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“Leggi speciali” sui phone center

Da oggi in vigore la legge regionale lombarda che penalizza il settore commerciale “migrante” per eccellenza.

Interviste a:
. Avvocato Beatrice De Simone, legale Associazione Assiphoc
. Samir Elhilali, proprietario di un phone center di Milano
. Luciano Muhlbauer, consigliere di opposizione della regione Lombardia

A un anno di distanza dalla sua approvazione da parte della giunta Formigoni la legge regionale della Lombardia sull’apertura e la gestione dei phone center entra in vigore (vedi allegato).
Da oggi in poi si pretende che questi esercizi commerciali si conformino a degli standard, non richiesti per nessun altro tipo di negozi, rispetto ai quali sono pochissimi i gestori che in questi dodici mesi sono riusciti ad adeguarsi. Dalla localizzazione agli orari di apertura e di chiusura, dai requisiti igienico- sanitari alla discrezionalità dei controlli che la polizia locale potrà effettuare sull’attività, chi in passato aveva scelto di imbarcarsi in questa piccola avventura imprenditoriale si troverà adesso a dovere affrontare una serie di imposizioni che potrebbero avere conseguenze drammatiche. Stando così le cose, la stragrande maggioranza dei circa 2.500 phone center presenti sul territorio lombardo sarebbero costretti a chiudere per irregolarità. Non importa quanta fatica sia stata fatta per mettere in piedi l’attività, quante persone vi abbiano investito i risparmi di una vita, quanta gente che si guadagna il pane dentro e intorno a questi luoghi perderebbe improvvisamente il lavoro, e con il lavoro, probabilmente, molto di più. E già, perché molti, moltissimi dei proprietari e in generale dei lavoratori occupati nella gestione dei phone center sono migranti il cui permesso di soggiorno è legato all’esistenza di un lavoro regolare e che hanno creduto di riuscire finalmente a rendersi più stabili, magari dopo anni di fatica e precarietà.

Aprire un phone center significa un casino di sacrifici e molta sofferenza”, racconta Samir Elhilali, che trova il tempo di parlare con noi mentre gira frettolosamente per Milano cercando il tipo di sanitari prescritti dalla legge in questione per metterli nei bagni del suo negozio. “Se ho un rimpianto è quello di non avere aperto un’attività nel mio paese ma di averlo fatto qui. È che ho creduto che anche questo fosse il mio paese. Ho portato soldi da casa mia per investirli qui, in tanti abbiamo chiesto dei prestiti perché non ce la facevamo coi nostri soldi… e poi ogni volta chiedono di adeguarsi e noi chiediamo ancora prestiti e così alla fine siamo rovinati”.
Samir sta ricordando anche i cambiamenti cui il pacchetto anti-terrorismo dell’ex ministro Pisanu aveva già costretto i phone center, obbligandoli ad aggiornare i loro programmi informatici per raccogliere le identificazioni dei loro utenti. In quella occasione si è sostanzialmente chiesto ai migranti di diventare i poliziotti di se stessi, partendo sempre dallo stesso presupposto pregiudiziale: la loro criminalizzazione tout court. “I nostri negozi finiscono per diventare caserme” ci dice ancora Samir, “Siamo commercianti di serie B perché basta avere un phone center e ti vedono già come un terrorista, ma io non ho mai sentito che in Italia abbiano mai preso un terrorista dentro un phone center, sono solo cose di propaganda” . Samir ci tiene a spiegare che lui non ha nessun problema a rispettare le leggi quando sono ragionevoli, ma in casi come questo, ci dice, “nessuno ti spiega bene quello che devi fare, come adesso che solo a distanza di pochi giorni abbiamo capito più o meno come dovevamo adeguarci… mettere cabine di almeno un metro mentre quelle della telecom che trovi in giro sono di 85 centimetri. Ma perché? Mica ci devi dormire dentro le cabine del telefono… e tre bagni dentro un solo negozio… capiterà una volta sola al giorno che qualcuno mi chiede di andare in bagno…”.
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Quel che risultava già evidente dalle parole di Samir viene esplicitamente affermato dall’Avvocato Beatrice de Simone, legale dell’Associazione Assiphoc nata proprio per contrastare la legge n.6 del 3/03/2006: “Si tratta di una legge ad hoc per fare chiudere i phone center… si tratta di una normativa che collide fortemente con tutti i principi della libera concorrenza enunciati per esempio nell’ultimo decreto Bersani”. E in più, ci spiega l’avvocato, si tratta di una legge retroattiva, che va a penalizzare indistintamente tutti coloro i quali hanno aperto un phone center anche parecchi anni fa, quando non avrebbero potuto immaginare a quali richieste ingiustificabili avrebbero dovuto tentare di adeguarsi. “Dopo le leggi anti- terrorismo c’era già stata un’approfondita indagine su tutti i gestori dei phone center che avrebbe dovuto essere sufficiente al legislatore regionale per mettersi il cuore in pace…” conclude l’avvocato. Ma così non è stato e tutti sono adesso in attesa di capire cosa succederà adesso, fino a che punto sarà veramente possibile applicare una legge che più che regolamentare un settore commerciale sembra reintrodurre nella formulazione delle norme dei principi discriminatori su base “razziale” che avremmo sperato fossero stati banditi per sempre.
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Abbiamo chiesto anche a Luciano Muhlbauer, consigliere regionale dell’opposizione, tra quelli che hanno caldamente domandato una proroga di un anno all’applicazione della suddetta legge, di raccontarci il clima in cui una simile proposta è maturata: “è da anni ormai”- ci ha risposto Muhlbauer- “che la regione che ospita circa un quarto dell’immigrazione totale a livello nazionale pratica una politica al negativo attraverso la produzione di norme discriminatorie contro i cittadini immigrati mentre vi è una totale assenza di una politica che favorisca in qualche modo l’inclusione e la parità dei diritti. In questo quadro generale nasce la legge sui phone center proposta dalla Lega Nord e da Alleanza Nazionale”. I phone center verrebbero quindi identificati innanzitutto come luoghi di aggregazione di cittadini immigrati e in quanto tali considerati un problema di ordine pubblico. I partiti di estrema destra “vogliono ancora una volta produrre consenso sul terreno della caccia all’immigrato definito un untore e un pericolo per la sicurezza pubblica salvo poi risultare utile in quanto lavoratore super precario oppure in nero da sfruttare”.
Vi sono poi le ragioni più apertamente economiche che tanto l’avvocato che il consigliere regionale lasciano intravedere sullo sfondo: il business dei phone center potrebbe fare gola a gestori più potenti e inoltre le banche non devono avere gradito troppo il fatto che dal 2005 la maggior parte dei soldi spediti dai cittadini dei vari sud del mondo ai loro cari rimasti a casa sia passata attraverso i servizi collaterali di money transfert che i phone center hanno offerto fino ad oggi e che da questo momento in poi, sempre secondo la nuova normativa non potranno più prestare.
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Come sempre in questo paese, le peggiori ideologie razziste ben si sposano con gli interessi economici di chi vede nei migranti solo una forza da mettere a valore secondo gli obiettivi di un mercato che poi li esclude automaticamente dalla fruizione dei beni che loro stessi contribuiscono a produrre. E forse è realistico pensare che leggi come quella lombarda invece che venire criticate con indignazione possano venire adottate anche altrove.
Unici dati positivi in questo panorama funesto sono i pronunciamenti del Tar di Brescia in base ai quali è stato sospeso il provvedimento di chiusura di alcuni phone center, e il caso del comune di Bresso che ha sostanzialmente deciso di sfruttare il grande potere che questa legge attribuisce ai comuni per stabilire che i quattro phone center presenti sul suo territorio vanno sostanzialmente benissimo così come sono. Speriamo siano precedenti di buon senso che verranno ripresi anche altrove. E, ovviamente, è importantissimo che alcune manifestazioni di protesta (tra cui dei presidi davanti alla Regione e uno sciopero della fame) cui hanno partecipato sia autoctoni che migranti abbiano già avuto luogo. Per sabato prossimo ne è stata indetta un’altra cui si spera partecipino delegazioni da tutta la regione Lombardia e anche da altre parti di Italia.

di Alessandra Sciurba, Melting Pot