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Le prime pronunce della Cassazione sui profili di diritto intertemporale del riformato art. 14 t.u. imm.

Nota a Cass., sez. I pen., sent. 23.9.2011 (dep. 10.10.2011), n. 36451, Zinoubi, Pres. Chieffi, Est. Capozzi

1. Giunge all’attenzione della Cassazione (oltre alla sentenza pubblicata in allegato, lo stesso collegio ha emesso alla medesima udienza identica pronuncia nel procedimento Isoken, n. 36446) il problema dell’applicabilità dei riformati delitti di cui all’art. 14 co. 5 ter e quater t.u. imm. (delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore) anche ai fatti compiuti prima delle modifiche apportate nel mese di giugno dal d.l. 89/2011 (poi convertito, senza significative modifiche, dalla l. 129/2011 del 2 agosto).

Con tale decreto, il legislatore ha trasposto nell’ordinamento interno il contenuto della cd. direttiva rimpatri – il cui termine di attuazione era peraltro già venuto a scadenza il 24 dicembre 2010 –, introducendo significative innovazioni al sistema di esecuzione delle decisioni di rimpatrio emesse nei confronti dello straniero extracomunitario irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato.

Tra le altre modifiche, il legislatore è intervenuto anche sui delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento puniti all’art. 14, che la sentenza El Dridi della Corte di Giustizia UE aveva dichiarato comunitariamente illegittimi, in quanto la previsione di una pena detentiva a carico dello straniero inottemperante risultava in contrasto con la direttiva rimpatri. Per rendere conformi le incriminazioni ai principi affermati in sede europea, il legislatore ha riscritto le fattispecie incriminatrici, sostituendo in particolare la pena della reclusione con quella della multa.

Un problema che la dottrina e la giurisprudenza di merito si erano già trovate ad affrontare riguardava i profili di diritto intertemporale: tra le due versioni dei delitti di cui all’art. 14 co. 5 ter e quater sussite un rapporto di continuità sussumibile all’interno della disciplina dell’art. 2 co. 4 c.p. (con conseguente perdurante punibilità dei fatti di inottemperanza iniziati prima della riforma, a cui in virtù del principio di retroattività in mitius era da applicare il trattamento più favorevole introdotto dal decreto legge), o invece il fenomeno successorio è qualificabile come abolitio criminis con contestuale introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice, ai sensi dell’art. 2 co. 1 e 2 (con conseguente non punibilità dei fatti iniziati prima della riforma)?

La risposta fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza era stata univocamente nel senso da ultimo prospettato, ma con diversità di argomentazioni. Alcune sentenze ed alcuni autori avevano escluso l’applicabilità della nuova norma ai fatti compiuti in precedenza ritenendo che tra le due versioni della fattispecie sussistesse una “discontinuità nel tipo di illecito” (in questo senso M. Gambardella, Le conseguenze di diritto intertemporale prodotte dalla pronuncia della Corte di giustizia El Dridi (direttiva “rimpatri”) nell’ordinamento italiano, in questa Rivista; A. Natale, La direttiva 2008/115/CE e il decreto legge di attuazione n. 89/2011. Prime riflessioni a caldo, ibidem; Trib. Torino, 29.6. 2011, ibidem); in altri contributi si era invece sostenuto che, a prescindere dal rapporto di continuità o discontinuità tra le due versioni della norma, la non punibilità dei fatti precedenti al decreto derivasse dal fatto che nel periodo tra l’acquisizione di efficacia diretta delle norme della direttiva (dicembre 2010) ed il decreto-legge (giugno 2011) le condotte incriminate avevano perso rilevanza penale, ed in virtù del principio dell’applicabilità della lex intermedia più favorevole ciò rendesse non più punibili i fatti compiuti prima della reintroduzione del reato (così L. Masera, Il ‘nuovo’ art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98 e la sua applicabilità nei procedimenti per fatti antecedenti all’entrata in vigore del d.l. 89/2011, in questa Rivista; analogamente, in giurisprudenza, Trib. Pinerolo, 14.7.2011, ibidem)
 

2. La Corte di Cassazione, con una motivazione per la verità assai succinta, mostra di condividere la tesi dell’abolitio criminis, riprendendo entrambi i percorsi argomentativi appena ricordati.

La Corte ritiene, infatti, che l’attuale formulazione dei delitti di cui all’art. 14 “non può dirsi in continuità normativa con la precedente versione, in tal modo confermando l’avvenuta abolitio criminis, non solo per il distacco temporale intercorso tra la sua emanazione e l’emissione della direttiva comunitaria, ma anche per la diversità strutturale dei presupposti e la differente tipologia della condotta richiesta per integrare l’illecito penale in esame. Invero, in base alla nuova normativa, all’intimazione di allontanamento può pervenirsi solo dopo l’esito infruttuoso dei meccanismi agevolatori della partenza volontaria ed allo spirare del periodo di trattenimento presso un centro a ciò deputato”.

La decisione non brilla, invero, per chiarezza. Il riferimento al distacco temporale sembra alludere all’intervento medio tempore di una lex intermedia abolitiva dell’incriminazione, senza che – peraltro – siano esplicitate le ragioni per le quali la sopravvenuta inapplicabilità della prima incriminazione per effetto della scadenza del termine di attuazione della direttiva, secondo quanto ritenuto dalla Corte di giustizia, debba essere equiparata ad una vera e propria abolitio; quanto alla presunta diversità strutturale tra le fattispecie, non si argomenta da quali elementi si ricavi tale diversità, mentre il riferimento alle modifiche che hanno interessato il procedimento espulsivo sembrerebbe evocare, più che un mutamento della struttura della fattispecie, il diverso problema del mutamento di una normativa extra-penale che funga da presupposto dell’incriminazione, e che non comporta secondo i principi generali un problema di successione di leggi penali.

Trasparente la volontà della Corte di chiudere definitivamente la pagina della punibilità dei reati dichiarati illegittimi dalla Corte UE, completando così il percorso – iniziato subito dopo la sentenza El Dridi – che aveva già condotto la giurisprudenza unanime alla revoca delle sentenze definitive di condanna pronunciate per l’art. 14. Resta purtuttavia la sensazione di un mancato approfondimento, da parte del giudice di legittimità, delle (difficili) questioni nuove in materia di successione di leggi penali sollevate dalla complessa vicenda normativa e giurisprudenziale che ha interessato l’art. 14.