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A cura di Laura Mezzanotte

Le ragioni della xenofobia

Jean-Marie Le Pen, in Francia, ha rischiato di vincere le elezioni brandendo la spada contro gli immigrati, colpevoli di insidiare l’identità gallica. Jorg Haider invece ce l’ha fatta, garantendo ai suoi compatrioti una poco piacevole immagine razzista. Sulla pelle degli immigrati, Umberto Bossi ha costruito buona parte delle sue fortune politiche.

I peccati mortali attribuiti agli extracomunitari vanno dal rubare il lavoro ai nativi, all’essere tutti più o meno criminali.

I dati economici ovviamente smentiscono e si sa, ad esempio, che il motore economico della Padania corre anche grazie alla manodopera extracomunitaria ormai indispensabile. Discorso simile per Francia, Spagna, Austria e così via.

Manodopera è la parola chiave. Gli stati europei hanno concesso, più spesso incoraggiato, l’immigrazione che serviva alle fabbriche. Senza prendere in considerazione le necessità delle persone (una casa, servizi sanitari, scuole per i figli) e nemmeno le difficoltà che queste possono incontrare nella convivenza.

Secondo il professor Luigi Melica, docente di diritto pubblico comparato all’Università di Lecce, esperto di immigrazione (ha pubblicato Lo straniero extracomunitario. Valori costituzionali e identità culturale, Giappichelli, Torino, 1996) e particolarmente di normative della materia in campo europeo, è stata proprio questa assenza di politiche mirate all’accoglienza e all’integrazione a creare i problemi che hanno fatto da brodo di coltura per la montata xenofoba di questi ultimi tempi.

Ora, proprio la Francia sta correndo ai ripari con recentissime e nuovissime politiche. Nigrizia lo ha intervistato.

Quali sono le differenze principali tra le nostre regole e quelle degli altri paesi europei?

Una prima differenza esiste tra Francia da una parte e Italia e Spagna dall’altra, per quanto riguarda la regolazione degli ingressi con riferimento al sistema delle quote.

Da noi e in Spagna esiste una disciplina annuale che stabilisce le quote di ingressi. Si decide a priori quante persone possono entrare e in quali settori. E questo fa da sbarramento. Capita quindi che esistano richieste dei datori di lavoro, ma il decreto flussi non sia stato ancora emanato e il vecchio decreto abbia esaurito i suoi numeri. In quel caso la persona non può entrare, anche se possiede i requisiti e ci sarebbe per lei un posto di lavoro.

In Francia invece c’è un meccanismo di ingresso fondato sulla gradualità. Si può entrare con visti che vanno da tre mesi a un anno. La persona deve dimostrare di avere un’offerta di lavoro. In questo modo viene lasciato alle dinamiche del mercato del lavoro stabilire la quantità di immigrati. Il permesso è di un anno, ma sono poi previste pene severissime per chi fa lavorare clandestini. Il primo permesso può essere rinnovato, se la persona dimostra che esiste ancora il lavoro. Questo vale per i primi tre anni, a seguito dei quali si può ottenere una specie di permesso di residenza. La cosiddetta carta di residenza vale per dieci anni.

E per quanto riguarda i meccanismi di espulsione?

Questi vanno a chiudere il sistema francese. Il divieto vale per chi può dimostrare di essere presente sul territorio francese da 15 anni, anche se lo è stato in modo clandestino, oppure da chi vive regolarmente in Francia da più di 10 anni.

In Italia oggi invece le questure arrivano a non rinnovare il permesso di soggiorno a persone che sono qui da 10 o 15 anni, gente arrivata coi primi flussi dell’86 e che magari oggi sono già anziani. Le questure applicano la norma col bilancino ed espellono in base al fatto che queste persone non hanno reddito, senza contare, ad esempio, lo stato di malattia che può aver fatto perdere il lavoro.

La Spagna invece ha una norma simile a quella francese: per chi può dimostrare di aver avuto un permesso di soggiorno da almeno 5 anni c’è il divieto di espulsione.

Va detto che una norma analoga esisteva nel decreto Dini del ’95, molte volte reiterato, ma alla fine non convertito in legge. Era una norma che tagliava molto del potere delle questure.

Invece nel presente disegno di legge Bossi-Fini si amplia questo potere perché, al mancato rinnovo del permesso di soggiorno di persone che erano regolarmente in Italia, i questori possono espellere la persona con obbligo di accompagnamento alla frontiera. Il ricorso al giudice contro la decisione del questore aveva prima un termine di 15 giorni e il giudice era obbligato a sentire la persona espulsa. I magistrati, in gran parte, annullavano le decisioni di polizia. Ora il ricorso ha un termine di 60 giorni però non c’è più l’obbligo per il giudice di ascoltare il ricorrente. L’unico correttivo sta nell’obbligo, in caso di accompagnamento coattivo (che fuori dai termini giuridici vuol dire prendere la persona e caricarla su un aereo), di ottenere un nullaosta del magistrato, ma sempre senza sentire la persona interessata.

Che cosa accade a livello comunitario?

Premettiamo che, teoricamente, entro la fine di quest’anno tutta la disciplina relativa all’ingresso e soggiorno degli immigrati diventerà prerogativa della Ue. Le direttive comunitarie in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri (previste dal trattato di Amsterdam) sono già state presentate e si tratta di discipline minime, nel senso che se un ordinamento vuole dettare norme di maggior favore, può farlo.

Per quanto riguarda gli ingressi si adotta il principio della gradualità, con una verifica approfondita che la persona abbia un lavoro e lo mantenga per almeno cinque anni. Alla fine si arriva alla carta di soggiorno (il disegno di legge italiano tra l’altro sposta il termine da 5 a 6 anni) che comporta una sorta di cittadinanza comunitaria.

Come funzionano le politiche di accoglienza e quali sono le differenze rispetto alla situazione italiana?

In alcuni paesi europei esistono politiche di accoglienza e meccanismi che seguono l’adattamento della persona alla nuova società. La Francia (insieme all’Olanda) è l’esempio più interessante perché le norme adottate recentemente mirano a prendere per mano la persona che entra nel territorio e si trova in una situazione di potenziale disagio. Questa viene aiutata a valutare le proprie capacità e possibilità, a trovare un inserimento lavorativo adeguato, a capire il funzionamento delle strutture e dei servizi del paese.

In Olanda c’è un sistema simile già in funzione e qui, ad esempio, sono previsti perfino corsi di lingua obbligatori. In Francia sono i singoli comuni che gestiscono la cosa, con funzionari ad hoc, che diventano una sorta di pseudotutori delle persone che contattano. I soldi e le politiche sono naturalmente nazionali, ma la gestione è degli enti locali. Queste politiche non sono ovviamente pura espressione di bontà, ma partono dalla constatazione che esiste una tendenza di certe minoranze ad uscire dalla legalità quando si trovano in difficoltà. Quindi si cerca di prevenire.

Di tutto questo in Italia non c’è traccia. Le iniziative di tutoraggio, di aiuto all’integrazione, sono tutte private, a volte per iniziativa di enti locali, a volte provenienti dal no profit, dal sindacato o dalla chiesa. Ma non c’è alcun coordinamento.

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L’Italia quindi non ha mai preso in considerazione il problema. Che sia solo il vecchio vizio italiano di non affrontare i nodi e sperare in San Gennaro? O forse dobbiamo pensare che, magari inconsciamente, l’unica cosa che veramente vuole la stragrande maggioranza è che gli immigrati vengano e lavorino e poi scompaiano? In quel caso ci permettiamo un’indicazione di metodo: copiare quel che facevano i sudafricani durante l’apartheid. Erano dei veri maestri.