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da Il Manifesto del 22 aprile 2005

Libia, viaggio nell’inferno dei migranti

E’la prima volta che il governo libico apre le porte di un centro di detenzione per immigrati. Lo ha fatto martedì scorso quando, su richiesta della commissione Ue per i rapporti con il Maghreb, ha concesso ad alcuni parlamentari europei un’ispezione di «due ore» nel cpt di Fellah, alla periferia di Tripoli, una sorta di «carcere di massima sicurezza» dove sono attualmente rinchiusi un centinaio di stranieri: uomini, donne e anche bambine in attesa di espulsione. Il luogo ispezionato, è bene chiarirlo subito, è stato scelto dalle autorità libiche, ma chi ha avuto la possibilità di visitarlo ne è uscito comunque «sconvolto». «E’ stata un’esperienza terrificante – racconta in questa intervista Giusto Catania, deputato di Rifondazione comunista a Strasburgo, che faceva parte della delegazione europea – Quando gli immigrati hanno capito che eravamo esterni al carcere, hanno cominciato a dare pugni e calci contro le porte. Alcuni si sono arrampicati sulle sbarre delle finestre poste in alto nelle celle chiedendoci di aiutarli a uscire. Gridavano: “qui non ci danno né da mangiare né da bere”, mentre altri tentavano di darci, poi riuscendoci, dei pezzi di carta con delle frasi in inglese e in tedesco stentato, che adesso cercheremo di decifrare. Si tratta di ragazzi mediamente sui trent’anni, soprattutto africani, che secondo i nostri accompagnatori libici sono in cella da pochi giorni, ma dalla loro rabbia si intuiva che sono lì da molto più tempo. Avevano lo sguardo impaurito, disperato. Sono tenuti chiusi a chiave giorno e notte dentro celle sovraffollate. Queste hanno portoni di acciaio e scorrono ai lati di un grande atrio dal quale è possibile vedere i detenuti solo dagli spioncini. Io in Italia ho visitato molti cpt, soprattutto quelli siciliani, dove sappiamo che le condizioni in cui vengono tenuti gli stranieri non sono affatto tenere, ma il cpt di Fellah non è paragonabile, è molto, molto peggiore. L’organizzazione è appunto tipicamente carceraria, con personale quasi esclusivamente militare».

«Nei cpt italiani, almeno in teoria, gli immigrati hanno libertà di movimento – prosegue Catania – , possono telefonare, avere contatti con l’esterno. In Libia questo non accade. I telefoni è come se non esistessero. Nessuno li informa di niente. E soprattutto, fatto estremamente grave, ci sono rinchiusi anche minori. Abbiamo assistito a delle scene strazianti di due sorelline egiziane, una di 14 e l’altra di 8 anni. Abbiamo chiesto di poterle incontrare e ce lo hanno concesso. Quella più grande è stata quasi tutto il tempo in silenzio, ha raccontato di essere stata fermata per strada, che vive in Libia da molti anni con i genitori che però nessuno dal carcere ha contattato. Era preoccupata per la sorellina, inconsapevole di trovarsi in quel posto. Al contrario di lei, la più piccola sembrava invece divertita, quasi che vivesse questa vicenda come fosse un gioco. Diceva io vivo qui, questa è la mia casa. Impressionante …».

Di queste strutture ce ne sarebbero tante altre in Libia, ma le «autorità che ci accompagnavano sono state vaghe: ci hanno detto che ce ne sono “diverse”, senza specificare il numero». Dentro ci finiscono sia gli immigrati che tentano di raggiungere «illegalmente» l’Europa sia quelli che una volta sbarcati in Italia vengono rispediti sommariamente in Libia per essere poi rimpatriati nei paesi di origine. «Nessuno degli immigrati che abbiamo incontrato martedì scorso, a detta dei responsabili del carcere, era però arrivato dall’Italia – prosegue l’europarlamentare – Nell’infermeria, dove gli immigrati vengono identificati una volta arrestati, ci hanno fatto vedere la loro provenienza: Sudan, Liberia, Ghana, Congo, Mali, Somalia, Egitto, Palestina». Insomma, essenzialmente profughi, provenienti da aree di guerra. E in guerra torneranno. «Il nodo politico è proprio questo. La Libia non riconosce la figura del rifugiato», sottolinea Catania, che aggiunge: «Il responsabile immigrazione dell’ufficio consolare libico ci ha spiegato che loro non hanno assolutamente intenzione di firmare la convenzione di Ginevra, perché loro non hanno a che fare con rifugiati, ma con “immigrati economici”, così li chiamano. I profughi quindi non hanno possibilità di fare la richiesta di asilo. Abbiamo incontrato anche il rappresentante dell’Acnur a Tripoli, il quale ci ha descritto un quadro deprimente. Ci ha detto che lui, rappresentante delle Nazioni unite, non ha alcun rapporto con il governo Gheddafi. In base alle notizie in suo possesso in Libia ci sono almeno 3 mila persone nelle condizioni di chiedere asilo. Lui è lì per occuparsi di queste persone, ma visto che il governo libico non riconosce lo status di rifugiato, la sua presenza è del tutto inutile».

«Stando così le cose, il ragionamento dell’Acnur al colonnello Gheddafi è questo: la Libia non vuole firmare la convenzione di Ginevra? Bene. Ma almeno faccia un accordo di cooperazione con noi. E invece niente. La chiusura è totale. Che un organismo come l’Alto commissariato dell’Onu venga trattato in questo modo è un fatto gravissimo. Questo, sul piano del diritto internazionale, dovrebbe mettere in difficoltà anche il nostro Paese che, come è noto, ha rapporti di stretta cooperazione con Gheddafi sull’immigrazione. Come è possibile che l’Italia rispedisce i migranti in un paese in cui non è possibile accedere neanche al diritto d’asilo? E’ una violazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani».

Tutto questo mentre l’Italia e tutta l’Unione europea annunciano aiuti economici e auspicano la costruzione di altre strutture detentive per stranieri in Libia. «I libici ci hanno detto chiaramente che c’è un accordo forte con l’Italia, hanno elogiato il ruolo del nostro governo. Ci hanno detto che l’Italia mette a loro disposizione elicotteri e imbarcazioni per il controllo delle coste e del deserto libico. Questo è stato detto in maniera chiara. Su un punto il console libico è rimasto vago: alla domanda se l’Italia paga i voli charter per rimpatriare gli immigrati dalla Libia verso altri Paesi, non ha dato risposte».

Con i presunti aiuti alla Libia, l’Italia sta per caso finanziando centri di detenzione come quello di Fellah? «Noi, nonostante un’interrogazione parlamentare abbia chiesto al ministro dell’interno Pisanu di rendere noto l’accordo italo-libico, notizie ufficiali non ne abbiamo. Il fatto però che la Libia si vanti del buon accordo di cooperazione con l’Italia, lascia pensare che in futuro il nostro paese potrebbe finanziare anche cpt come quello di Fellah. Del resto ci sono molte dichiarazioni, anche a livello europeo, che vanno in questa direzione».

Secondo varie testimonianze gli immigrati verrebbero deportati con i camion alla frontiera e lasciati morire nel deserto. Avete avuto conferme di questo? «Che gli immigrati muoiano nel deserto è ormai ufficiale. Anche i libici lo hanno confermato, spiegando però che queste persone muoiono di stenti nel deserto mentre tentano di arrivare in Libia e non il contrario. Noi abbiamo ribattuto, per esempio, che ci sono prove di profughi nigeriani rispediti indietro. Ci hanno risposto che loro hanno l’obbligo di riportarli alle frontiere».

Secondo il ministro dell’interno italiano Pisanu dalla Libia ci sarebbe un milione di persone in partenza per l’Italia. Avete avuto modo di verificare se è vero? «Lo dicono anche i libici. Ma credo che sia solo propaganda. La mia impressione è che si tratti di numeri buttati lì a caso per giustificare tutto. I numeri più sono alti e più fanno comodo, sia alla Libia che vuole più soldi sia all’Italia e all’Europa che non vogliono immigrati».

Dopo questa visita cosa farete? «Intanto, questa visita mi auguro che diventi oggetto di discussione nel Parlamento europeo. Non bisogna far finta che la cosa non ci riguarda. L’Ue deve impedire che con i soldi dell’Europa vanga favorita la violazione dei diritti umani, perché quello che abbiamo visto martedì nel cpt libico è una cosa disumana e degradante».