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Rubriche: Confini e frontiere, Speciale Hotspot, Un mondo, molti mondi

Lettera al mondo dal campo profughi di Moria sull’isola greca di Lesvos (N°2)

Infomobile (Welcome to Europe), 27 ottobre 2019

- Link all’articolo originale (ENG)

Leggi anche:
- La prima lettera
- Lesvos calling: raccolta solidale di indumenti invernali per le migliaia di persone confinate sull’isola. Di ritorno dal viaggio sull’isola hotspot greca una prima azione concreta
- Reportage dall’isola di Lesvos (9-16 ottobre 2019) con articoli e video interviste

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Traduzione a cura di: Marinella Azzetti

Autrice: Una ragazza migrante

Le ragioni che spingono la mia gente a fuggire sono tutte diverse e cambiano secondo le storie dei singoli e delle loro famiglie, secondo le possibilità di lavoro e le situazioni nei villaggi, nelle città o nelle regioni di origine, ma il fattore principale è la guerra, interna o di confine. E questo vale non solo per noi Afghani ma per la maggior parte dei rifugiati.

Quando siamo costretti a partire e scegliamo questo percorso, rischiamo la vita per riuscire ad arrivare vivi. Anche tenendo conto di tutti i pericoli e le possibilità di morire, comunque questo è il male minore perché non abbiamo alternative migliori.

Tutti i rifugiati che provengono dall’Afghanistan devono attraversare diverse frontiere per arrivare qui. Alla partenza, le situazioni possono essere diverse (avere o non avere passaporti afghani, avere o non avere permessi di residenza rilasciati da Iran o Pakistan, validi o non validi, …), ma per tutti, durante il tragitto, i pericoli sono centinaia. Per alcuni la via di fuga inizia in Afghanistan, altri sono vissuti per anni come rifugiati o come persone senza documenti in Iran e in Pakistan, alcuni sono perfino nati nella condizione di rifugiati.

Viaggiamo su motociclette, furgoni, camion, insieme a tantissimi altri, in mezzo a pietraie deserte. Camminiamo per chilometri attraverso montagne e fiumi. Superiamo recinzioni e attraversiamo mari. Affrontiamo poliziotti, soldati, trafficanti e ladri. Passiamo notti all’aperto , senza nemmeno sapere dove ci troviamo, senza coperte per proteggerci dal freddo, dalla pioggia o dalla neve, e senza cibo né acqua. Ci sparano, ci derubano, ci rapiscono, ci minacciamo, ci stuprano. Lungo la strada incontriamo cadaveri. Fra noi ci sono tanti bambini e minori, molti di loro fuggono con le loro famiglie, con i nonni o con parenti malati.

Pensate che sia una scelta facile per noi questo viaggio verso la libertà?

Lungo la via di fuga dall’Afghanistan all’Europa, ci sono punti controllati da bande di rapinatori, dove perfino i trafficanti e i soldati hanno paura di passare. Mi hanno riferito la storia di una famiglia, fermata da una di queste bande che voleva derubarla di tutto.
In caso di resistenza, i banditi hanno minacciato di stuprare le donne della famiglia.
I poveretti sono sopravvissuti, ma a loro sono rimasti solo la vita e gli abiti che indossavano.
In un altro caso, cinque minori sono stati derubati, picchiati e tenuti in ostaggio per due notti, con solo un pezzetto di pane secco al giorno. I ragazzi hanno raccontato, sconvolti, che insieme a loro erano tenute in ostaggio anche due ragazze, entrambe stuprate e poi uccise. Un’altra famiglia mi ha raccontato la traversata del deserto, con quattro bambini e altre due famiglie. Senza ombra, senza alcun rifugio. Non avevano acqua e i bambini erano disidratati. Ma hanno continuato a lottare: o la pace o la morte.

Quando siamo arrivati in Iran, abbiamo trovato un paese impregnato di razzismo nei confronti dei rifugiati Afghani, che lì rappresentano la maggioranza degli immigrati. Anche in Iran, come nel nostro paese, c’è molto razzismo contro gli atei, le minoranze etniche o religiose, gli oppositori politici. I rifugiati non possono accedere al sistema scolastico o ottenere la nazionalità, anche se sono nati lì. La violenza contro le donne, gli stranieri e perfino gli stessi cittadini del paese, passa spesso sotto silenzio e rimane impunita. Non c’è libertà di parola. La cittadinanza viene venduta al prezzo di una vita, come per un soldato in guerra.

Dopo aver attraversato le montagne, si arriva in Turchia. Una famiglia ha raccontato: “Siamo rimasti bloccati per due notti in montagna, sotto la neve. Quando il nostro bambino più piccolo ha incominciato a piangere, è arrivata la polizia e ci ha arrestati. Ci hanno riportati indietro fino in Afghanistan. Così, abbiamo dovuto passare di nuovo la frontiera del Pakistan e poi quella dell’Iran".

Il mare tra Turchia e Grecia è un’acqua nera piena di cadaveri. Molti esseri umani sono morti perché la priorità in Europa è controllare i confini e non salvare delle vite.

Pensate che a questi genitori faccia piacere mettere in pericolo le vite dei loro figli?

Nessuno, nessuno, nessuno… fa una scelta come questa se non ha un pericolo ancora più grave dietro le spalle. Queste madri e questi padri vivono continuamente nella paura. Decidono di rischiare la vita proprio per dare ai loro figli una speranza di pace.

Per noi rifugiati è come camminare su una linea di fuoco, da cui cerchiamo di fuggire. Quando vediamo un’altra via, una senza fuoco, la scegliamo senza pensarci un secondo e senza sapere se incontreremo altri pericoli. Siamo comunque obbligati a scegliere l’altra via, se non vogliamo bruciare. Ma l’altra via, quella senza fiamme, è quella delle barriere e dei fili spinati eretti dall’Europa, quella delle navi che ci impediscono di proseguire, quella dei nostri sogni di pace dispersi in mare, quella dove i più “fortunati” finiscono nell’inferno di Moria.

Davvero pensate che sia stato facile per noi arrivare fin qui?

Parwana

Vedi anche

  • Erdogan si sta servendo dei rifugiati come strumento di ricatto per evitare le accuse di invasione della Siria: l’accordo UE-Turchia deve terminare ora
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  • Lettera al mondo dal campo profughi di Moria sull’isola greca di Lesvos (N°3)
  • Lettera al mondo dal campo profughi di Moria sull’isola greca di Lesvos (N°4)
[ 31 ottobre 2019 ]
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