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tratto da Il Manifesto.it

Le serre di el Ejido e i loro fantasmi

di Roberto Carlotti*

EL EJIDO (ALMERÍA)- Un paesaggio apocalittico, montagne brulle, terra desertica, afa, molte mosche e una distesa biancastra all’orizzonte. Chilometri e chilometri di serre che occultano centinaia di ettari di coltivazioni intensive, un vero e proprio oro verde che ha catapultato la provincia di Almerìa, la più orientale dell’Andalusia, storicamente depressa e dimenticata, ai vertici del mercato ortofrutticolo spagnolo. Uno dei centri più importanti dell’area è el Ejido, destino di molti emigranti e al centro delle cronache da diversi anni. L’episodio più importante di una lunga serie di intimidazioni e pestaggi di stampo xenofobo ebbe luogo nel gennaio del 2000 quando, in seguito all’assassinio di due persone e il ferimento di altre due da parte di immigranti di origine marocchina, centinaia di persone scesero in strada aggredendo gli immigranti e distruggendo i loro locali. Tutto l’odio larvato per anni tra due comunità che si necessitano mutuamente ed economicamente ma che si evitano socialmente, scoppiò in un’orgia vandalica che non rispettòÍ niente e nessuno. Due impresari di el Ejido, recentemente condannati a 15 anni di reclusione per il sequestro ed il pestaggio reiterato di tre immigranti nel dicembre del 1997, hanno presentato una richiesta formale di indulto, accompagnata da 57.214 firme e due certificati di buona condotta firmati dal polemico sindaco Juan Enciso, del Partido popular. In dichiarazioni pubbliche, gli accusati hanno affermato che nel caso in cui l’indulto venisse loro negato si correrebbe il rischio di una frattura sociale simile a quella del 2000, con la conseguente esplosione di violenza xenofoba.

Negli ultimi mesi le minacce, intimidazioni e pestaggi nei confronti di membri della comunità maghrebina sono aumentati considerevolmente, obbligando varie organizzazioni civili presenti in Andalusia, come l’Associazione per i diritti umani di Almerìa, l’Associazione donne progressiste de el Ejido e lo stesso sindacato Soc (Sindicato obreros del campo) a presentare una denuncia formale per discriminazione e razzismo presso il tribunale regionale di Siviglia. Nelle strade di el Ejido si percepisce questo conflitto latente che segna la quotidianità dei suoi abitanti.

Dieci anni nelle serre

Abdelkader Chacha, originario di Nador, Marocco, è qui da 16 anni. Dopo aver trascorso più di dieci anni nelle serre, un giorno una falciatrice gli spezzò entrambe le ginocchia rompendo definitivamente le possibilità di una vita lavorativa «normale». Fortunatamente riuscì a salvare le gambe e ora Abdelkader è la punta di lancia araba del Soc. È ancora in attesa di un risarcimento. «Il Soc è ad Almerìa da 4 anni. E’ un sindacato atipico rispetto alla norma, si rivolge in primo luogo ai lavoratori agricoli. In nessun luogo della geografia spagnola i diritti del lavoratore vengono calpestati come nel ponente almeriense. Il lavoratore viene braccato dalla polizia, come nella caccia ai conigli: si effettuano ronde notturne in cerca di «illegali» e molti lavoratori che vivono in alloggi di fortuna costruiti con materiali di recupero, allertati dalle luci dei fari, si danno alla fuga. Sono principalmente maghrebini senza documenti di soggiorno, situazione molto appetibile per gli impresari che possono ingannare il lavoratore, evitando di pagarlo nei termini stipulati dal contratto nazionale di lavoro. Il nuovo contratto, firmato nel 2000, parla di 39 euro al giorno per 36 ore alla settimana ma la realtà è ben altra: 25 euro per persone che lavorano dall’alba al tramonto. Quasi nessuno rispetta il contratto, anche perché non esiste un controllo. L’unico controllo esistente è nei confronti degli immigrati. Molti si ammalano, perché le condizioni di sicurezza sono ignorate e le sostanze anticrittogamiche utilizzate senza misure di sicurezza: niente guanti, mascherine, tute. Sono numerosi i casi di emicranie croniche, tumori ai polmoni e alla pelle, con il risultato che diversi non possono più lavorare, almeno in queste condizioni». Molti braccianti, dopo anni di esposizione agli agenti chimici, si sono ritrovati impotenti.

Secondo le nuove regole, anche qui si è cercato di «schiarire» la manovalanza importandola via charter dai paesi dell’Est europeo con regolare contratto di lavoro (ciò che è successo per esempio nella provincia di Huelva, all’estremo occidentale dell’Andalusia, dove per la raccolta stagionale delle fragole, ai tradizionali lavoratori maghrebini e zingari portoghesi sono subentrate volenterose ragazze dell’Est, innescando non pochi conflitti), ma «il lavoro nelle serre è talmente estremo, quando all’esterno ci sono 40 gradi dentro ce ne sono 50-60, che la maggior parte ha desistito dopo un mese. Evidentemente solo gli africani sopportano, è il caso di dirlo, queste temperature. Gli altri sindacati non hanno interesse a denunciare gli impresari né le aggressioni, firmano gli accordi a tavolino e non ne controllano quasi mai sul campo la messa in pratica, né ascoltano le opinioni dirette dei lavoratori». I lavoratori, da parte loro, sotto il ricatto implicito del lavoro nero sono costretti a far buon viso al cattivo gioco imprenditoriale, salvo nei casi estremi. Di scioperi o proteste nemmeno a parlarne.

L’Andalusia, dove il 2% dei proprietari terrieri posseggono il 50% delle terre, è uno dei veri e propri feudi del sistema del señorito, padrone di fattorie e signore delle sue terre. Sistema di vassallaggio di tipo feudale nel quale, fino a poche generazioni fa, vigeva ancora il sistema dello ius primae noctis. Il signore comandava sulle sue genti. Gli attuali impresari de el Ejido, molti dei quali figli di ex braccianti o che hanno vissuto l’esperienza dell’emigrazione, replicano un sistema centenario basato sullo sfruttamento sistematico, grazie alle labili leggi che governano il mondo del lavoro.

«Come Soc abbiamo chiesto per tre volte un incontro con il sindaco per parlare dell’immigrazione, dei problemi dei braccianti, delle condizioni abitative e regolarmente si è rifiutato di incontrarci. Ultimamente abbiamo organizzato un incontro e chiesto al comune un locale. Non ci hanno concesso una sala e abbiamo dovuto ricorrere all’aiuto di Mohamed Boutarfaz, organizzando la due giorni nel suo locale, durante un fine settimana. Il lunedì seguente il locale è stato saccheggiato da sconosciuti e la polizia municipale ha eseguito una perquisizione chiedendo a Mohamed tutti i documenti, i permessi ecc. È chiaro che il sindaco non vuole sentir parlare di immigrazione, soprattutto se maghrebina».

La tv trasmette Al Jazeera

Tra un tè arabo e l’altro, sullo sfondo la televisione trasmette Al Jazeera. Abdelkader mi presenta Abdel Ouahid Hammouch, responsabile del Bar el Tubo e involontario protagonista di uno degli ultimi episodi di violenza. «Sono qui dal 1988. Arrivai in Spagna su di una barcaccia, clandestinamente. Avevo 29 anni. A quel tempo non c’erano quasi emigranti. Trovai lavoro come guardiano di bestiame e ci rimasi per sei anni, poi lavorai nell’edilizia fin quando riuscii a portare qua la mia famiglia, nel 1998. Vivevo in una casa all’interno dei terreni della fattoria. Ho otto figli e quando il maggiore ha compiuto diciotto anni ci siamo messi d’accordo per aprire un bar, così affittammo un locale. E da li nacquero i problemi». Agli inizi di maggio si presentarono al bar due agenti della polizia municipale: quello che doveva essere un normale controllo di routine trasformò il locale in un saloon di un film del West dopo una rissa: finestre rotte, porte fracassate, tutto per terra… Gli agenti parlano di provocazione, la famiglia che ha in gestione il bar denuncia una vera e propria aggressione da parte delle forze di polizia, in seguito a una discussione su un presunto numero sbagliato della licenza. Risultato, quattro membri della famiglia, Ouahid e tre figli, tra cui uno quattordicenne, finiti all’ospedale per percosse. La madre e la figlia da allora non escono più di casa. Sembra che a el Ejido ci sia un poliziotto municipale che si fa chiamare Sharon, uno che semina spavento tra gli immigrati. «In Israele c’è uno Sharon che fa fuori i palestinesi… qui ad Almeria ce n’è uno che non lascierà vivo nemmeno un marocchino». Yahoud, il figlio diciannovenne di Ouahid, sa cosa significhi sopportare Sharon: «Mi ha già minacciato due o tre volte. Mi disse che mi avrebbe rotto la testa. A lui piace dire che è Sharon e che noi lo malediciamo. Fa sempre la stessa cosa, ti ferma per chiederti i documenti e se non li hai ti pesta e poi ti porta in commissariato, dove continua a pestarti». Sembra che il succitato Sharon circoli per le strade de el Ejido con uno sfollagente metallico allungabile, coltello a scatto e spray anti-attacco, accessori certamente non in dotazione alla polizia municipale.

«In generale i problemi nacquero a partire dai fatti del 2000. Prima di allora i rapporti con la popolazione locale erano cordiali, poi si sono via via deteriorati. Adesso i marocchini non sono più benvenuti, ci è proibito l’ingresso in certi locali. Andavo spesso a prendere il caffé in un bar vicino casa, ma dopo il 2000 il barista mi fece intendere che era meglio che smettessi di farmi vedere. Spesso si sente per la strada qualcuno che mormora «Moro (aggettivo dispregiativo utilizzato in Spagna per indicare persone originarie del Maghreb, dalla pelle scura, ndr) di merda, tornatene a casa tua». Purtroppo anche nelle scuole, a partire dalle medie, i nostri figli devono sopportare gli insulti. El Ejido è un paese senza legge, non importa quello che fai, se sei bianco: resterai sempre impunito. Loro cercano lo scontro, la polizia e le istituzioni non fanno nulla per abbassare il livello di tensione».

Si inserisce Mohamed Boutarfaz, presidente dell’associazione El Uafa 2000: «Prima si parlava della scuola, qui non si fa nulla a livello educativo, si ricevono stanziamenti dell’Unione europea per programmi che favoriscano l’integrazione ma per il momento non abbiamo visto nulla. Tutto si basa sull’iniziativa privata e sulla coscienza di certe persone ma con l’aria che tira… è difficile che qualcosa cambi. Forse tra due o tre generazioni, se cominciano a far qualcosa nelle scuole…».