Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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di Alessandra Sciurba

Le rivolte che mettono a nudo la verità

“Erano egiziani. Si sono ribellati al fatto che la loro espulsione avverrà a breve. La polizia del loro paese viene direttamente a riconoscerli per riprenderseli”. Più o meno sono queste le affermazioni riportate oggi dal Corriere della Sera, il cui piccolo articolo quasi a fine giornale racconta anche quali gravi danni abbiano subito le strutture del Cpt di Gradisca quando i rivoltosi si sono resi conto che non ce l’avrebbero fatta e che restava loro solo qualche minuto ancora per sfogare la rabbia. Peccato, hanno rovinato i pasti speciali, amorevolmente preparati con molto rispetto della diversità religiosa e culturale, per i musulmani che sono in periodo di Ramadan.
Per il resto, nelle cariche, tra i lacrimogeni, c’è andata di mezzo una bambina di otto mesi che, a sentire i media ufficiali, sembra essere passata di lì per caso e che comunque, dopo appena una notte in ospedale si trova adesso in ottima salute.

Meno male, viene quasi da dire nella rabbia, meno male che qualche volta (appena il 30% delle volte, a voler essere generosi) i Cpt svolgono la funzione per la quale ufficialmente sarebbero stati creati e vengono comunemente descritti come indispensabili: espellere la gente, deportarla con la forza militare. Meno male perché altrimenti si potrebbe credere che veramente questi posti sono luoghi di accoglienza, che lì dentro i migranti sono ‘ospiti’, che hanno tutto quello che serve loro, e che ogni cosa, in questa nuova fase di ‘umanizzazione’ della detenzione amministrativa e del concentramento, funziona benissimo con grande soddisfazione pure degli internati.

E invece no. L’umanizzazione, fortunatamente, finisce dove la ribellione e le rivolte iniziano. La ribellione e le rivolte mettono a nudo la verità del concentramento. Di fronte alla ribellione e alle rivolte bisogna imbracciare le armi, rompere le teste, sparare lacrimogeni mentre la retorica umanitaria rivela tutta la sua ipocrisia, rivela la sua essenza: una copertura, l’altra faccia della medaglia, ciò che rende legittima la guerra ma placa le coscienze. La ribellione e le rivolte hanno fatto luce su questo inganno, per chiunque avesse voglia di ascoltare, di riflettere, di capire, ora dovrebbe essere tutto chiaro. Parlando in generale dei meccanismi punitivi e delle pratiche della loro normalizzazione ad opera dei cosiddetti riformatori, Foucault ( in Poteri e strategie) scriveva già qualche decennio fa che il vero cambiamento “non avviene perché qualcuno ha messo un progetto di riforma in testa agli assistenti sociali; ma avviene quando coloro che hanno a che fare con una certa realtà, quando tutti questi si scontrano tra loro e con se stessi, incontrano ostacoli, imbarazzi, impossibilità, attraversano conflitti e scontri. Quando la critica viene giocata all’interno del reale, e non quando i riformatori realizzano le loro idee”.

Eppure, si sente ancora dire che il problema è allora quello di costruire luoghi di detenzione più piccoli, con meno “ospiti” e più forze di polizia. Luoghi più gestibili, umani appunto, “a misura d’uomo e di poliziotto”. Del resto, appena una settimana fa la direttiva comunitaria sui rimpatri (che dovrà essere a breve definitivamente approvata) ha dato per scontata anche a livello europeo l’imprescindibilità della detenzione amministrativa come dispositivo di controllo della mobilità e di esercizio della sovranità sul territorio. Ne ha fissato il limite temporale (scegliendo di andare al rialzo: 18 mesi, come già avviene a Malta o in Germania, tra i paesi in cui il periodo di detenzione è più lungo) e ne ha stabilito alcuni criteri uniformi di gestione.

Tutto viene quindi spacciato come una questione di gestione e di riforme. Il resto, ciò che sfugge alla gestione e alle riforme, sono effetti collaterali. Nella testa dei gestori e dei riformatori non serve neppure chiedersi cosa ci faccia una bambina innocente insieme alla sua mamma innocente e per giunta eritrea (quindi assolutamente candidata a ricevere l’asilo o la protezione umanitaria) dietro le mura immense e il filo spinato di un posto terrificante come il Cpt di Gradisca.
La gente comune, quella che magari potrebbe porsi questa domanda, quella che deve esistere da qualche parte perché non è possibile che siamo diventati tutti un popolo di linciatori di rom e di xenofobi, probabilmente neppure verrà raggiunta dalla notizia di quanto accaduto nella notte del 23 settembre.
Perché non si tratta certo della piccola Maddy sparita in Portogallo, con la sua mamma iper telegenica e capace di suscitare il morboso attaccamento televisivo del pubblico italiano e mondiale. Non si tratta neppure della bella ragazza di Garlasco, forse ammazzata da un fidanzato che la folla è già pronta a linciare.

Si tratta invece delle vittime dell’apartheid europeo, delle quali non frega niente a nessuno e che la politica di questo governo ( di questo governo e non m’importa niente che quello di prima chissà cosa avrebbe fatto di peggio…) ha convinto ancora di più a considerare solo un fastidio da confinare, o ben che vada una merce da sfruttare, confezionata in categorie di lavavetri, badanti, “zingari” (nell’ignoranza più assoluta sono chiamati così ormai tutti i non cittadini comunitari provenienti vagamente dall’Est) o se capita anche di bambine eritree di otto mesi che si vanno giusto a trovare in mezzo ad un’azione di doverosa repressione da parte della polizia.

Vorrei sentire cosa ha da dire adesso il direttore della cooperativa che ha accettato di gestire il Cpt di Lampedusa, o chiunque della Legacoop lavori a Gradisca. Vorrei sapere cosa riescono ancora a dire a giustificazione della loro opera di umanizzazione, se qualcuno si è reso finalmente conto che nelle pratiche di detenzione amministrativa di innocenti e di concentramento e confinamento di non cittadini il loro lavoro diventa solo il pretesto e la giustificazione per continuare rimuovendo ogni scrupolo di coscienza e conciliando l’inconciliabile: la violazione dei diritti fondamentali delle persone attraverso leggi e prassi apertamente razziste, e il rassicurante senso di benessere che si prova quando ci si possono togliere gli scrupoli di coscienza “perché tanto ci sono gli operatori umanitari” che se ne occupano.

Una cosa che oggi più che mai viene voglia di dire, che sarebbe il caso di scrivere ovunque, che bisognerebbe tutti affermassero con la stessa semplicità con cui dicono il proprio nome e cognome: i Cpt non sono “necessari”. Anzi, non servono a nessuno degli scopi dichiarati. Ormai lo sanno anche i bambini. Da quel punto di vista, quello delle espulsioni e degli allontanamenti non servono quasi a niente (orrendo parlare così della deportazione di donne uomini e bambini, ma rispetto al nostro ragionamento ci serve dirlo) . I Cpt hanno ben altre funzioni: politiche, poliziesche, economiche, simboliche. Servono agli Stati nazionali in crisi per dimostrare che hanno ancora il controllo del loro territorio e che sono ancora capaci di curare i loro cittadini rispetto alle ansie prodotte proprio dalle politiche ufficiali; servono al mercato del lavoro perché producono come una fabbrica clandestini pronti per l’uso, ricattabili e sprovvisti di diritti a tempo indeterminato, servono in generale ai poteri della società di controllo nella quale ci ritroviamo a vivere perché sono laboratori di confinamento dove affinare tutta una serie di pratiche di gestione della popolazione estendibili anche ad altre categorie di individui.

E basta, inoltre, per favore, con questa storia che i Cpt servono “perché sennò quelli che arrivano dove li mettiamo, perché va bene migliorare le strutture, renderli più decenti, ma da qualche parte dovremo pure identificare tutti questi che vengono in massa…”.
È tutto tremendamente finto, non c’è una parola sola che venga detta a seguito di un’analisi obiettiva della realtà. Se questa venisse fatta, se solo lucidamente si smettesse di usare le migrazioni come spauracchio di tante altre cose, risulterebbe lampante, evidente, cristallino, il fatto che ci sarebbero mille altre soluzioni. Una innanzitutto: canali di ingresso legale. Persone libere che arrivano dritte sulle loro gambe senza bisogno di rischiare la vita in un gioco crudele di detenzione, respingimenti, ancora partenze e clandestinità obbligata. Persone che avendo pagato un normale biglietto aereo hanno ancora in tasca tutti quei migliaia di euro spesi per compiere un tragitto che ad un europeo costerebbe dieci volte di meno e possono pensare serenamente a come iniziare una nuova vita.

Intanto però, a prescindere, immediatamente, i cpt vanno chiusi. Subito! E non doveva essere necessaria neppure una soltanto delle centinaia di morti che in tutta Europa si sono consumate al loro interno, neppure uno soltanto dei mille scandali che ne hanno costellato l’esistenza.
Ma in questo modo finirebbe un business italiano e internazionale. Dai passeurs agli imprenditori, dal cittadino medio che sottopaga una badante a tutti gli operatori umanitari che guadagnano dentro i centri di detenzione e concentramento.
Varrebbe la pena di rischiare di perdere tutto questo, solo perché non avvenga mai più che una piccola bambina di otto mesi, riuscita a scampare alla morte in Eritrea, rischi poi di morire intossicata dai lacrimogeni italiani sparati contro gli “ospiti” un po’ recalcitranti di un umanizzato centro di “accoglienza”?