolli di intervento sull’uscita delle merci; l’apertura di una dogana commerciale tra Ceuta e il Marocco che permetta un attività commerciale legale e dignitosa.

Proprio questo dossier mette in evidenza che nel 2014, questa attività commerciale ha registrato 1.400 milioni di euro annui, un terzo dell’economia delle due città autonome spagnole. Ci sono stati miglioramenti per quanto riguarda le condizioni lavorative di queste lavoratrici?
Nessuno. Non è cambiato nulla per quanto riguarda la loro situazione: né in Spagna, né in Marocco, né in Europa vengono considerate lavoratrici.

Il trasporto di merci si fonda su una struttura di tipo patriarcale?
Si, infatti analizzando nel dettaglio il sistema in cui lavorano le donne porteadoras si nota che gli acquirenti delle merci, i commercianti e gli agenti di polizia sono tutti uomini, e solo le persone che portano avanti il lavoro più denigrato nella maggior parte dei casi sono donne.

All’interno della società marocchina c’è coscienza riguardo a ciò che accade alla frontiera?
Assolutamente, tutti i soggetti all’interno del contesto di frontiera sono a conoscenza della violazione dei diritti umani ai danni di queste donne.

E in Europa?
L’indifferenza. L’Associazione a favore dei Diritti Umani dell’Andalusia ha esposto la situazione delle donne corriere al Parlamento Europeo, che ha risposto con il silenzio. Sono a conoscenza della situazione, ma non fanno nulla.

Secondo lei, cosa ha in serbo il futuro per le donne porteadoras?
Dunque, molte di loro in futuro lavoreranno come collaboratrici domestiche, nel settore dell’assistenza o delle vendite al dettaglio nelle medine delle loro città.

  1. Le città autonome spagnole in territorio marocchino
  2. Scarica il rapporto “Porteadoras: La feminización de la pobreza en la Frontera Sur“, APDHA – 8 marzo 2021