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Libri – Sognando Maldini

Tratto dal sito www.migranews.it

E’ bellissimo questo “Sognando Maldini” che (grazie alle Edizioni lavoro) ci arriva dalla Francia, dove ha avuto un grande successo nel 2003 diventando un caso letterario. Romanzo d’esordio di Fatou Diom, trentacinquenne senegalese, da anni a Parigi come la protagonista e voce narrante, Salie. E’ lei che intesse una trama telefonica con Madickè, il fratellino rimasto a Niodior, un’isola del Senegal. Il loro dialogo, lo srotolarsi dei ricordi, le molte incomprensioni si collocano fra il giugno 2000 e quello del 2002, cioè fra i campionati europei e mondiali di calcio. Perché l’idolo di Madickè è il calciatore italiano Paolo Maldini. Così si spiega il titolo italiano che ammicca al recente film di Gurinder Chadha sulle vicende di un’anglo-indiana che sognava invece di emulare l’asso inglese Beckham. Nulla di grave cambiare un titolo, tanto più se invoglierà qualche appassionato di calcio a leggere questa bella storia. Ma al riguardo è opportuno fare alcune precisazioni.
Il titolo originale, “Le ventre de l’Atlantique” rimandava esplicitamente all’idea di un mare-madre (“Nel ruggito delle pagaie, quando la mia nonna-mamma mormora, sento il mare che declama la sua ode ai figli caduti dal parapetto. Partire, vivere in libertà e morire, come un’alga dell’Atlantico” sono le due frasi che chiudono il libro) ma anche a un ventre capace di inghiottire gli schiavi delle navi negriere di ieri e dei barconi di immigrati oggi. E anche il rimando al pur ben fatto Sognando Beckham risulta forzato: perché il film era sciolto e ottimista (un po’ troppo) mentre Fatou Diom scava a fondo rifiutando tutti gli stereotipi, compreso quel melting pot che sarebbe già a portata di mano. Lei sa bene, proprio come la protagonista, che la rima tra France e “chance” (opportunità) è fasulla.

Della rima France-chance è convinto invece Madickè; certo preferirebbe giocare in Italia ma sa che quasi tutti i migliori calciatori senegalesi (lui è convinto di poter essere uno di loro) già giocano in squadre francesi. A modo suo, Madickè prende parte alle aspettative di un popolo, di tanti “ragazzi tormentati da responsabilità troppo grandi che li spingono verso soluzioni disperate”. Troppi figli senza futuro. E dunque… “Partire, senza voltarsi indietro. Non si torna indietro quando si cammina sulla fune del sogno”.

Ma il desiderio di arrivare in Francia è sempre contrapposto a quel che i migranti tacciono. Segreti, omissioni, bugie. O per dirla in modo più gentile: “Che male c’è a selezionare i ricordi?”. Così, ad esempio, per uno dei rimpatriati “i racconti torrenziali non lasciavano emergere l’esistenza squallida che aveva vissuto in Francia”. Non lo ammettono ma tanti sono come lui che “della vita francese conosce solo il fragore delle fabbriche, i cunicoli delle fogne e la quantità di cacca di cane per metro quadro di asfalto”. Chi è andato via non vuole, in qualche modo non può, confessare il fallimento. Mentre chi è in attesa di partire non vuole sapere la verità: “Fratelli miei, in Europa siete innanzi tutto negri, accessoriamente cittadini, definitivamente stranieri e questo non è scritto nella loro Costituzione ma molti lo leggono sulla vostra pelle”. L’integrazione è “una pessima pubblicità Benetton” mentre la sinistra “di laggiù” (cioè in Europa) è sì “la madre di tutti noi ma spesso ci rifiuta il latte e si accontenta di mostrarci il suo bel petto”. Perché molti senegalesi non se ne accorgono? “Il Terzo mondo non può vedere le piaghe d’Europa, accecato com’è dalle sue”.

Tutto questo Fatou Diom sa raccontarlo nel modo giusto, filtrarlo nelle pagine al momento opportuno. Non è un saggio mascherato da romanzo. Incontriamo personaggi vivi (o i delfini-bambini di una favola) che ci invadono. Lo scassato televisore, i dribbling, la danza, “un sole soffocante come la morale”, il gelato che non c’è, tutta l’isola salgono al ruolo di protagonisti. L’autrice incanta con parole vecchie e nuove, con strani accoppiamenti linguistici o concettuali, con ironie e serietà. “La scrittura è il mio pentolone da strega” sorride Salie: “bisogna saper tessere il vento in modo da intrecciare un guinzaglio alle parole”. Semplice a dirsi proprio come il suo scrivere: piacevole, innovativo anche nei passaggi narrativi più difficili. Del resto, la memoria di chi narra “è un ago che trasforma il tempo in merletto”. Quando serve, non usa mezze parole Fatou Diom: “La povertà è la faccia visibile dell’inferno” scrive. Oppure: “i bazooka finanziari puntati verso di noi dall’Occidente”. Non soffre di quel male così diffuso che lei definisce “colonizzazione mentale”. Soffre invece di esilio. “La nostalgia è il mio retaggio” ripete più volte.

L’ossessivo (fino a diventare ambiguo) ritornello dei ragazzi rimasti a Niodior che “ogni briciola di vita deve servire a conquistare la dignità” come, in altri modi, la nonna ribelle di Salie, come Ndétare (il vecchio e sconfitto maestro con “la fede assoluta in Karl Marx”) rimandano tutti a persistenti domande: se altrove si sia liberi, se partendo si possa restare se stessi; se la chance migliore sia andare o restare per tentare di cambiare il Senegal. L’identità diventa spesso uno scudo, soprattutto se si incontrano “bianchi con quel modo sornione di ridimensionare il razzismo per poi praticarlo meglio o rimanere indifferenti di fronte alle difficoltà di chi ne è vittima”. C’è chi allora diventa “razzista, anti-stronzi di ogni razza”. O chi, come il fratellino della protagonista, continua a vedere tutto facile, forse perché la sua identità è in un pallone…. anche se verso la fine del libro Madickè saprà muoversi vero altre scelte. In altri casi “l’orgoglio dell’identità è la dopamina degli esuli”. Un giorno, nella vasca, Salie inventa un’ironica e dolorosa canzone sulla “generazione africana della mondializzazione / attirata, poi filtrata, rinchiusa, rifiutata, desolata / Siamo i Nostromalgrado del viaggio”. Il prezzo della libertà di Salie si chiama solitudine: “straniera in Francia, ero accolta come tale nel mio stesso Paese”. Doppio passaporto ma doppia assenza. Sommare un’appartenenza a un’altra dà zero come risultato, in spregio a ogni matematica nota. “Sono il bambino presentato alla spada di Salomone per un’equa spartizione”. Ma bisogna tentare, “partire, vivere in libertà e morire, come un’alga dell’Atlantico” sono appunto le ultime parole del romanzo. Trovando “filo spinato” ma continuando a cercare nuove patrie, nuove identità sempre più meticce.

Quando chiuderete il libro, tornate all’inizio per rileggere la dedica iniziale e intuirne meglio il senso profondo: “Ai miei nonni, miei fari”. E poi; “a Binetta Sarr, mia madre, mia sorella d’Africa. T’immagino, stavolta, infine riposata, mentre bevi il tè con Maometto e Simone De Beauvoir. Quaggiù, depongo fasci di parole, affinché la mia libertà sia tua”. La nonna-mamma di Salie è una “femminista a modo suo” e di se stessa la protagonista dice: “sono una femminista moderata”. Sul significato – un bel po’ sarcastico – di “moderata” in questo contesto afro-francese si potrebbe scrivere un altro libro. Di certo quelle sulle donne sono fra le pagine che più graffiano l’anima. Fatou Diom non tace sul dominio maschile, sui luoghi nei quali “su ogni bocca di donna è posata una mano d’uomo”. Si rammarica perché “nessuno ha insegnato agli uomini del mio Paese che la tenerezza non toglie la virilità”. Non resta in silenzio sulle complici, quelle donne asservite al dominio maschile che cercano inutilmente di convincerla a non ribellarsi, senza riuscirci perché “la sete di libertà non bada al sesso dell’oppressore”. Denuncia che “sulla nostra terra, un tempo animista e pagana, ora s’incontrano sempre più donne velate (…) come per la colonizzazione ci si sveglierà troppo tardi, quando i danni saranno irrimediabili”. E ancora piange lacrime di collera sulle “veneri nere che vanno ogni sera a letto come Gesù sulla croce”, costrette a vendersi ai clienti, ricchi “dinosauri” bianchi, “libidinosi che vengono solo a visitare paesaggi di natiche nere anziché ammirare il Lago Rosa, l’Isola degli uccelli, i nostri granai vuoti e le nostre baraccopoli tanto pittoresche”.

Quel giorno nella vasca – appunto “improvvisando una ballata sul modello dei canti di lamentazione del mio villaggio” – Salie aveva sintetizzato così l’apartheid moderno: “Passaporti, certificati di alloggio, visti / e tutto il resto che non ci dicono / sono le catene della schiavitù”. Ma lei non si è arresa a quelle catene. “Cerco il mio Paese dove si apprezza l’essere addizionato (…) Cerco il mio territorio su una pagina bianca”. Non più l’emigrazione come “il pongo con cui modellare l’avvenire”. Una speranza, per Fatou Diom, esiste: “sono a casa mia là dove l’Africa e l’Europa rinunciano al loro orgoglio e si incontrano: su una pagina piena delle mescolanze che mi hanno lasciato in eredità”.

Fatou Diom

Sognando Maldini

Traduzione di Maurizio Ferrara
Introduzione di Marie-José Hoyet
Edizioni lavoro
178 pagine
costo: 11 euro