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Libano – Un milione di profughi, quattro milioni e mezzo di abitanti

La guerra tra poveri, il rifiuto dei "profughi", le condizioni di vita indegne.

Arrivo in Libano circa un mese fa. Dopo una notte a Beirut, mi trasferisco subito a nord, a pochi chilometri dal confine con la Siria, nella regione dell’Akkar. Qui a nord, secondo stime dell’UNHCR, vivono circa 300.000 profughi siriani. In tutto il Libano, sempre secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, dovrebbero vivere circa un milione e mezzo di profughi.
Per un mese e mezzo vivo tra una tenda di un campo profughi nel paese di Khreibet ej Jindi ed un garage di un quartiere abitato da profughi siriani e libanesi musulmani a Tel Abbas. I miei compagni di viaggio sono i volontari di Operazione Colomba. Qui, per proteggere i profughi, cercano di creare reti sociali con la comunità libanese attraverso un lavoro di presenza e mediazione.
Il governo libanese non ha accettato la costituzione di campi profughi formali; la causa non va ricercata nella storia stessa del Libano, costellata di guerre e tensioni interne tra le diverse componenti del paese. La paura è quella di rompere il fragilissimo equilibrio raggiunto dopo anni di guerra civile tra sunniti, sciiti, alawiti e cristiani, che la numerosa presenza di profughi dalla guerra in Siria (tra loro stessi divisi in diverse fazioni e appartenenze) rischia di frantumare. Questo almeno è ciò che emerge dal discorso del governo e di molti sostenitori dello status quo.

Per questo i profughi, si sono dovuti auto-organizzati. Alcuni di loro si sono potuti sistemare in case in affitto, altri invece hanno affittato dei garage, altri ancora sono costretti a vivere in piccolissimi campi fatti di poche tende. Queste micro-tendopoli, non riconosciuti dal governo o dalle municipalità, sono in ogni caso riconosciuti dall’UNHCR. Si tratta di piccolissimi accampamenti, nella speranza di passare inosservati. Si va da un minimo di quattro tende ad un massimo di quattrocento. Poco rispetto ai numeri degli storici campi profughi che siamo abituati a vedere in questa parte del mondo. La maggior parte dei campi che ho visitato non superava in ogni caso le quindici tende.

Tutti sono siriani e quasi tutti sognano di andarsene dal Libano. Si tratta però di una sogno che diventa realtà per pochissimi di loro. I siriani hanno infatti un passaporto che dà accesso a pochissimi paesi, tra i quali la Turchia e il Libano. Raggiungere l’Europa in sicurezza, attraverso un canale di ingresso legale, è una eventualità remota, quasi impossibile e viene concessa ad un numero limitatissimo di persone attraverso un piano predisposto dall’UNHCR che però si fonda su ristrettissimi criteri di vulnerabilità. Rimane il mare come unica strada. Sul service che porta da Tripoli a Tel Abbas (un piccolo pulmino che fa da taxi collettivo ed è parte integrante del trasporto pubblico libanese), un profugo siriano mi racconta il suo progetto di partire via mare verso l’Italia. Cerco di dissuaderlo, il viaggio è pericoloso e forse non ne vale poi così tanto la pena, visto ciò che siamo abituati a vedere in Europa dopo la mancata accoglienza, il regolamento Dublino, il razzismo crescente, sono un destino comune per chi chiede protezione. Lui, è chiaro, ci proverà lo stesso. Ha bisogno di un futuro, ha bisogno di una speranza che il Libano non riesce ad offrirgli.

Anche i disegni dei bambini rispecchiano questo desiderio che riaffiora sempre, quasi come fosse il frutto di un subconscio collettivo. Nei disegni, in quasi tutti i loro disegni ritroviamo una nave nel mare sui cui viaggia tutta la famiglia. Una nave che batte bandiera siriana o quella dell’esercito libero, ma sempre e comunque una nave che mentre viaggia verso un nuovo approdo, guarda indietro, verso il paese perduto. In tutti i discorsi dei siriani ritroviamo questo sguardo al passato, verso la Siria distrutta. Quella che era o quella che molti combattono per costruire. In ogni caso un paradiso perduto.
“Un paradiso in cui forse torneremo – dicono. Un paradiso in cui potremo offrirvi del cibo. Un paradiso in cui forse potremo tornare insieme. Un paradiso in cui potrò sposarmi. Un paradiso in cui il cibo costa poco, le sigarette costano poco, la terra c’è per tutti e in abbondanza, il pane non manca. Un luogo in cui tutti si aiutano a vicenda, un paradiso in cui avevo molte macchine, molte case e ogni casa aveva molti piani, un paradiso in cui avevo molti alberi, molti campi…”.
E se il passato è un paradiso perduto, il futuro è immaginato solo come un viaggio. Il presente, neanche a dirlo, non esiste nella maggior parte dei racconti.

Altri invece tentano il viaggio a ritroso.
La moglie di N., per esempio, ha deciso di tornare con i figli a Damasco, in Siria. In Libano non riusciva più a vivere. La sua vita e quella dei suoi quattro figli era relegata in una tenda piena d’acqua all’interno di un campo dove il controllo sociale è altissimo. Ma qui ha dovuto lasciare il marito che non può tornare. Lui rischierebbe di essere arrestato, imprigionato e torturato dal governo siriano.

Essere un profugo siriano in Libano, soprattutto nell’Akkar, la regione più povera, ti mette in una situazione al limite della sopravvivenza. Qui, il lavoro manca per tutti e gli stessi libanesi faticano a vivere dignitosamente. Così la guerra tra poveri la fa da padrona. Nelle municipalità in cui viviamo, per esempio, ai profughi siriani è imposto il coprifuoco. Quando fa buio, per questioni di sicurezza, o per evitare che i civili libanesi li attacchino, ai profughi è impedito di uscire dai campi, dai garage o dagli appartamenti in cui vivono. Uno dei nodi cruciale è poi quello della salute. Il Libano ha un sistema sanitario pressoché totalmente privatizzato. I siriani, abituati ad una sanità pubblica più o meno eccellente ed accessibile si trovano in una condizione di assoluta impossibilità di accedere alle cure e di vedersi garantito almeno il diritto alla salute. Un’operazione al cuore ha costi proibitivi per la quasi totalità dei profughi, ma anche la semplice sutura di una ferita può mettere in seria difficoltà una famiglia. Durante la mia permanenza la famiglia di un bambino di tre anni feritosi al piede con un ago, ha dovuto pagare 400 dollari per un semplicissimo intervento ad una ferita. La difficoltà maggiore e diffusa è però quella dell’accesso ai medicinali.

Con l’arrivo dell’inverno, inoltre, i costi della vita aumentano. Chi vive nei campi deve rifornirsi di nylon per coprire le strutture in legno e deve rinforzare e riparare le tettoie prima che il peso dell’acqua o della neve mettano a rischio la tenda. Una ONG si occupa di distribuire a titolo gratuito i materiali, ma in tutto il nord del Libano opera da sola a fronte di trecentomila rifugiati.
Anche gli aiuti che l’UNHCR può fornire hanno subito nel tempo dei tagli. Ci sono sempre meno soldi e sempre più bisogni e persone da tutelare.

Tutto questo in un contesto di violenza crescente. Come scrivono i volontari di Operazione Colomba: «Dallo scorso venerdì 24 ottobre assistiamo a violenti scontri a Tripoli (città più a nord del Libano) tra l’esercito libanese e gruppi armati affiliati al Fronte Al-Nusra e all’ISIS. I combattimenti si sono svolti in diverse zone della città, interi quartieri sono stati evacuati e le violenze si sono spostate anche nel resto della zona nord del Paese, dove noi viviamo. Dopo tre giorni di scontri si contano quarantadue morti (ventitré miliziani, undici soldati, otto civili) e centocinquanta feriti. Sono già trecento gli arrestati, sia libanesi che siriani sospettati di appoggiare i gruppi armati. Continuano i raid dell’esercito nei campi profughi siriani nella zona a nord di Tripoli, alla ricerca dei miliziani fuggiti dalla città.
Da settimane l’esercito libanese è vittima di attacchi mirati in cui hanno perso la vita diversi soldati. In risposta l’esercito ha compiuto numerosi raid ed arresti nei campi di profughi siriani. Duranti i raid, secondo le testimonianze raccolte, ci sono stati atti di violenza da parte dell’esercito. Molti arresti sono apparentemente avvenuti senza specifiche accuse. In diverse occasioni, anche civili libanesi armati hanno minacciato i campi e dato fuoco alle tende. I casi di sgomberi forzati di campi si sono moltiplicati. Libanesi e siriani hanno paura di una nuova guerra».