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Libano – Confini interni e Confini esterni: la tutela delle persone richiedenti protezione per la tutela di tutti!

#FragileMosaico: il viaggio della campagna overthefortress in Libano

Foto di Vanna D'Ambrosio

Nell’ambito del progetto di comunicazione e ricerca “Fragile Mosaico” un gruppo di operatori legali ha raggiunto Beirut nella giornata del 6 maggio al fine di poter monitorare e raccogliere elementi che possano dare un quadro della situazione in Libano per quanto concerne la tematica legata al riconoscimento e alla tutela della protezione internazionale per quelle persone provenienti dalla Siria (e non solo) che, in fuga dalla propria terra, hanno cercato rifugio in altro Paese.

Un monitoraggio strategicamente importante che interviene durante il periodo elettorale e che vede il paese (dopo ben nove anni) ripresentarsi alle urne al fine di dare un senso politico alla complessa situazione che si trova ad affrontare quotidianamente, situazione resa ancora più complessa data la coesistenza di credi religiosi diversificati e con idee spesso in conflitto.

In tale contesto di apprensione e tensione politica le questioni riguardanti lo status dei richiedenti protezione internazionale e la loro condizione sociale all’interno della società libanese, hanno un ruolo marginale nell’agenda politica dei diversi schieramenti, generando di conseguenza una tensione nel “nostro Vicino Oriente” che non sembra attenuarsi.

Il nostro team di operatori – composto da Armando Oricchio, Fabrizia Camplone ed Emanuele Petrella (di IndieWatch) – nella fase di preparazione alla ricerca ha costruito, elaborato e condiviso, strumenti per la rilevazione di elementi conoscitivi atti a dare un senso maggiormente compiuto alle questioni che riguardano il diritto alla protezione internazionale per tutti i “profughi” che vedono messe in pericolo le loro vite e quelle dei loro familiari.

Il team inoltre intende ricercare elementi che possano far emergere l’indirizzo politico dei fondi europei e internazionali (fondi per la cooperazione) dedicati all’implementazione di processi e di progetti finalizzati alla riattivazione di un territorio martoriato, ma da cui traspare un alto e profondo senso di dignità della popolazione, indipendentemente dalla propria appartenenza di credo religioso e/o di provenienza.

Gli strumenti che sono stati elaborati nascono con l’obiettivo di poter essere utilizzati per una diversa tipologia di “destinatari e portatori di interesse”, in particolare si tratta di strumenti atti a ricercare informazioni utili sia presso organizzazioni non governative, agenzie delle Nazioni Unite, progetti umanitari, organizzazioni della società civile, comitati di base e auto-organizzazioni, sia presso i “diretti interessati” cioè coloro che hanno bisogno di una forma di protezione.

In questi tre giorni – fitti di appuntamenti e incontri con diverse realtà – il nostro team ha potuto conoscere il territorio sul quale intende operare ai fini di studio e approfondimento di tematiche legali: un territorio denso di contraddizioni, vuoti legislativi, caratterizzato da confini e “frontiere esterne” ma soprattutto confini e “frontiere interne”, non solo simboliche ma soprattutto materiali, rappresentate dal dispiegamento nella capitale Beirut e in tutto il territorio di fili spinati e check point, ed una presenza massiccia di forze dell’esercito libanese a presidio dei confini stessi.
Una città Beirut affascinante e ambivalente con le cicatrici di un passato non troppo lontano.

Dato il brevissimo tempo concesso e le tante e continue sollecitazioni che provengono da un territorio vivace e reattivo, la ricerca non potrà essere (e non conta di esserlo) esaustiva ma più che altro la base per una più sistematica e sistematizzata analisi nell’ambito della protezione internazionale.

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Nelle prime tre giornate ci siamo confrontati con i rappresentati di: HUMAN RIGHTS WATCH, che ha una sede stabile nel centro di Beirut e fa attività di advocacy e monitoraggio, MEDITERRANEAN HOPE, OPERAZIONE COLOMBA, vari giornalisti operanti da diversi anni sul territorio, oltre a volontari italiani in servizio civile internazionale, servizio volontario europeo per diverse organizzazioni e cooperanti sul territorio.
Gli elementi che per ora sono emersi e che sembrano essere fortemente rilevanti (e che nei prossimi giorni il team continuerà a monitorare e analizzare) possono essere così suddivisi (in maniera sintetica e – lo ribadiamo – non esaustiva):

Migrare in Libano. Richiesta di Asilo, diritto alla volontà di poter richiedere protezione internazionale e il lavoro su “sponsorizzazione”.

Il team ha cercato di sistematizzare le tante informazioni raccolte per cercare di dare senso a tanti elementi, spesso contrastanti, sintomatici della chiara mancanza di pezzi di un “mosaico” complesso e poco definito.
Un primo livello di analisi riguarda la condizione delle persone siriane coinvolte (loro malgrado) nel conflitto armato esasperato ancora presente sul proprio territorio e che per sfuggire alla guerra si sono riversate sulla frontiera con il Libano.
Una frontiera che ha alternato momenti di apertura a momenti di tragica chiusura. All’arrivo in terra libanese l’UNHCR non fornisce agli interessati informazioni circa la possibilità di poter presentare domanda di protezione internazionale, né esistono procedure di “verbalizzazione formale e certificata” di presentazione della domanda. Esiste quindi e insiste sul territorio una importante e significativa presenza di persone siriane (ma non solo) che ferme come in un limbo rimangono stanziali nel territorio del Libano nell’attesa di capire cosa fare del proprio destino: tornare nel proprio territorio martoriato da guerra incessante oppure sperare di poter migrare altrove.

Il 2015 ha rappresentato uno spartiacque per quanto concerne le politiche di gestione dei flussi migratori. Prima di questo anno la frontiera tra Siria e Libano era aperta in forza di accordi tra gli Stati sulla libera circolazione delle persone. Successivamente a causa dell’intensificarsi delle tensioni, dell’aggravarsi del conflitto siriano e della chiusura delle frontiere da parte di molti paesi arabi, il Libano ha proceduto alla chiusura della sua frontiera, con forti ripercussioni sulla situazione legale dei nuovi arrivati.

Il Libano in quanto paese non firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951, prima del 2015 si limitava a concedere una residenza legale della durata di sei mesi, rinnovabile; successivamente il governo ha deciso di bloccare questo sistema ed ha introdotto limiti importanti alla possibilità di ottenere il rinnovo della residenza legale.

Ad oggi per ottenere un rinnovo del permesso di soggiorno è necessario avere uno “sponsor” (kafil) che fa da garante per il migrante. Questo sistema chiaramente non permette a chi si trova in condizioni economiche precarie (circa il 90%) di poter ottenere una residenza legale e ha dato spazio alla creazione di situazioni di sfruttamento lavorativo ai limiti dello schiavismo, in cui gli “sponsor” libanesi fungono da detentori dei documenti e quindi delle vite e del futuro dei “profughi” (non solo provenienti dalla Siria ma anche da Eritrea, Somalia, etc.).

A tal proposito abbiamo rilevato che questo fenomeno interessa soprattutto i siriani, i quali spesso sono costretti a vivere in edifici abbandonati, capannoni o nei sottoscala dei palazzi dove vengono impiegati come “concierge” (portinaio) e giovani donne provenienti dalla Somalia, dall’Etiopia ed Eritrea, che vengono impiegate in lavori di assistenza domestica.
Chi non riesce ad ottenere una forma di residenza legale, è costretto a vivere in clandestinità senza la possibilità di lavorare e di accedere ai servizi essenziali, di circolare liberamente (a causa dei check point sul territorio) con il rischio di essere “arrestato” in caso di controllo della polizia o dell’esercito. Questa situazione ha fatto aumentare notevolmente il numero di persone detenute (anche minori) nei centri di trattenimento per “stranieri” (disseminati nel territorio del Libano e nei pressi delle principali città), gestiti dalla locale Securité Generale, del tutto prive di qualsiasi forma di assistenza e supporto legale. Durante il trattenimento, che può durare per un massimo di 4 giorni, la persona viene sottoposta a ripetuti interrogatori con metodiche anche violente e trattamenti inumani e degradanti, come rilevato anche dagli ultimi rapporti di Human Rights Watch 1. Tale prassi, vulnus dei diritti fondamentali della della persona, viene tacitamente tollerata da UNHCR con un accordo informale finalizzato ad evitare l’espulsione e il rimpatrio della persona da parte delle autorità libanesi.

Resettlement o Reinsediamento.

Il reinsediamento o resettlement 2 è “il trasferimento di cittadini di Paesi Terzi o apolidi, riconosciuti bisognosi di protezione internazionale, in uno Stato dell’UE o in altri Stati delle Nazioni Unite in cui sono ammessi per motivi umanitari o come rifugiati”. Il programma è finanziato dalle Nazioni Unite.

La procedura in Libano è gestita totalmente dall’UNHCR 3 e dall’OIM 4. Il lavoro svolto non sembra riuscire a garantire una significativa risposta alle richieste dei “profughi” siriani (1,5 milioni circa su un totale di 4 milioni di popolazione libanese).
Al programma si accede per “invito” da parte delle Agenzie delle Nazioni Unite, su suggerimento di organizzazioni operanti sul territorio che si occupano della crisi umanitaria. Un invito che viene rivolto a quelle persone “richiedenti protezione” che sono state precedentemente registrate (attraverso una procedura ancora non del tutto chiara rispetto alla prassi). La selezione delle persone eleggibili per il re-insediamento viene effettuata secondo un algoritmo legato a parametri oggettivi (es. numerosità del nucleo, nuclei monoparentali, presenza di vulnerabilità di tipo sanitario e certificato, …) che risponde ad una logica di de-umanizzazione.

I tempi per l’attuazione dell’insediamento risultano essere molto lunghi (si stima da un anno e mezzo a due anni) senza la garanzia di essere re-insediati nel paese scelto.
Dopo il 2015 il sistema ha subito un decisivo e significativo rallentamento a causa di un maggior afflusso di persone che ha comportato la decisione dell’UNHCR di fermare le procedure di registrazione dei siriani.
Dagli elementi emersi risulta un’inefficace e sistematica inadeguatezza del programma e una prassi operativa che non ottimizza le ingenti risorse economiche a disposizione dell’Agenzia 5.

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Corridoi Umanitari

I corridoi umanitari dal Libano sono per lo più attivati e coordinati da: Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), di cui è parte La Chiesa Valdese, questa ultima (FCEI) attraverso il progetto Mediterranean Hope (MH). In particolare gli operatori di MH – disponibili e competenti – si sono prestati ad una approfondita intervista che ha fatto emergere il loro lavoro sostanziale e fortemente caratterizzato da una ricostruzione della storia della persona “candidata” all’inserimento nel programma del corridoio umanitario.

Una ricostruzione che vede la collaborazione di diverse organizzazioni presenti sul territorio (come per esempio Medici Senza Frontiere per quanto concerne la documentazione sanitaria) che non si fonda su algoritmi ma su situazioni e storie di persone realmente incontrate. Ci spiegano infatti che il processo di rilevazione degli elementi della storia familiare avviene attraverso diversi incontri sia in ufficio che nelle abitazioni delle famiglie. Il programma ha offerto la possibilità a molte persone, per lo più provenienti dalla Siria, di poter essere trasferite (si parla di circa 1.000 persone trasferite ogni anno dal 2016, 1 famiglia su 400 segnalazioni riesce a rientrare nel programma).

Viene rilevata con netta chiarezza la volontà da parte di tantissime persone di poter entrare all’interno del programma che ci rimanda come quindi il Libano non sia meta di approdo, o per lo meno non per tutti, ma di passaggio, alla volta di altre destinazioni. I paesi che hanno aderito al programma ad oggi sono: l’Italia, il Belgio, la Svizzera e la Francia che però ultimamente sembra aver ridotto di molto la sua adesione a causa di una emergente paura terrorismo.

Il Libano, la politica del “NoCamps”, i “Campi Informali” e i “Quartieri Resistenti”.

Il Libano è un mosaico tessuto a maglie strette. Un mosaico complesso e sicuramente fragile. In tale situazione e quadro articolato nel territorio (ed in particolare nella capitale Beirut) sono presenti diversi insediamenti abitativi più o meno formali e più o meno conosciuti (la storia ce li ricorda 6), sono presenti diverse realtà di “quartiere” all’interno delle quali ci sono storiche residenzialità e nuove residenzialità che spesso posso essere un detonatore per il territorio tutto, come la convivenza tra palestinesi e siriani. Si tratta di quartieri non assoggettati al controllo statale, auto-organizzati e con forme di coordinamento indipendente.

Memore della propria storia il Libano ha adottato una politica no-camps per eliminare ulteriori elementi che possano portare ad aumentare conflittualità interne. Ciò nonostante sono disseminati sul territorio campi informali che vedono proprietari terrieri affittare i propri appezzamenti ai profughi in cambio di ingenti somme di denaro e/o in cambio di lavoro gratuito.

Presenza della cooperazione in Libano.

Il Libano, a causa della sua posizione strategica nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, è sempre stato storicamente meta di investimenti, capitali e risorse di Stati esteri. Oggi vista l’aggravarsi della crisi siriana e delle tensioni nella regione, gli Stati europei hanno aumentato i fondi destinati alla cooperazione. In un’epoca in cui quest’ultimi favoriscono processi di esternalizzazione delle frontiere, accordi bilaterali (come nel caso dell’accordo con la Turchia, con la Libia, con il Niger, con il Sudan …) e processo di contenimento delle migrazioni, ci sembra lecito ed opportuno chiedersi quale sia il concreto e reale utilizzo dei fondi destinati alla cooperazione.

Conclusioni … che non chiudono!

A conclusione di questo breve documento è possibile rilevare tre questioni.
La prima riguarda l’impossibilità di sostenere che il Libano possa essere considerato Paese Terzo sicuro in grado di garantire una reale e adeguata protezione.
La seconda è che nelle condizioni attuali non sono pensabili processi di “ritorno” nel paese d’origine delle persone siriane emigrate. I maggiori problemi sono legati a: inaccessibilità dei territori su cui ancora insistono situazioni di conflitto, gli arruolamenti forzati, i timori legati a ritorsioni da parte del regime da cui si è fuggiti, l’assenza di una politica di stabilizzazione e pacificazione a lungo termine che possa garantire una esistenza dignitosa alle persone.
La terza questione rimanda ad una ormai consueta e consolidata prassi che vede la “Fortezza Europa” impegnata in politiche di contenimento della libera circolazione delle persone attraverso l’esternalizzazione delle frontiere e la creazione di “Stati-Frontiera”.

Per maggiori informazioni è possibile scrivere a:

[email protected]
[email protected]
[email protected]
http://www.indiewatch.org/

  1. https://www.hrv.org/news/2017/07/20/lebanon-daths-alleged-torture-syrians-army-custody
  2. per analisi giuridiche in materia di reinsediamento si rimanda all’analisi giuridica https://www.asgi.it/english/libya-eu-italy-asylum-migration/ e alla ricerca-studio http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2016/08/2016_giugno_Esperimento-Grecia.pdf
  3. https://www.unhcr.it/
  4. http://eea.iom.int/index.php/what-we-do/resettlement
  5. Maggiori info sui dati del programma http://www.unhcr.org/resettlement.html – per piano aggiornato al 2017
    http://www.unhcr.org/5a9d507f7
  6. https://left.it/2015/09/18/sabra-e-chatila-massacri-libano-israele/