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Libia – No fly no party

a cura di Gabriele Del Grande

Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Benghazi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I clacson suonano all’impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell’artiglieria. Davanti al tribunale è una ressa. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. La gioventù ha ritrovato l’orgoglio e ha scoperto col sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l’altra.

La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti a lui i ragazzi della piazza fanno la fila per baciarlo sulla fronte e stringergli la mano. “Coraggio!” gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista, Ali è diventato il simbolo vivente delle vittime dell’oppressione di Gheddafi. In questi giorni gli ho chiesto tre volte di raccontarmi la sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne, che è un incubo di cui non riesce a liberarsi. Si sveglia ogni mattina che gli manca l’aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di sangue. La sua storia corre sulla bocca di tutti. È l’unico superstite del massacro della caserma centrale di Benghazi. Venticinque ragazzi torturati a morte dalle milizie di Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li scaricarono in mare lungo la costa, pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel giorno l’hanno picchiato, frustato e torturato, con continue scariche elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe messo al mondo altri bastardi. Scariche che l’hanno completamente paralizzato dalla schiena in giù.

La manifestazione va avanti fino all’alba sotto una leggera pioggia che sembra allentare le tensioni di questi ultimi giorni, con il fronte della guerra sempre più vicino alla città e con i due bombardamenti all’aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po’ di bossoli sparsi per terra. I volontari hanno ripulito la piazza, le macchine armate sono ferme all’esterno e migliaia di persone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano Mecca e alle spalle hanno il mare. È un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni partiti e associazioni sono vietati. Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell’indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.

Posti come quello di Omar Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane ha fatto le ore piccole davanti alla vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque dinari nella sua bottega. A me però la bandiera la regala. Perché non lo fa per i soldi. Come buona parte dei libici, anche lui con Gheddafi ha qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha potuto vedere il figlio, fuggito in Svizzera nel 1998 per scampare al mandato d’arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti universitari accusati di terrorismo per aver messo in piedi una associazione di beneficenza. Il signor Omar di bandiere riesce a cucirne una ventina al giorno, poi ci sono giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.

Hussein ha 38 anni, la barba lunga e la battuta pronta. Lui in piazza c’è dal primo giorno delle proteste. Anzi c’è dagli anni Novanta. Da quel giugno del 1995 quando lo vennero a prendere a casa le forze di sicurezza di Gheddafi, insieme al fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E indossavano la divisa. La notte di quel 29 giugno del 1996 Husein era detenuto nella sezione a fianco. E certe cose non le dimenticherà mai. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Molti erano di Benghazi. E oggi le loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio. Sui muri hanno scritto: “viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia che ha distrutto le immagini del grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Ad ogni modo il morale è alle stelle. E la sensazione di tutti è che sia soltanto questione di giorni. I volontari dell’armata rivoluzionaria sono pronti a continuare a combattere. Perché nessuno si aspetta che Gheddafi ritiri le sue truppe. E nessuno allo stesso tempo vuole l’entrata nel paese delle truppe straniere e l’occupazione militare stile Iraq o Afghanistan. Vogliono fare da soli. Questo è chiaro ed è scritto sui muri e sui volantini distribuiti in piazza dal movimento. Chiedono soltanto una copertura aerea per evitare i massacri dei civili. Anche perché nonostante la no fly zone e l’annunciato cessate il fuoco del regime, dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misratah e da Ijdabiya, sul fronte si continua a combattere. Altri mezzi per informarsi non ce ne sono, perché da due giorni i telefoni cellulari sono fuori uso, e internet continua a non funzionare da tre settimane.